Resto sulla soglia del dibattito pre-congressuale che si è aperto nel PD del dopovoto, ma provo ad esprimere qualche considerazione in merito ai rapporti politici che cambieranno se, da quel che si legge a riguardo del percorso a tappe stabilito da Letta, la mutazione democratica sarà improntata ad una messa in discussione praticamente di tutto ciò che fino ad oggi ha rappresentato l’anomalo bicefalo, la creatura veltroniana che aveva fuso cultura socialdemocratica e retaggio democristiano seppure di timida sinistra.
Prima di osservare esternamente i riflessi di quanto sta avvenendo nel campo largo della sconfitta elettorale, sarebbe bene non perdere di vista le ragioni che hanno condotto allo sfracello del PD e che, onestamente, non sono da ricercarsi solamente negli ultimi mesi di governo o, peggio ancora, in una ristretta e miope individuazione di semplici errori di tattica da campagna elettorale, attribuibili ad errori di comunicazione.
Nulla di tutto questo o, per lo meno, non soltanto ciò.
La crisi del Partito Democratico è speculare, uguale e anche contaria, a quella che vive l’Italia maltrattata da decenni di governismi e governicchi, di conventicole politiche dedite piuttosto alla dissimulazione ed al mascheramento dei grandi problemi economici, sociali, collettivi e singoli di milioni e milioni di italiani, messi sotto il tallone delle esigenze del mercato, dell’allargamento della sfera privata a scapito di quella pubblica, invece che all’aderenza tra il concetto moderno di “centrosinistra” e un liberalismo riformista che badasse alla convergenza di interesse diamentralmente opposti.
Una politica, si intende, del tutto contraria ad un avanzamento dei diritti sociali e che, nel solo rispetto delle forme democratiche – a cui il liberismo tiene nella misura in cui gli siano utili per stabilizzare le proprie contraddizioni (anti)sociali – ha trascurato la tenuta degli standard di sopravvivenza di una fascia sociale precaria, impoverita e fatta scivolare verso quella strutturale miseria moderna che nel paniere dell’ISTAT figura con percentuali crescenti ormai da parecchi lustri.
La responsabilità dell’arretramento complessivo della sostenibilità esistenziale di decine di milioni di lavoratori e di indigenti è inversamente proporzionale alle tutele che invece hanno ricevuto i grandi capitani di impresa, i padroni del nuovo millennio a cui il PD, come forza politica molto di centro e per niente di sinistra, ha contribuito a regalare la patente di produttori della ricchezza nazionale, espropriandone i lavoratori che, invece, sono coloro che stanno alla base del PIL italiano, di quella floridità (molto immaginaria) che si è disegnata intorno ad un Paese in crisi strutturale.
Il disastro elettorale che ne è conseguito è figlio di uno scontento sociale che non ha più visto nel PD la soluzione (caso mai lo fosse stata anche in passato…), bensì parte del problema. E non importa come sia stata percepita questa correlazione di responsabilità: ciò che conta è il risultato.
Dopo anni e anni di applicazione del termine “sinistra” ad una forza politica marcatamente spostata sui fondamentali del mercato e del capitalismo di ultima generazione, quello delle privatizzazioni a tutto campo e della riduzione del ruolo dello Stato in tutti i settori strategici dell’economia, ne consegue anche la separazione netta e irreversibile tra chi era di sinistra e si è visto tradito dall’istituzionalismo a tutto tondo dei democratici e dai loro governi.
Si rimprovera ai Cinquestelle di esseri rimangiati tutte le originarie parole d’ordine che erano le pietre angolari della rivoluzione di Grillo e Casaleggio.
Più che giusto, perché, se ultimamente una forza politica ha fatto più giri di trasformistico valzer di altre, ebbene questa è proprio l’M5S che è passato dall’essere in corsa solitarissima e specialissima, differente da tutto e tutti e impossibile da associare ad altri soggetti per la formazione di alleanze, alla resilienza straordinaria – nel nome dell’attuazione del programma – con la Lega di Salvini prima, il PD e Renzi poi e, infine, il governo di “unità nazionale” di Mario Draghi.
Ma, se da parte democratica si fanno queste puntualizzazioni stigmatizzanti, si dovrebbe anche ricordare che il PD delle origini prometteva, si parva licet, un rinnovamento sociale a tutto tondo nel nome di un riformismo che prendesse dai retaggi del socialismo e del popolarismo il meglio delle due grandi culture aggreganti e di massa, mettendo al contempo fine alla contrapposizione storica delle stesse e creando una sorta di interclassismo politico mirante ad essere il punto di equilibrio tra interessi padronali e interessi del mondo del lavoro.
Una aberrazione, ma non una novità. Il modello era quello americano e, forse già in questo riferimento d’oltreoceano, spontaneo e naturale per un Veltroni che aveva di chiarato a suo tempo di non essere mai stato comunista, c’era già una preconizzazione dell’impossibilità di una missione che pretendeva di adattare i tratti del democraticismo a stelle e strisce all’Italia di un post-berlusconismo mai veramente tale.
La linearità stabilita andava ben oltre l’ammirazione veltroniana per la grande repubblica nata dalla rivoluzione contro l’aristocrazia britannica. E non era nemmeno così facile stabilire un dualismo, una sorta di parallelismo tra l’imitazione tutta italica del cinema americano e il piano invece più prettamente politico.
Fuori da ogni metafora, da ogni ragionevole banalizzazione, che serve un po’ a sdrammatizzare i lunghi, estenuanti riferimenti ai prodromi dell’attuale dibattito che ruota attorno al PD e che interessa internamente il partito di Letta, lo svilimento dei valori della sinistra progressista, comunista e socialista prima, liberaleggiante poi, ha prodotto, nell’iter seguito dal PDS in poi, un adeguamento sempre più esponenziale ai disvalori del capitalismo liberista.
Così, ha finito col tratteggiare una consuetudinarietà, una sorta di “normalismo” nel sottomettere ogni rivendicazione egualitaria e ogni simbiosi tra diritti sociali e diritti civili ad una idea di umanità e di società compatibile soltanto col mercato e con le sue varibili.
Indubbiamente i tempi cambiano, la dialettica complessiva e complessa che tiene insieme gli Stati e i popoli in essi pure, ma l’aggiornamento della critica avrebbe dovuto, almeno per un partito che si fosse ancora voluto definire “di sinistra“, reggere al furore dei mutamenti globali e imporsi in Italia come rappresentante di un progressismo, anche moderato, ma pur sempre tale.
E qui conviene richiamare anche la critica, peraltro tante volte formulata e riformulata, per la sinistra comunista, di alternativa o, forse un po’ impropriamente, definita “radicale“.
Se quella che poteva essere una parte moderata ha fallito nel suo abbraccio dell’interclassismo, del profilo esclusivamente governista e compatibilista, la parte anticapitalista, antiliberista e decisa a mantenere un profilo di alterità irrinunciabile tanto come orizzonte quanto come applicazione quotidiana nel Parlamento e nel Paese, non è riuscita ad uscire dall’angolo in cui è stata anche costretta a rifugiarsi dalle scelte fatte dal PD e dai centrosinistra che hanno attraversato la storia d’Italia degli ultimi decenni.
Le colpe che abbiamo sono enormi, ma non sono eviscerabili dal contesto e non sono attribuibili esclusivamente a scelte di gestione dei partiti che si sono disseminati nella galassia del quasi imponderabile. Tutto si tiene, alla fine, e una sorta di relatività della politica è intrinseca alla relatività generale.
Nessuna scusa, nessun alibi. La disfatta storica del PD non è, e non può essere, una vittoria di principio della sinistra di alternativa. E’ semmai una conferma dell’inadeguatezza delle compromissioni politiche che uccidono violentemente la natura del compromesso che, a sua volta, non è sempre da disprezzare se concorre al miglioramento della sopravvivenza di tanti milioni di persone che non mettono oggi insieme il pranzo con la cena.
Il PD per primo, e noi comunisti per secondi, dobbiamo riflettere sulla possibilità di dare all’Italia una sinistra moderata da un lato e una nuova sinistra di alternativa dall’altro. Per farlo, da un lato non basta cambiare segretario e cambiare nome, dandosi una incipriata di neoverginismo progressista con il presidente di regione emergente o con la sua vice che viene già vista come la sola, unica speranza.
Di contro, non basta pensare di scigliere partiti trentennali o anche più giovani, per fare l’addizione delle debolezze che siamo. Unione Popolare ha le potenzialità per nascere sul serio e diventare una federazione di soggetti che vi si riconoscano pienamente, così come in Spagna accadde con Izquierda Unida e poi con Unidas Podemos. Così come in Francia avvenne per il Front de Gauche prima e la NUPES poi.
Ci attende una nuova, lunga traversata nel deserto o, forse, una continuazione della stessa. Per vedere finalmente un’oasi di speranza sociale, civile, morale e culturale toccherà creare una alternativa di sinistra plurale alle destre che si apprestano a governare il Paese. Un alternativa plurale, ma, attnezione, una alternativa fermamente di sinistra e non più un centrosinistra. E’ forse qui che sta il problema dei problemi. Ed è qui che bisogna insistere.
MARCO SFERINI
1° ottobre 2022
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