Ma la storia non ti assolverà

La prima reazione a caldo, o a freddo (dipende sempre dai punti di vista e dalle singole percezioni), è domandarsi come si possa definire, chiamare, appellare e concretizzare sotto...

La prima reazione a caldo, o a freddo (dipende sempre dai punti di vista e dalle singole percezioni), è domandarsi come si possa definire, chiamare, appellare e concretizzare sotto un concetto propriamente tale una condizione di permanenza forzata su una nave in mare, per diciannove giorni, subita da persone che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo portandosi appresso solo il bagaglio della loro disperazione e, naufragate, soccorse da una organizzazione umanitaria.

Mentre una Ong salvava delle vite, lo Stato italiano nelle persone dei ministri del governo giallo-verde, impediva loro un approdo sicuro in un porto siciliano. Secondo la magistratura non si ravvisano reati di sorta in quella che è stata definita una “difesa della Patria“, una sorta di sacro dovere dell’esecutivo e, nello specifico, del ministro dell’Interno di allora che doveva fare di quei cento e più scampati alle guerre e alla fame una specie di punto di principio.

Un punto su cui far poggiare la leva di una disumanità che solamente chi è accecato da una specie di ideologia modernamente xenofoba e fintamente patriottarda può lasciare intendere si tratti di un amor nazionale di nuovissimo modello. In questi anni, parallelamente alle sragioni del ministro è corsa una narrazione sulle organizzazioni non governative colpevoli di essere prima dei “taxi del mare” e poi dei fiancheggiatori o sostenitori dei trafficanti di esseri umani o, peggio, di chissà quale campagna di invasione e destabilizzazione dell’Occidente.

L’esagerazione serve per esasperare l’esacerbazione già piuttosto alta della disperazione sociale, collegando difficoltà economiche autoctone a paventamenti di scippi di possibili scampi di futuro in una crisi globale multilivello che tutto lascia intravedere tranne la “sostituzione etnica” di popoli con altri popoli, la mutazione quasi costituente di un mondo con un altro. Del resto, il tema della ruberia lavorativa viene da lontano: fin da quando le prime migrazioni degli anni novanta del secolo scorso davano adito al primo leghismo di infervorarsi.

Il non volere gli stranieri, il ritenerli aprioristicamente degli Arsenio Lupin capaci di sottrarci risorse, occupazione, magari pure case e famiglie, è un refrain di cui si è ampiamente nutrita la nuova destra: secessionistissima prima e poi, con la necessaria svolta salviniana, passata armi e bagagli al nazionalismo sovranista del “prima gli italiani“. Quando non puoi completamente imbellettarti di nuovo, fai finta, per lo meno, di aver innovato il tuo simbolo, i tuoi modi di esprimerti, la tua ipotetica cultura.

Così, rientrando a pieno titolo nel processo trasformistico, tipico della politica italiota, la destra si è aggiornata ai nuovi modelli richiesti da un mercato che necessitava di mediatori ormai introvabili al centro, per consunzione, per sperimentazione fallimentare già testata e che la sinistra moderata non poteva fornirgli per tutta una serie di travagli interni che, almeno all’epoca, non si sapeva dove avrebbero portato il dilemma-anomalia tutto italiano rappresentato dal PD.

Il salvinismo è, similmente al melonismo, uno di questi capolavori di rivisitazione dei rapporti tra vecchi armamentari della destra estrema, ma istituzionale, e una rabbia sociale in cui ha fatto breccia la facile propaganda della semplificazione banaleggiante a tutto tondo: prendersela con le minoranze, equiparate da sempre alla logica conseguenza del parassitismo nei confronti delle maggioranze (che, in quanto tali, vengono quindi ad avere diritti di primazia rispetto all’intera popolazione), è una coerente linea comportamental-politica del conservatorismo.

Soltanto la Lega Lombarda (e Nord) a guida bossiana rivendicava l’anomalia dell’essere antifascista nei primordi della disgraziata (per l’Italia) avventura del castello para-federalista delle repubbliche di Miglio. Ma le alleanze con Berlusconi dipanarono ben presto questo substrato incosciente di aderenza ad uno dei cardini della democrazia resistenziale. Ciò che venne di seguito fu il delirio padanista, la crisi del bossismo, il tentativo maroniano di recuperare sul terreno dell’onestà e poi il salvinismo.

Si potrebbe fare una simile parabola altalenante per il fenomeno meloniano e, in fondo, tutto questo non farebbe altro se non raccontarci ciò che già sappiamo: la destra, a differenza della sinistra, ha saputo adattarsi meglio ai cambiamenti economici, sociali ed anche politici dell’Italia del nuovo millennio. E l0 ha fatto mettendo insieme postideologismi, che poco o nulla avevano a che fare con il liberalismo centrista su cui verteva la tutela dei privilegi capitalisti di classe, e governismo suggerendosi le piattaforme narrative migliori su cui far convergere i malesseri sociali.

La grande questione migratoria è riemersa negli anni in cui il riflusso delle tante guerre imperialiste, declinate all’immenso pubblico televisivo e internettiano come interventi di “esportazione della democrazia” dal civile Occidente, si è manifestato nella forzata fuga da terre inospitali, impossibili da gestire politicamente e preda delle pulsioni multipolari riemergenti dopo il fallimento del dominio americano sul mondo nel dopo-Guerra fredda.

La risposta dei governi europei è stata frammentata, incapace di di coordinare un intervento strutturale che andasse nella direzione anche dell’accoglienza ma, in particolare, in quella della prevenzione dei flussi migratori tramite investimenti sociali nei paesi d’origine dei profughi che scappavano da una invivibilità della sopravvivenza, da una interminabile sequela di violenze che faceva fuggire non soltanto più i singoli, ma intere famiglie.

Il Mediterraneo ha accolto, come tomba sepolcrale perenne, miriadi di corpi di innocenti che questa società globale ha indotto ad un suicidio non voluto. Il respingimento dei migranti non è un atto di patriottismo, di difesa dei confini d’Italia, di protezione e tutela della nazione, di preservazione della stabilità socio-economica a tutto vantaggio della popolazione dello Stivale. Si tratta di una conseguenza logica di una promessa politica cui non è possibile, per chi l’ha professata, deflettere.

Il punto di principio va mantenuto, altrimenti crollerebbe un intero castello di furbizie, menzogne e artefatti che lascerebbe il posto a due, forse a tre, opzioni: un ritorno alla Lega delle origini per rinsaldarsi al nord come partito protettore degli interessi del ceto medio-alto soprattutto del fronte padano-est; oppure una torsione vannacciana, non molto differente dal salvinismo, ma capace di mostrarsi come nuova fase di un destrismo estremo in grado di uscire dalle contraddizioni attuali e gareggiare col melonismo nella contesa di una egemonia nella coalizione.

Difficile, oggettivamente, pensare al passaggio di staffetta tra il già Capitano e l’odierno Generale senza un sommovimento tellurico interno alla stessa Lega neonazionalista. La pars construens dei governatori legge nella realtà attuale delle possibilità di mantenimento delle posizioni istituzionali soltanto in un’esplicita connessione con un rapporto di governo in cui la maggioranza sia duale (quindi un rapporto affine con Fratelli d’Italia).

L’argomento delle migrazioni sarà, dopo la sentenza del tribunale di Palermo, ripreso indubbiamente come carattere primigenio non tanto di una propaganda di bassa lega (in tutti i sensi…), ma come elemento fondante di una politica che fa dell’interesse nazionale una variabile dipendente dall’etnicità e dalla provenienza dei cittadini. Non era certo nell’intenzione dei giudici arrivare a questa conclusione che è, in quanto politica, una conseguenza indiretta della sentenza, le cui motivazioni si potranno leggere tra qualche mese.

Ma è fuori discussione che la legittimazione del trattenimento in mare di imbarcazioni che salvano i migranti ha un precedente giurisprudenziale in più rispetto a ieri; tuttavia questo non significa che, visto che si trattava di un caso particolare e singolare in ogni termine, quanto stabilito dai magistrati oggi possa in via generale valere in assoluto se non nella rivendicazione appunto politica – e per questo strumentale – della conclusione del processo a favore dell’ex ministro dell’Interno del governo Conte I.

L’impostazione più complessiva dei problemi sociali, risolti da questo governo come fenomeni meramente emergenziali che necessitano di una unica e sola risposta, quella securitaria, è il tema che va rimesso all’ordine del giorno di una convergenza tra diritti umani, civili e sociali. Il Consiglio d’Europa avvisa: il Senato della Repubblica sta per approvare un DLL 1660 che ha tutti i crismi per stare al di fuori del minimo perimetro di rispetto delle legislazioni europee in materia e che, quindi, colloca l’Italia al livello paritario di paesi come l’Ungheria.

Il rispetto delle minoranze è fondamentale per la preservazione e la cura costante della democrazia repubblicana. La resistenza in questi termini si configura come un tutt’uno, perché deflettere sui diritti umani e civili significherebbe abbandonare al loro destino anche quelli sociali. La sentenza di Palermo non deve essere letta nei termini sbagliati di un cedimento nei confronti del potere: l’indipendenza della Magistratura va rispettata e considerata tale soprattutto quanto affronta temi e situazioni così difficili.

La lotta va fatta sul piano sociale, politico e culturale. Ed è su questi tre fronti che si apre la possibilità di unificare i percorsi, di far convergere il più ampio schieramento possibile di salvezza repubblicana, di tutela dell’essenza costituzionale fin dentro il suo più genuino, originario progetto di nuova comunità solidale.

MARCO SFERINI

21 dicembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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