Sembra di rivivere quanto già accaduto nel novembre scorso a Parigi. Gli attentati di Bruxelles ripropongono esattamente lo stesso schema sia per quanto riguarda l’esecuzione dei medesimi da parte di Daesh, sia per quanto concerne la conseguente esposizione mediatica, i commenti, le analisi e tutto ciò che viene bene usare per dirigere ancora una volta le menti delle persone verso l’unico nemico da combattere: lo Stato islamico.
Certo che va combattuto e che va annientato. Il problema riguarda le modalità di intervento e, quindi, anche le tempistiche da dare. Ma da dare a chi? A cosa? Ad un’azione militare che nemmeno gli Stati Uniti hanno caldeggiato sino ad oggi, preferendo far sorvolare l’area di Raqqa dai droni e bombardare tanto gli obiettivi “sensibili” del califfato quanto la inerme e terrorizzata popolazione siriana? Oppure l’intervento contro Daesh deve riguardare una azione politica di più lungo cammino, di più lunga lena?
Alimentare la guerra serve solo a prolungare le sofferenze delle popolazioni mediorientali e africane che sono coinvolte nelle tante guerre civili che si combattono sotto e contro la bandiera nera di Al Baghdadi. Intervenire militarmente significa dare una rassicurazione muscolare a questi europei spaventati che si stanno abituando a vivere con la paura negli occhi, con la brutalizzazione delle relazioni umane, con l’insicurezza che tanto Daesh, quanto chi lo ha creato e finanziato fino ad oggi (governi e potenze dell’area mediorientale negli ultimi anni, magnati arabi più o meno nascosti da un ombra di ambiguità che fanno un giorno affari col califfo e ne acquistano il petrolio, e il giorno dopo stringono la mano a plenipotenziari americani…), vuole che sia il punto di riferimento per creare altro disordine, odio, disprezzo e pregiudizio verso chi è straniero.
L’errore che si compie a monte, quando si analizzano questi eventi terroristici, è considerare il killer anche mandante delle stragi. Il killer resta un killer e agisce per conto di una organizzazione terroristica che si autoalimenta grazie alla benevolenza, ad esempio, della Turchia di Erdogan. Quando Ankara consente alle truppe dell’Isis di transitare sul suo territorio per provare ad accerchiare i curdi, quando fornisce all’Isis cospicui finanziamenti acquistandone l’oro nero estratto in Iraq e in Siria (le immagini diffuse dallo stato maggiore russo, nella guerra di posizione con gli Usa, sono emblematiche da questo punto di vista), quando bombarda le postazioni curde e reprime ogni tentativo di rafforzamento della presenza dell’Ypg nella zona di Kobane e lungo tutto il confine siriano, non fa altro che rafforzare il califfato nero.
Allora, la domanda è: quanto il mio amico è nemico del mio nemico? Quanto Stati Uniti, Turchia, Arabia Saudita, Oman, Emirati Arabi Uniti e altri governi della zona sono davvero nemici dello Stato islamico? La realtà, più complessa di quanto possa apparire, è che nello scacchiere siriano si intrecciano i posizionamenti strategici delle grandi potenze e le alleanze si intersecano, si montano e si smontano con una dinamicità e una facilità impressionante a seconda degli interessi che vi sono in gioco: primo fra tutti, mantenere in piedi il governo di Assad per alcuni come Putin e buttarlo a mare per altri come gli Stati Uniti d’America.
E’ una riedizione della guerra fredda, di un fronteggiarsi fra grandi blocchi. L’Europa si trova in mezzo a questi blocchi e non ha nessun ruolo se non quello di garantirsi la protezione economico-politica americana.
Dunque, il terrorismo non si sconfigge con politiche interventiste, mandando i marines a combattere gli uomini del califfo, ma si sconfigge tagliando tutti i finanziamenti che oggi Daesh riceve per vie dirette e indirette. Ed è un inganno per i popoli. Un inganno che viene alimentato ogni giorno, ogni trasmissione televisiva e ogni articolo su Internet con la retorica ipocrita dell’unico nemico da combattere. Il nemico è multiplo e l’amico nostro non è detto che sia così amico.
MARCO SFERINI
23 marzo 2016
foto tratta da Pixabay