Ma il “manovratore” di cosa ha paura?

Quando è che il “manovratore” ha paura? Me lo sono chiesto spesso e ho trovato sempre mezze risposte sia da parte mia sia attraverso le indagini che facevo spulciando...

Quando è che il “manovratore” ha paura? Me lo sono chiesto spesso e ho trovato sempre mezze risposte sia da parte mia sia attraverso le indagini che facevo spulciando giornali, testi più o meno storici del movimento operaio e del marxismo ottocentesco e novecentesco.
E’ chiaro, spero, che per “manovratore” si intende chi detiene il controllo dell’economia dominante, chi dirige dalla struttura le sovrastrutture politiche, culturali, religiose.
Chi sia il “manovratore” lo sappiamo molto bene: gruppi ristretti di grandi poteri economico-finanziari che si siedono una volta all’anno (forse anche di più) attorno ad un tavolo e decidono come dirigere la loro potenza fatta di dollari, di oro, di petrolio, di gas, di commerci di armi e quanto di altro, in una direzione piuttosto che in un’altra: quindi verso questo o quel paese, per influenzarne ulteriormente l’assetto anche geopolitico e creare dei punti di appoggio per nuove egemonie in diverse aree del pianeta.
I governi rispondono solamente alla chiamata alle armi del “manovratore”. Chiamato al singolare, questo gruppo di capitalisti e magnati dell’alta finanza, assume l’aspetto proprio della centrale del potere, della dirigenza mondiale dell’economia e della vita di ciascuno di noi, direttamente o indirettamente che sia, consci o non consci che noi lo si sia.
Ma cosa spaventa il “manovratore”? Cosa può renderlo barcollante, insicuro, tentennante, timoroso di fare il passo che di solito fa sempre, ogni giorno, stabilendo così gli indici delle borse e il tasso di sfruttamento del lavoro dei moderni proletari, di conseguenza?
Non credo che il voto lo spaventi: il consenso popolare espresso attraverso le urne può agitare un po’ le acque rispetto ai propositi che si era dato, ad esempio, in Italia. Se vince chi gli è strettamente amico, come Matteo Renzi e il liberista Partito democratico, allora tutto va bene, lo status quo permane e il “manovratore” può continuare a rivolgere lo sguardo altrove. I suoi proconsoli italiani proveranno, come sempre, a fare il loro dovere di difensori del privilegio padronale a scapito delle persone più povere, indigenti, chiamate elegantemente “fasce debole della popolazione”.
Se, invece, vince chi non accetta non solo la “logica”, ma il sistema in cui il “manovratore” si muove e per il quale esiste, allora qualche problemino si affaccia sulla scena. Eh sì, perché costui tenterà di capovolgere le regole date, di provare a mettere al centro dei problemi il lavoro e non quel vago “interesse nazionale” che è la banale e vuota scusa con cui i governi tentano di far accettare a tutte e tutti le controriforme più intrise di lacrime e sangue. Per i “più deboli”, si capisce.
Ma il “manovratore” non si spaventa poi così tanto, sa che troverà un altro Renzi di turno pronto a mettersi al posto di comando con una abile campagna elettorale impostata sul “nuovo”, sulla “rottamazione” del vecchio che, per antonomasia, puzza di desueto, di consumato, di già sperimentato e, quindi, è facile far passare nell’immaginario collettivo come qualcosa di non recuperabile o riutilizzabile.
Del resto tutto si lega benissimo con la logica del consumismo: se una cosa si rompe, oggi non si pensa ad aggiustarla, ma la si getta via al primo cassonetto della spazzatura che si incontra. Poi ci si reca al primo negozio o ipermercato disponibile e la si ricompra, magari a rate. Sono così vantaggiose… (Cui prodest? Non ce lo domandiamo davvero mai..).
Eppure c’è una cosa che spaventa il “manovratore”: non sono le crisi cicliche del capitalismo, che lui crede di poter gestire ogni volta che si presentano a sparigliargli le carte che ha sul tavolo; non sono nemmeno gli scontri concorrenziali tra i diversi poli economici: ci si mette sempre in qualche modo d’accordo con i nemici-amici degli altri continenti.
Il “manovratore” ha paura della coscienza che non esiste, dell’inconsapevolezza del regime in cui viviamo, del mondo che ci circonda e ci permea l’esistenza.
Ritorniamo, dopo trent’anni, ancora una volta a quel “pensiero unico” teorizzato dalla sinistra comunista e da un certo nuovo marxismo moderno, che aveva espresso molto bene la condizione di incoscienza in cui si iniziava a trovare la maggior parte della popolazione proletaria, dei salariati, degli operai moderni, dei lavoratori dipendenti tutti quando veniva accettando le regole del mercato, il sistema delle privatizzazioni e la concorrenza come elemento di crescita globale, quando invece si trattava di uno strumento di gestione delle crisi interne al capitalismo italiano e anche europeo.
A poco a poco i lavoratori e le lavoratrici sono stati abituati a pensare non più collettivamente, socialmente e, quindi, criticamente, ma sul piatto piano dell’egoismo individuale, mostrando loro che i pericoli per le loro esistenze non erano i profitti accresciuti a dismisura tramite le deregolamentazioni dei diritti acquisiti in anni di lotte con la Legge 300, ad esempio, ma i migranti, così come lo erano stati fatti apparire i meridionali nei confronti dei settentrionali. Terroni contro polentoni, africani contro europei.
La drammaticità di queste falsificazioni delle reali condizioni di forza tra le classi ha prodotto una società anestetizzata dalla droga dell’odio verso ciò che non aderisce perfettamente ai canoni sensibili della nostra cultura, dei nostri usi e costumi, del colore della nostra pelle… Ha creato, quindi, dei falsi problemi per nascondere la regia internazionale reale che se la gode un mondo nel vedere i moderni proletari scannarsi tra loro pieni di rancore e odio per difendere quel misero angolo quotidiano di sopravvivenza che ci concedono e che ci mostrano essere il paradiso in terra generato da una economia sempre “in espansione”. Anche quando attraversa le crisi più nere, proprio come in questi ultimi lustri.
Ecco cosa spaventa il “manovratore”: la piena consapevolezza che lui non è un benefattore ma uno sfruttatore e consumatore delle vostre vite; che è una sanguisuga e non un distributore di ricchezze per tutti, anche se in forme e misure differenti.
Lo spaventa la coscienza critica, la presa d’atto che una società diversa non solo è possibile ma è l’unica via per continuare ad abitare questo pianeta e che quella del “manovratore” si regge solo sull’abitudine alla catena di ognuno di noi come se non vi fossimo legati.
Del resto, sosteneva Rosa Luxemburg: “Chi non si muove non può rendersi conto delle proprie catene.“.
Muoversi, oggi, vuol dire abbandonare odio e pregiudizio, disponibilità a credere tanto al padrone quanto al finanziere, tanto a Renzi quanto a Grillo e Berlusconi.
Muoversi vuol dire esercitare anzitutto singolarmente l’esercizio di riattivazione del dubbio, della messa in discussione d’ogni cosa. La critica è un’arma potente. Anche pacifica a volte. Usiamola.
E, per finire questo articolo, non c’è niente di meglio che il vecchio grande appello: “I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare. Proletari di tutti i paesi, unitevi!“.
Ci riproviamo?

MARCO SFERINI

17 giugno 2016

foto tratta da Pixabay

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