Manifestiamo una serie di certezze durante la nostra esistenza. Queste, per lo più, sono legate ad un rapporto primo con i sensi: sappiamo che possono ingannarci ma, difficilmente, pensiamo che, ad esempio, la vista possa ingannarci se osserviamo un tramonto, un’alba, un fiume che scorre placidamente nel suo letto. Oppure se stiamo giocando con un animale (“non umano“; ricordiamo sempre: noi siamo animali “umani“) o se siamo in procinto di diventare oggetto dei divertimenti dei nostri ragazzi.
In queste attività, così come in quelle più solitarie, ad esempio la contemplazione del cielo stellato, ci affidiamo ai sensi, tanto più alla vista, per avere delle certezze: sappiamo mediante ciò che vediamo e, quindi, acquisiamo della conoscenza che, col passare del tempo, diviene esperienza. Sulla base dell’esperienza noi fondiamo quelle che sono qualcosa di più delle mere convinzioni, perché appartengono ad una oggettività riscontrabile da tutte e da tutti.
La nostra vista non ci inganna se non quando subiamo tutto il fascino dell’illusione, per l’appunto, ottica. A volte pensiamo di aver visto qualcosa che invece si rivela essere esattamente l’opposto di quello che ritenevamo fosse: un esempio classico sono le ombre cinesi o le illusioni cognitive. L’interpretazione che il nostro cervello dà alle immagini caratterizza in questo frangente una conoscenza che, scoperto quello che noi reputiamo un “inganno“, si rivela fallace e quindi non corrispondente al vero.
Accade così nell’osservazione dei cosiddetti “paradossi prospettici” o in quelle “figure impossibili” che sono, in certi casi, anche divenute importanti iconiche opere d’arte ed emblematiche figurazioni della fragilità delle nostre granitiche convinzioni sulla insindacabilità delle percezioni sensoriali. La domanda che viene spontaneo farsi e fare, dunque, è: possiamo veramente affermare di conoscere qualcosa? Possiamo essere certi di sgomberare il campo da un soggettivismo dell’interpretazione del mondo mediante la nostra vista?
Possiamo dire che ciò che vediamo è realmente tale in quanto a colori, forme, dimensioni? È già capitato di discutere e scrivere di quello che può essere classificato come “evidente“ e lo si è fatto riferendosi ad un piano di cognizione razionale, intendendo come tale il campo di quell’esperienza citata poco sopra e che è il metro primo che informa tanto la conoscenza oggettiva quanto quella soggettiva. Ciò che proviene dall’osservazione e dalla pratica empirica è, fondamentalmente, qualcosa che difficilmente si può confutare con teorizzazioni volte a decostruire, per l’appunto, “la realtà“. Sì, quella per antonomasia.
Ossia quella che ci circonda e ci comprende (nel senso che ci include pienamente) e che, in quanto microcosmo terrestre, è grandezza e piccolezza al tempo stesso: partenza ed arrivo delle riflessioni gnoseologiche, sulle possibilità della conoscenza, sui limiti e sulle potenzialità che la nostra mente complicatamente evoluta possiede relativamente dunque all’osservazione del limitrofo come del molto, molto, tanto, troppo lontano. Il significato dell’esistenza sfugge in un rapporto di inversione proporzionale: tanto più ci allontaniamo dal punto in cui siamo, tanto meno riusciamo a comprendere.
Qui per “comprensione” si deve intendere la capibilità delle cose entro, naturalmente, la cornice sempre in espansione del metodo scientifico che pone dubbi, formula ipotesi per oltrepassarle e continuare così sulla retta infinita della tendenza al conoscere e al sapere ma dell’oggettiva impossibilità di arrivare ad un punto di arrivo, ad una soluzione del grande mistero esistenziale. Tanto nostro quanto dell’Universo. Bellissimo il saggio dell’astrofisica Sibylle Anderl che ci porta alla scoperta del rapporto intrinseco tra “L’universo e io” (Solferino, 2018): con una profonda umiltà, la scienziata parte da un presupposto originale.
Un presupposto che le serve per capire meglio il lavoro che svolge e provare a rispondere, già dalle prime pagine, se l’astrofisica sia una scienza a tutto tondo o se abbia invece un ruolo speciale, particolare, diciamo pure “originale” tra le scienze. Questo perché l’oggetto dell’indagine di coloro che studiano il cosmo non sempre è tangibile, studiabile in laboratorio come accade ad esempio per la medicina o per la biologia. Non si può arrivare alle soglie di un buco nero per renderne con lo studio tutta l’evidenza scientifica e la certezza conoscitiva in merito. Non si può giungere oltre un certo orizzonte dell’osservabile anche con potenti telescopi o con le sonde spaziali.
Tuttavia riesce molto difficile poter ridurre l’astrofisica ad un qualcosa di diverso rispetto alle altre scienze; e questo perché comunque, nel riscontrabile, nell’osservabile, nel percettibile, caratteristiche estese oltre i limiti dell’umana fisicità grazie all’intelligenza nostra che ha saputo creare strumenti in grado di farci andare al di là dei nostri stessi sensi, si fonda il principio primo ed ultimo di questa affascinante propensione nell’infinito imperscrutabile di un esistente a cui né la metafisica filosofica né l’empirismo scientifico posso dare una soluzione, costruendovi sotto, sopra e intorno un rassicurante significato, un senso.
Modernissime raffigurazioni di puzzle di immagini scattate dalle sonde in giro per il sistema solare, così come studi meticolosi di quello che viene chiamato “universo osservabile” (la definizione più letterale è: una regione di spazio racchiusa da una sfera centrata su un osservatore da cui si può arrivare fino ad un certo punto dell’osservazione stessa), ci mostrano inebrianti disegni di filamenti di milioni di galassie che sembrano fittissimi reticolati sinaptici e che, se ci lasciassimo andare ad una interpretazione piuttosto suggestionante, potremmo dire essere una parte della mente superiore che ha creato tutto ciò.
Non c’è dubbio che il mistero dell’esistenza dell’Universo e, più propriamente, dell’esistenza medesima, contenga una enorme quantità di altri misteri che la scienza punta a scoprire pur sapendo di non poter mettere la parola fine a questo processo conoscitivo. Il fascino è intrinsecamente proprio di un DNA cosmologico in cui le informazioni per l’acquisizione di sempre maggiore sapere su come funzionino i rapporti di causa ed effetto vi sono ma, spesso e volentieri, sono ancora tutte da scoprire. Molte di queste trascendono persino la nostra immaginazione.
Non siamo nemmeno completamente certi che ciò che osserviamo sia poi così corrispondente al vero. Tanto che – afferma Sibyll Anderl – le teorie del complotto la fanno da padrone quando si parla di altri mondi, extraterrestri, portali dimensionali, passaggi segreti fra questa o quella galassia, multiversi o clamorosi inganni globali tipo un Truman show su planetaria o interplanetaria scala. Ci si deve rassegnare al fatto che siamo prigionieri della Terra e che da qui possiamo poco per manipolare l’Universo e per esplorarlo come vorremmo.
Per fare un esempio piuttosto lampante: se gli uomini primitivi avessero avuto la capacità di costruire delle navi intergalattiche, soltanto oggi, dopo un viaggio durato trentamila anni, saremmo potuti arrivare soltanto al centro della nostra galassia, la Via Lattea. Per giungere in vista delle galassie più prossime alla nostra (come Andromeda), servirebbero poi – si intende, sempre alla velocità della luce! – almeno due milioni e mezzo di anni. L’estremissima ristrettezza temporale della nostra vita non ci permette di scoprire più di tanto in quanto a viaggi nel cosmo. Al massimo possiamo fare andata e ritorno entro il sistema solare… Però, in quanto invece a conoscenza del tutto, di generazione in generazione, ci si augura una progressività inesauribile.
Sempre che l’esistenza della specie umana non debba trovarsi innanzi alla repentina estinzione, prima ancora dei limiti posti dalla natura al ciclo di vita assegnatole (dovrebbe, secondo gli scienziati, aggirarsi intorno ai cinque milioni di anni… nulla in confronto alla vita della Terra… quattro miliardi e mezzo di anni già trascorsi e forse, Sole permettendo, altri quattro miliardi circa da vivere)… Come appare evidente, dal molto piccolo, fallace e fragile essere umano può derivare una capacità conoscitiva piuttosto importante.
Il che non significa che l’Universo corrisponda alle categorizzazioni cui lo abbiamo sottoposto per cercaare di dare un ordine ad un oggettivo continuo disordine della materia. Là, fuori dalla nostra atmosfera, quello che noi chiamiamo “caos” regna sovrano: ogni cosa subisce straordinarie, violente attrazioni e repulsioni. Esplosioni inimmaginabili si verificano con una potenza altrettanto tale e determinano sconquassi che sono, tuttavia, impercettibili nella inifinta non dimensionalità dell’esistente che si estende – questo lo sappiamo, vedendo le galassie che si allontanano da noi – dove non si sa… Nel vuoto che, almeno in astronomia, non è sinonimo di assenza di materia, ma di rarefazione della stessa.
Dove vada l’Universo non si sa. Dove siamo noi possiamo ritenerlo abbastanza certo, pur provando un grande brivido di solitudine nel pensarci soli in tutto questo. Soli con la nostra straordinaria, e al contempo tremenda, capacità autocosciente che ci impone la responsabilità di utilizzare la particolarità unica cui è arrivata la materia, attraverso milioni di anni di cosiddetta “evoluzione“, per migliorare l’esistenza di tutti gli esseri viventi, lasciando intatto il mondo e l’universo in cui ci troviamo.
Una “filosofia dell’astrofisica” è precisamente quello che si propone Sibylle Anderl nello scrivere questo libro che apre le porte ad una divulgazione molto pratica di tematiche tutt’altro che semplici e nemmeno scontate. Dubitare è lecito, avere fiducia nella scienza è necessario. Rifiutare qualunque dogma o apriorismo è la premessa per evitare di cadere nelle trappole eventuali delle involuzioni complottiste.
L’UNIVERSO E IO
UNA FILOSOFIA DELL’ASTROFISICA
SIBYLLE ANDERL
SOLFERINO, 20218
€ 18,00
MARCO SFERINI
1° gennaio 2025
foto: particolare della copertina del libro
Leggi anche: