La guerra, di per sé, è una esagerazione per antonomasia, esponenziale, che termina soltanto quando forze soverchianti ultime sovrastano quelle soverchianti iniziali. All’avanzata di un blocco di potere statale, militare ed economico se ne contrappone sempre un’altra e, nel mezzo, di solito, stanno quei popoli che troppo semplicisticamente ascriviamo al potere stesso, come perfettamente allineati alle politiche dei partiti che inneggiano al conflitto e dei governi che lo sostengono a tutto tondo.
In questo crescendo di orrori, di cui molti fingono di meravigliarsi, quasi che la guerra fosse una sfilata di carri allegorici, piuttosto che armati, al lancio di fiori primaverili, pur nel freddo dell’Est europeo, i toni dei leader occidentali si contrappongono per durezza alla violenza armata orientale: da una parte lo sterminio dei civili, l’assedio delle città, le devastazioni e i saccheggi, le violenze sessuali, le torture che non risparmiano nessuno… E dall’altra parte l’esasperazione della guerra, nessuna azione veramente diplomatica.
Esacerbare i toni è normale da parte del presidente ucraino: è politica estera e politica interna al tempo stesso. Volodymyr Zelens’kyj, in questo modo, lancia al mondo intero le sue grida di dolore e parla al popolo, all’esercito. In quaranta giorni di guerra ha messo in fila più paragoni e similitudini storico-attualistiche di qualunque altro politico o storico con la tentazione del parallelismo necessario a giustificare questa o quella interpretazione proprio della Storia o, invece, del momento in cui si vive e del come lo si vive.
Ha spaziato dall’Olocausto alla Rivoluzione francese, dalla Seconda guerra mondiale alle occupazioni sovietiche ad Est; ha sapientemente adattato i suoi interventi presso i governi esteri alle vicende patite dai singoli popoli di quei paesi e ha, altrettanto intelligentemente, sfruttato le contrapposizioni esistenti, facendo leva su quei punti di forza che potevano dare adito ad uno spirito di contesa benevola tra le cancellerie europee, ad esempio. Ha stimolato i gangli di un sistema nervoso della politica giocando sull’impreparazione di alcuni e sulla sagace, invece, attesa di altri per approfittare del momento adatto e farsi largo sulla scena mondiale.
I discorsi che Volodymyr Zelens’kyj ha tenuto in queste settimane, pur sotto le bombe, pur trasmessi ora dalle sale del palazzo presidenziale a Kiev, ora da qualche bunker, si sono potuti tenere per due ragioni, una pratica e una politico-strategica: la prima è che i russi non hanno fatto saltare l’impianto comunicativo dell’Ucraina: hanno mantenuto le infrastrutture quasi intatte dove la loro tattica era la pressione – seppure brutale e omicida – nei confronti delle regioni attorno alla capitale; la seconda è che l’Amministrazione americana ha approvato quella linea di condotta politica del conflitto.
Raffrontando i discorsi di guerra di Zelen’skyj, Biden e Stoltenberg, mettendo in conto le differenti sfumature frutto dei diversi ruoli che ricoprono, ciò che li unisce non è la prospettiva diplomatica, il dialogo cercato anche laddove pare impossibile, ma il continuo, quotidiano aumento delle asperità angolose di un confronto con Putin che è, oggettivamente, scontro aperto. Sul terreno e, per questo, si dirà: ma come potete pretendere di parlare di pace con chi fa la guerra. Comprensibilmente logico come ragionamento deduttivo.
Ma, di contro, è possibile cercare il cessate il fuoco mentre si alza l’asticella della guerra da entrambe le parti e la parte “ufficialmente” non coinvolta nel conflitto (la stessa parte che arma e addestra gli ucraini da almeno un decennio e spinge per l’allargamento della NATO ad est…) non promuove nessuna azione concreta, non preme sull’ONU, non richiama l’Europa ad un senso di responsabilità a questo proposito?
E’ evidente che la guerra serve agli aggressori come atto imperialista di espansione territoriale, di dominio e di ristabilizzazione del quadro geopolitico-economico della Russia nel contesto mondiale. Ed è altrettanto evidente che la guerra serve a Washington e serve all’Alleanza nord-atlantica per un vicendevole sostegno politico – militare, speculare a quello di Mosca. E siamo sempre al punto di partenza: in mezzo c’è il popolo ucraino che dalle esagerazioni parolaie di Volodymyr Zelens’kyj non è aiutato affatto.
L’esecuzione di centinaia di civili innocenti a Bucha e in altre città dell’Ucraina non è stata impedita dalla guerra contro altra guerra. Tutti questi crimini sono per l’appunto crimini di guerra che le armi alimentano, che il sostegno bellico induce a perpetuare, creando false speranze in una popolazione mandata al massacro. Se non si può fermare Putin a parole e con le buone intenzioni “religiose“, quelle del pacifismo tanto aborrito e condannato come se fosse una presa di posizione puerile e del tutto ingenuamente illusoria, è però vero che non lo si può nemmeno fermare con la presunta deterrenza del mostrare i muscoli con escalation militari e con discorsi sempre più infuocati.
Fosse anche solo per evitare di provocare reazioni emotive in quel presidente e nel suo governo, abbassare i toni aiuterebbe a formare una delegazione diplomatica che abbia il compito, con il mandato di tutti i paesi che vogliono veramente la pace (ce ne sono?), di parlare a nome del “resto del mondo” nei confronti della Russia, per fermare davvero la guerra. Purtroppo gli interessi in gioco sono così tanti da rendere la pace una utopia e la fine delle ostilità un obiettivo ad oggi impensabile.
Le domande sono dunque queste: chi davvero vuole fermare Putin? Chi ha interesse a che il conflitto non si prolunghi?
Le risposte sono sempre più complesse delle domande e, in questo caso, lo sono maggiormente. Zelens’kyj, davanti all’ONU, chiede un tribunale di Norimberga per Putin, per processarlo come criminale di guerra. E’ una richiesta legittima, perché i crimini ci sono e solo gli habitué del complottismo sono capaci di negarli nel nome della presunta controinformazione di cui sono portatori esclusivi.
Ma una richiesta di quel genere rischia di rattrappirsi prima ancora di essere presa in considerazione, perché, per poter istituire una corte internazionale di giustizia come quella messa in piedi dagli alleati vincitori della Seconda guerra mondiale, bisogna prima di tutto avere in potere, quindi arrestare, Putin, Lavrov, l’intero governo russo e i comandanti militari che hanno messo in pratica o consentito le atrocità che oggi denunciamo e vediamo per le vie di Bucha e Irpin.
Se ciò è – come è – impossibile da rendere concreto, di altro non si tratta se non di una ulteriore inspessimento muscolare del linguaggio, di un parolaismo bellico che non serve alle ragioni del popolo ucraino, ma che viene utilizzato per consolidare l’autorità di un governo che, nonostante sia la parte politica aggredita, non è scevro da colpe e responsabilità nella crisi che perdura da due lustri nell’Est europeo.
La frenesia da schieramento conduce gran parte dell’opinione pubblica a scegliere una parte, a scendere in guerra a parole, sostenendo l’invio delle armi, sostenendo l’invio anche di carri armati e mezzi militari pesanti, aderendo puntigliosamente, ma pure molto grossolanamente sui social, ad una linea politica governativa che ci spupazza in una economia di guerra mostrando il tutto come se fosse assolutamente inevitabile e le alternative fossero solo: “O pace o condizionatori accesi!“.
C’è chi vorrebbe tutti e due, viste le estati torride che viviamo da qualche decennio a questa parte per via dei cambiamenti climatici, dimenticando che anche i condizionatori sono parte del problema. E noi stessi finiamo per esserlo, perché la scelta, in prima ed ultima istanza, è tutta, ma proprio tutta nostra. Dalla guerra che sosteniamo “pacificamente“, vendendo armi alla Russia da tempi immemori, alla resistenza ucraina addestrata dagli americani da altrettanto illo tempore…
Nessuno è senza colpe e la domanda su chi davvero voglia la fine della guerra e la pace, rimane lì. Desolatamente inevasa.
MARCO SFERINI
7 aprile 2022
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