Le “feste del delirio“. Così si può tradurre “rave party” nella lingua italiana e, a dire il vero, già dal nome non lasciano presagire d’essere convivi in stile primo Novecento con calici di champagne e tartine servite in un verdeggiante salotto privato all’aperto. Chi vuole delirare, è evidente che fa di tutto per sfuggire ad ogni tipo di inibizione possibile. Tralasciamo il campo psicanalitico, almeno per un attimo, e concentriamoci sugli aspetti più prettamente sociologici della questione.
Paranoia, schizofrenia e sindromi depressive qui c’entrano a corrente alternata, ma non sono ospiti di secondo piano nel rave party. Le decine di migliaia di giovani (e meno giovani) che vi prendono parte sono attirati da fenomeni di massa, da condivisioni di momenti che alienino dalla vita quotidiana, dalla pesantezza della routine e dalla noia della ripetitività di luoghi, persone, cose e persino gesti e parole che occupano la mente, la intasano e la rendono impermeabile a qualunque forma di criticità, di ragionamento e di empatia con le problematiche sociali ed individuali che, freneticamente, si sommano nella quotidianità modernissima anche (forse soprattutto) dell’epoca pandemica.
Chi cerca un rave party, lo fa per abitare in un frammento di vita che sfugge a qualunque convenzione, regola, dettato. Tutto nelle feste del delirio è al sopra delle righe: la musica viene sparata “a palla“, i decibel rimbombano per intere vallate; si occupano terreni pubblici o privati, si dichiara una sorta di zona franca dove tutto diventa lecito. Violenze incluse. L’eccesso è l’unica regola che vige, perché lì sta la chiave di interpretazione del “delirio“.
Dalle feste clandestine (tanto per distinguerle dalle buone feste mondane dichiaratamente “ufficiali“) dei primi anni ’90 del secolo scorso a quelle di oggi, i cambiamenti sono molti, ma la struttura rimane la stessa: un tempo il tam tam, l’invito che rimbalza di bocca in bocca, era fatto senza i social: un passaparola, appunto. Oggi, invece, l’amplificazione della notizia avviene con le app più in voga per rimanere anonimi e, allo stesso tempo, essere inseriti in un circuito di collegamento che dà la certezza dell’inclusione, della partecipazione e della condivisione tanto di eventi piccoli quanto di vere e proprie adunanze internazionali come quella cui da giorni si assiste sul lago di Mezzano nel viterbese.
Bisogna avere cautela estrema quando si osservano fenomeni di questo genere, perché si rischia di fascistizzare i singoli comportamenti e di tratteggiare una fisiognomica del rave party esclusivamente negativa, senza lasciare spazio alle differenze, alle particolarità. Parimenti, evitando una illogicità giustificazionista ad ogni costo, rispondente ad una voglia di progressismo altrettanto cieca ed acritica, non si può non stigmatizzare l’impatto devastante che queste feste deliranti hanno su tantissime ragazze e tantissimi ragazzi, indotti ad entrare nella logica del gruppo, dell’emulazione a tutti i costi per non essere isolati, per continuare a fare parte della tribù che balla.
Il vero eccesso, quello ribelle per antonomasia, non ha bisogno dei decibel che spaccano i timpani, di droghe e di superalcolici che mandano in coma etilico per potersi esprimere nella sua pienezza. Ma questo è impossibile spiegarlo ai partecipanti di un rave party: sarebbe come voler convincere un capitalista della ingiustizia del suo ruolo antisociale. Ma se su quest’ultimo è possibile esercitare forme di convincimento che vanno dallo sciopero alla vera e propria rivoluzione anticapitalista, nei confronti dei giovani che occupano una spianata di terreno agricolo per sprofondare in una dimensione altra da quella in cui vivono ogni giorno, ogni coercizione o atto repressivo sarebbe controproducente e finirebbe per alimentare un ribellismo esattamente antitetico alla natura primordiale e naturale della ribellione come essenza stessa dello sviluppo della criticità umana.
La rabbia dei cittadini del viterbese è comprensibile: saranno circondati da migliaia di ragazzi che fumano hashish, che si iniettano droghe pesante, che pippano di cocaina, bevono l’inverosimile e poi calano nei paesi circostanti al grande pascolo dove c’è il campo base del delirio per approvvigionarsi di cibaglie. Magari senza pagare… Non è il massimo della civiltà, del rispetto e, se proprio vogliamo, del decoro.
E’ un delirio nel delirio, ma sgomberare il tutto con l’intervento di poliziotti armati di tutto punto, come vorrebbero i sovranisti di casa nostra, altererebbe quel poco di lucidità rimasta nelle vuote menti di chi da giorni vive sospeso tra l’alterazione psichedelica cocainomane e il delirium tremens da astinenza alcolica. Il quadro del disagio è abbastanza chiaro: questa società getta nello sconforto milioni di giovanissimi, li costringe a liberare i propri freni inibitori dopo aver tolto loro praticamente tutto. Scuola, speranza, dignità, lavoro. La privatizzazione delle menti viaggia all’unisono con quella dei corpi: anche il più morigerato dei ragazzi vuole trasgredire ogni tanto, vuole eccedere e vuole provare un brivido adrenalinico facendo ciò che non ha mai fatto.
Una ubriacatura ci sta. Una canna anche. Ma se una festa del delirio diventa una sommatoria di tutto questo, di eccessi su eccessi, di “sballo” fine a sé stesso, dove non conta più niente, dove perdi ogni punto di riferimento, ecco che poi accadono le tragedie: un giovane va a lavarsi nel lago e annega perché alcol più droga più le orecchie che non sentono alcun rumore o suono, completamente insonorizzate dalla musica “a palla“, sono come un macigno al collo di chi si butta nell’acqua per fare un bagno…
Il mix è devastante, omicida e non ha niente a che fare con la voglia di ribellarsi, di andare oltre il confine del lecito, di superare i freni inibitori, di lasciarsi, per una volta, andare senza doversi preoccupare di niente e di nessuno. I rave party sono una creazione del sistema, indiretta se vogliamo, ma agiscono su menti e corpi al pari delle “fantasie di complotto“: innescano un meccanismo di onnipotenza, di sovraesposizione del proprio ego che avanza indisturbato in un terreno grande, largo, dove non sembra vigere nessuna regola, nessuna legge. Dove, del resto, lo Stato non vuole entrare, nemmeno in punta di piedi, per proteggere quei ragazzi, non per manganellarli. Uno Stato democratico dovrebbe agire in questo senso. Ma in quanto “Stato” è forse chiedere troppo allo Stato stesso: essere padre e non padrone, tendere una mano e non agitare un manganello.
Vietare è un atto quasi sempre spiacevole: si limita qualcosa per qualcuno o qualcuno per qualcun’altro. Ma i rave party sono un pericolo per l’incolumità di ognuno e di tutti, per la salute, per la tutela dei beni comuni ed anche di quelli privati. Non sono una calata di lanzichenecchi, ma finiscono per somigliarvi molto: in tempo di Covid19, poi, sono uno spauracchio ancora più spaventevole, perché diventano la repubblica dell’utopia della fine del contagio o la reunion anche di tanti negazionisti e riduzionisti del virus.
Vietarli è controproducente, ma consentirli è producente? Aiuta quelle ragazze e quei ragazzi a vivere meglio? A questa domanda dobbiamo cercare, prima o poi, una risposta senza scadere nella tentazione repressiva, nel semplicismo del divieto senza spiegazione…
MARCO SFERINI
19 agosto 2021
foto: screenshot