Alcuni commentatori della cosiddetta “rivoluzione gentile” iraniana, fatta prima dalle donne e poi anche dagli uomini che si oppongono al regime di Teheran, hanno, soprattutto in alcuni angoli della sinistra cosiddetta “radicale“, osservato che sostenere questa ondata di proteste equivarrebbe ad appoggiare i tentativi di destabilizzazione da parte occidentale dei regimi che, in un certo qual modo, si oppongono all’imperialismo nordamericano.
Siamo sempre nell’infinito di una storia che si ripete uguale, che ha come copione il paradigma per cui “il nemico del mio nemico è mio amico“. Non se ne viene fuori se non mettendo da parte i giochetti di parole e guardando in faccia la realtà sociale di un paese come l’Iran, la cui storia antica parla attraverso i monumenti e le civiltà che lo hanno attraversato, mentre quella moderna ci dice di più di una radicalizzazione religiosa, di una espressione del tutto conservatrice e oscurantista.
Nel 1979, quando le proteste sociali contro il regime della dinastia Pahlavi si intensificarono, il movimento di popolo fu culturalmente e politicamente egemonizzato dal khomeninismo, da quel fenomeno islamico che iniziava, attraverso la preparazione di centinaia di studenti coranici, a preparare una casta clericale che potesse avere le caratteristiche di classe dirigente per un paese che, proprio una estrema accelerazione industriale e modernista, aveva reso inadeguato al governo che continuava a mantenere.
In tutti i sensi. Perché la monarchia Pahlavi era dispendiosa, anacronistica e ormai priva di una aderenza presso le classi più fragili di una Persia che si riconosceva sempre meno nel suo passato, se non attraverso un chiaro riferimento culturale, religioso e, pertanto, anche politico all’Islam.
La trasformazione iraniana inizia, dunque, sulla spinta di uno sviluppo dell’economia moderna, di un accrescimento urbano tutt’altro che indifferente alla concretizzazione di un proletariato che viene impiegato anche nelle industrie manifatturiere (i tappeti persiani sono famosissimi in tutto il mondo) ma, sempre maggiormente, negli impianti di estrazione petrolifera, nella raffinazione, nel commercio dell’oro nero.
Sarà un quadro di sviluppo attorno a cui giocheranno gli interessi geopolitici non solo mediorientali, dell’intera regione del Golfo, ma quelli più globali del capitalismo imperialista a stelle e strisce, nonché gli appetiti delle potenze ostili all’Occidente liberista. Vi si attorciglierà tutto un rinnovamento della geopolitica mondiale che, già a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, con l’ingresso del liberismo sulla scena delle modificazioni repentine del sistema economico, si preoccuperà di espandere il dominio statunitense ben oltre la presenza storica nell’Arabia Saudita.
Forse, proprio mezzo secolo fa, quando la rivoluzione islamica lasciò intravedere un mutamento realmente storico della società iraniana e degli equilibri dell’area di congiungimento tra Europa ed Asia, tra Occidente ed Oriente, anche le sinistre del Vecchio continente potevano attendersi una qualche forma di mutamento della Guerra fredda, di stravolgimento della dualità esistente tra USA e URSS, non avendo ancora alle spalle il gigante cinese in piena crescita economica e demografica.
Ma l’illusione di una Persia che, cambiando anche nome, avrebbe cambiato completamente il suo modo di intendersi entro lo scacchiere mediorientale, si fermò alle soglie di quella imposizione teocratica che Khomeini strutturò immediatamente, dopo averla preparata nei suoi studi a Qom dal 1923 al 1962, istruendo, immediatamente prima dell’instaurazione della Repubblica islamica, migliaia e migliaia di seminaristi. Da lì sarebbe emersa quella classe dirigente nuova che, tutt’oggi, dura e che si esprime in esponenti ora “moderati” e ora più estremisti e conservatori.
Considerare l’Iran di oggi un paese alternativo politicamente all’imperialismo occidentale è legittimo solo nella misura in cui si decide di assimilare al modello teocratico una qualche bislacca, vaghissima idea di evoluzione sociale rispetto al capitalismo liberista moderno. Niente di più falso o, quanto meno, di molto lontano da una coniugazione tra antiliberismo e libertarismo democratico, sociale, civile e moralmente laico.
Di democratico, civile e laico l’Iran degli ayatollah non ha praticamente nulla. Di socialista, di anticapitalista non si scorge nemmeno l’ombra. Il semplice fatto di essere nemici del Satana americano non fa del regime di Teheran un interlocutore per la sinistra, per il progressismo mondiale, per quella necessaria costruzione di una nuova idea di società dove possano stare insieme tanto le libertà civili quanto i diritti sociali.
Il khomeinismo non ha mai preteso di essere altro se non un potere legato a doppia mandata con l’imposizione del culto rigidamente fondamentalista che altera il dettato coranico, perché è nella natura di tutte le teocrazie adoperare le religioni rivelate come fondamento del proprio status di legittimità di governo: non tanto quindi per volontà della nazione, concetto troppo liberale e occidentale per essere declinato entro i cardini di un cambio di regime da assolutista monarchico a assolutista teocratico, semmai, quindi, per espressa volontà di dio.
L’illusione che si possa accrescere l’opposizione alla moderna torsione liberista del capitale globale, segnatamente poi a quello americano, alleandosi o sostenendo la causa di un governo teocratico che nega i diritti tanto sociali quanto quelli umani fondamentali per lo sviluppo pieno della persona e della collettività, è davvero una perversione politica che pare non avere uguali in questo preciso campo.
Se non fosse ancora sufficiente, a dimostrazione della lontananza che c’era e che c’è tra il regime iraniano e le lotte per la libertà dal regime del mercato e dei profitti, basterebbe, anche in questo caso, fare un po’ di storia del movimento operaio persiano: sotto lo scià Mohammad Reza Pahlavi, nonostante lo stabilirsi di relazioni continuative con Washington e le controversie sulla nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana, viene tentata con la “rivoluzione bianca” una riforma sociale vasta che pubblicizza molti settori produttivi, che fa delle foreste, dell’ambiente in generale una proprietà collettiva, un bene pubblico e comune.
Anche i lavoratori, soprattutto quelli agricoli, beneficiano di una riforma agraria che limita il potere latifondista, della grande proprietà terriera, mentre il proletariato industriale, se vogliamo sintetizzare storicamente e socialmente i fatti, assiste ad un cambio di proprietà privata delle aziende.
Nonostante questo tentativo monarchico di radicarsi nel consenso sociale, in particolare della grande massa di poveri che continua a crescere, proprio mentre l’industrializzazione avanza, mentre i salariati raddoppiano nel giro di un decennio (tra il 1963 e il 1974), l’Iran moderno viene influenzato non da idee riformiste e rivoluzionarie, magari vicine al terzomondismo sudamericano, bensì dal clericalismo degli ayatollah.
La via più semplice alla risoluzione delle contraddizioni sociali esistenti, all’immiserimento esponenziale, non appare quella di una rivoluzione progressista e anticapitalista, oltre tutto stretta nella morsa tra occidentalismo americano da un lato e conservatorismo religioso dall’altro. Lo comprende il clero che prende in mano le redini delle proteste, che cavalca il malcontento, che sostiene un programma popolare ma dentro una cornice di potere nuova, dove la proprietà privata non viene messa in discussione, ma subordinata ad una nuova casta: dall’impero alla repubblica teocratica.
Nemmeno la ripartizione del 20% degli utili delle imprese è uno strumento utile alla formazione di un sentimento comune di opposizione critica, di formazione di una massa altrettanto tale nei confronti del fondamentalismo islamico crescente. La rottura con la tradizione monarchica, con la millenaria storia persiana non può avvenire sul modello russo del passaggio dal ruralismo zarista al socialismo sovietico. Non vi sono le condizioni interne, ma anche internazionali, affinché questo possa avvenire.
Gli ayatollah predicano fin da subito, dai primi scricchiolii del trono di Reza Pahlavi, contro i tentativi di annientamento della cultura islamica: l’Occidente è un nemico, ma lo è ancora di più se si guarda al vicino Israele che è protagonista di conflitti espansionisti, mentre i palestinesi iniziano a vedere gli effetti di tutto questo, ridotti ad ospiti non graditi nella terra che è anche loro. Non fosse altro per mandato internazionale.
La “rivoluzione gentile” apertasi con la morte di Mahsa Amini, in realtà, è il prodotto di una serie di insoddisfazioni di bisogni sociali che si protraggono da lungo tempo, unitamente, è evidente, ad una rivendicazione di diritti civili ed umani che sono grandi assenti nella vita quotidiana del popolo iraniano.
La teocrazia degli ayatollah ha regolato la modernità del paese solo sul mantenimento della conservazione del proprio potere. Non c’è stata alcuna apertura in tema di diritti dei lavoratori, di riforme verso gli strati più poveri della società e, tanto meno, riguardo ai mondi di ognuno, alle sfere private, alle culture e alle critiche che potrebbero derivare da una concezione dialettica nelle istituzioni e nella vita di ogni giorno. Si è continuato ad impiccare gli omosessuali, a picchiare, imprigionare e torturare qualunque oppositore, chiunque abbia tentato di manifestare una alterità rispetto al pensiero fondamentalista, al teocraticismo, all’unica morale possibile.
Dalle proteste della primavera del 2021, quando il sindacalismo spontaneista operaio rivendica condizioni salari più dignitose e il passaggio dal corporativismo ad un vero e proprio nuovo modo di organizzare il diritto del mondo del lavoro rispetto al padronato, le manifestazioni non si sono fermate mai veramente del tutto.
Se vi sia una saldatura tra le piattaforme dei proletari iraniani e quelle dei diritti umani e civili, del movimento delle donne che sta pervadendo tutto il paese (con punte di maggiore frizione col potere nelle storiche regioni autonomiste curde, kheuzestaniane e belucistane) è forse presto per poterlo affermare.
Si può ipotizzare che l’onda lunga del movimento operaio non si sia del tutto esaurita e che possa, oggi, diventare protagonista, insieme alle donne e agli uomini di altri ceti sociali, impegnati in lotte anche differenti, di un più vasto fronte di opposizione al regime che resti indipendente dalle spinte verso un occidentalizzazione liberista, strutturandosi così come vera alternativa “altermondialista” tanto all’Ovest quanto all’Est.
MARCO SFERINI
18 dicembre 2022
foto tratta da rifondazione.it/esteri