Il caso, nel suo specifico, lo accerterà e quindi lo approfondirà la magistratura. Qui possiamo solo discutere di un principio generale: un medico “obiettore di coscienza” rimane un medico a tutto tondo? Oppure, a seconda dei casi che gli si presentano, cessa d’esserlo e si trasforma in un momentaneo assenteista dalla professione, causando, magari, anche danni irreparabili?
Un uomo che viene chiamato alle armi e fa obiezione di coscienza, chiaramente, si rifiuta di imbracciare un fucile e quindi non diviene un militare. Ma un medico, che è già tale, che ha giurato con le parole di Ippocrate di salvare qualsiasi vita, nel momento in cui rifiuta di intervenire su un parto che può causare la morte della madre fino a che il bambino non è morto, per non contravvenire alle sue convinzioni di credente – cattolico, in quell’istante si può dire che sia ancora, appunto, un medico?
L’obiezione di coscienza in questo frangente lo fa automaticamente decadere, proprio nella concretezza della funzione che svolge, da medico: rifiutarsi di curare una persona, di prestarle quelle cure che da protocollo medico e scientifico le possono salvare la vita al costo di negarla ad un essere vivente ma non ancora pienamente cosciente della propria vita, non è un atto contro la vita stessa? Non può essere considerato tutto questo una omissione di soccorso al pari di un automobilista che, dopo aver investito un passante, fugge senza curarsi delle conseguenze?
Se stiamo ad un mero rapporto di causa ed effetto, se la causa è un atto che provoca l’effetto-morte, la similitudine purtroppo funziona, calza a pennello.
Quindi, il punto centrale della riflessione è questo: può la legge, può la Repubblica tollerare l’obiezione di coscienza in campo medico?
Medici cattolici ne esistono molti e hanno i loro diritti: possono e devono pensarla come credono in merito a determinate problematiche che intrecciano scienza medica e fede.
Ma più importante rimane la preservazione del diritto alla difesa della salute di ogni cittadino, di ogni cittadina: e si tratta di un diritto universale, non rifiutabile a seconda del medico che possiamo incontrare in un pronto soccorso o in una sala operatoria di un qualsiasi ospedale.
Abbiamo il diritto di sapere, anzi dobbiamo avere la certezza che, una volta ricoverati, avremo tutte le cure del caso e che il medico non può obiettare nulla in merito all’applicazione delle cure necessarie per evitare la morte con ogni strumento, metodo e cura che non vada contro la decisione del paziente, dei suoi parenti o dal suo compagno o compagna.
A nessun altro spetta la scelta se salvare la madre da un pericolo di morte in seguito ad un parto rischioso fino a che il bambino non risulti più non salvabile perché morto. Non si può invocare nessuna giustificazione di carattere medico per un comportamento che disciplina autonomamente, in base ad una coscienza religiosa, ad una precisa etica che contrasta con l’esercizio della professione medica nella sua espressione più semplice e quindi anche più meticolosa, un “ordine di salvezza”.
Accade che si debba scegliere: salvare la madre o il bambino? La scelta non la fa l’etica cattolica attraverso la coscienza di un medico credente. La scelta tocca professionalmente al medico che può suggerire, sulla base delle sue competenze, ai parenti quale via sia meglio seguire per garantire la sopravvivenza di entrambi oppure di una delle due creature.
Entrano in gioco fattori emotivi immediati, pressanti, impossibili da ricondurre solamente a norme giuridiche o codici deontologici. Ma se la scelta drammatica, appunto, resta tale e non è facile, non è ammissibile che un medico si rifiuti di pensarla in base alle sue funzioni che derivano dai suoi studi e, quindi, dal ruolo di consigliere che deve avere in quel momento per gli attoniti famigliari che, altrimenti, resterebbero catatonici in un limbo di indecisione comprensibilmente legata alla voglia ancestrale e umana di salvare tutte e due le vite. Proprio come vorrebbe la “coscienza” cattolica del dottore in questione.
Ma a volte ci si trova nella totale impotenza, nella situazione del bivio e una scelta va fatta. L’obiezione di coscienza, in questi casi, è il contrario di ciò che vuole rappresentare: non salva delle vite, le nega, le porta alla morte.
Per questo, abbiamo come cittadini il diritto di esigere di non trovarci davanti ad un dottore che, nel momento d’una scelta di questa portata, si scopra obiettore di coscienza e, non badando alla nostra di coscienza e a quella dei nostri cari, ci conduca, con tutto il carico aggiunto della aderenza ad una fede solo sua, ad una morale solo sua, verso la porta della morte. E non per grazia ricevuta, ma per obiezione subita.
MARCO SFERINI
20 ottobre 2016
foto tratta da Pixabay