Mentre il governo Meloni affonda nelle sabbie mobili delle tempistiche strettissime di approvazione dei cosiddetti “piani di messa a terra” del PNRR, la fotografia impietosa che l’ISTAT fa delle condizioni sociali degli italiani smentisce ogni entusiastica previsione dei ministri dell’esecutivo nerissimo delle destre in materia di ripresa economica.
Il rapporto tra il potere di acquisto di salari e pensioni e la crescita dell’inflazione è il nodo attorno a cui ruota una vera e propria crisi che si prolunga oltre la pandemia, che certamente se ne nutre ancora, ma che oggi si uniforma ad una scena europea e globale in cui la contrazione dei diritti comuni, sociali (di riflesso anche quelli civili ed umani, si intende…) è il punto di programma essenziale dell’attacco liberista tanto al mondo del lavoro quanto a quello di unn disagio sociale ancora più vasto.
Le folle di francesi che manifestano da settimane in tutte le città, da nord a sud dell’Esagono, non reclamano ormai più solamente il diritto ad andare in pensione prima che l’artrite li consumi; si legge in queste proteste, veramente enormi e sempre sorprendenti, nonostante la storia laicamente ribelle della nazione giacobinamente intesa ci abbia abituato alla caparbietà del popolo francese, un elemento di ulteriore qualificazione delle lotte.
La gente si sente defraudata dei propri diritti non soltanto più singolarmente, ma come massa, come proprietaria pubblica dello Stato, della Repubblica, della Nazione tutta quanta.
Esponenti del liberismo come Emmanuel Macron hanno forzato la mano anche ad una media borghesia che avrebbe preferito un patto tra ceto medio e lavoratori, tra classi distinte ma con in comune un avversario ben più agguerrito: la grande finanza internazionale, le banche, le aziende che si sono servite del pubblico per tutelare i loro altissimi privilegi transanzionali e transcontinentali.
In Italia l’aumento dell’indigenza ha corrisposto ad una crisi politica che ha mostrato tutta l’inefficacia delle ricette europee: sebbene il nostro, come anche altri paesi europei, avesse bisogno di unità sociale, di uniformità dei diritti, di condivisione delle problematiche, ha ricevuto come risposta la sempre maggiore divisione territoriale e regionale dei servizi fondamentali per la tutela della integrità di ogni cittadino.
Per prima la sanità, a pari merito con i contratti di lavoro, è oggetto di una frammentazione che separa ricchi e poveri e li tratta, nel nome dell’ “autonomia differenziata“, a seconda del produzione di ricchezza di ogni realtà locale.
Il governo, con la proposta di legge di Calderoli, marcia spedito verso un binomio distruttivo, annichilitore delle fondamenta sociali della Costituzione: l’unità del Paese in quanto comunità sociale, civile e morale. L’unità della Repubblica in quanto forma dello Stato democratico ed egualitario.
I numeri che l’ISTAT mostra sono una evidente consolidamento della linea liberista nella gestione di una crisi economica e sociale che si riversa sempre e soltanto sulla povera gente e che, al tempo stesso, mette in questo modo al sicuro i profitti delle aziende che, almeno per quanto concerne l’ultimo quadrimestre del 2022, salgono quasi del 2% rispetto al periodo estivo, quando la guerra entrava nella sua mortifera espansione e non lasciava adito a dubbi sulla sua lunga durata.
Mentre si indurisce il fronte della crisi dalla parte dell’offesiva padronale e finanziaria, la risposta dei sindacati è – per usare un eufemismo – molto timida e diluita in tempi che non hanno minimamente il sapore della presa in carico del disagio sociale, della impellenza delle questioni che sono dirimenti per la sopravvivenza quotidiana di milioni di lavoratori, di precari e di pensionati.
Nessuno vuole insegnare ad altri il mestiere che è abituato a fare, ma le critiche sono pur sempre costruttire quando sono necessarie, quando diventa così evidente il cedimento da parte della CGIL nei confronti della CISL sul piano della controffensiva sociale.
Un sindacato che non prevede degli scioperi in questa fase così complessa per i più deboli, per i meno tutelati, e che si accontenta di tre manifestazioni interregionali molto lontane nel tempo rispetto ad oggi (previste da inizio a fine maggio…), mostra veramente tutte le differenze che esistono tra il modello di lotta francese e quello italiano. Il principio di opposizione alle politiche liberiste e alle prepotenze padronali è incentrato da noi su un compromesso antisociale che si formula già a livello sindacale.
L’esclusione degli scioperi dall’agenda della lotta del sindacato è la sua snaturazione: illudersi di tenere in tensione a lungo i lavoratori in una mobilitazione che non forza in alcun modo il fronte imprenditoriale-governativo, ma che si trincera in una posizione difensiva e attende quasi il corso degli eventi. La “grande manifestazione“, lo sciopero generale, sono considerati dalla CISL una forzatura, quasi controproducenti.
Mentre qui di controproducente c’è soltanto un attendismo vergognoso, quello di una parte del sindacato che, se il governo dovesse fare una timida apertura sulle rivendicazioni esposte, sarebbe senza ombra di dubbio pronto a defilarsi ancora una volta da quell’unità che Landini crede di aver consolidato per il momento. Ma, da attento osservatore dei fatti, è probabile che nutra seri dubbi anche lui in merito.
E allora perché la CGIL non raccoglie il disagio sociale così vasto e non lo fa promuovendo una connessione tra diversi corpi intermedi, sollecitando anche il mondo della politica, della sinistra confusamente detta, intesa e impropriamente tale a sviluppare delle piattaforme rivendicative che diano forza al sindacato e che gli permettano di vincere sul piano della qualità delle manifestazioni mantenendo la quantità delle stesse, la convergenza maggiore possibile?
Nel documento finale stilato da CGIL, CISL e UIL non si parla di quell’autonomia differenziata che così tanto incide ed inciderà in effetti devastanti tanto sul lavoro quanto sulla salute, sulla scuola, su una assistenza alle persone più fragili che dovrebbero poter esssere curate fin dentro le loro case e non essere costrette a regalare le loro pensioni a case di cura private o convenzionate col pubblico per ricevere in cambio dei trattamenti veramente insufficienti al mantenimento della stessa dignità di ognuna e di ognuno.
Le rivendicazioni sindacali che figurano nel manifestino unitario dei tre sindacati confederali è davvero, impietosamente, il minimo del minimo sindacale. Letteralmente inteso. Non c’è nessun richiamo ai lavoratori per una lotta che metta in crisi il governo, che apra finalmente una contraddizione in seno alla sinistra moderata, alla politica delle compromissioni con un mercato e con un capitalismo che stanno defraudando i poveri di quelli che ancora ci ostiniamo a considerare “diritti acquisiti“.
Non c’è nulla di certo, nulla di sicuro, nulla di granitico nel mondo del lavoro e dello sfruttamento di un oggi dove i rider continuano ad essere schiavizzati, gli operai di Portovesme sono in balia delle delocalizzazioni non minacciate ma già preventivate dalla proprietà dell’azienda e i salari, più che rimanere al palo, finiscono nel tritatutto dell’effetto inflattivo.
Le tante, belle parole che si sono ascoltate al congresso della CGIL, escluso l’intervento della Presidente del Consiglio su cui è pietoso stendere un velo nemmeno troppo leggero e sottile, se non trovano anche una parte di traduzione nella concretezza di ogni giorno, nello spettro evidente di una crisi che aumenta e che il governo intende gestire dal punto di vista liberista e che il sindacato non contrasta a tutto spiano, accettando la linea di una CISL che vuole offrire alel imprese e a Palazzo Chigi delle rivendicazioni unitarie ma debolissime, tutte quelle parole altro non saranno se non una ennesima disillusione antisociale.
La crisi di una democrazia non la si intende tale soltanto (e sarebbe, ed è già un bel guaio) quando a votare si reca meno della metà degli elettori aventi diritto.
No, la si deve intendere anche quando il sindacato, che è un elemento costituente del tessuto sociale e civile, morale ed anche politico del Paese, non fa fino in fondo ciò che dovrebbe, mostra una timidezza che va al di là della reverenza formale che, in un certo qual modo, deve alle istituzioni. Qui non si tratta di galateo nei confronti di chi amministra, ma di un adeguamento ad un impianto altro dal lavoro stesso.
Le ragioni dei lavoratori qualcuno le vorrà ascoltare in tutta la loro disperazione e non trincerarsi dietro l’unità sindacale fatta nel nome dell’interclassismo, del compromesso costante piuttosto che del vertenzialismo e della contrapposizione di classe?
Da Maurizio Landini ci saremmo aspettati un energicità maggiore, una risolutezza più marcata, un NO deciso alla linea di una CISL che non si smentisce ma che, da posizioni di minoranza, non deve trasformare la CGIL in ciò che non è mai stata: un sindacato soltanto dedito alla concertazione, dimentico quasi completamente della contrattazione.
Gli ultimi trent’anni non fanno ben sperare, ma un cedimento ora su questo piano dirimente per la vita stessa del sindacalismo operaio, per il mondo del lavoro, sarebbe devastante nella crisi generale che avanza e preme sempre di più sulle tasche dei più poveri e dei meno garantiti.
MARCO SFERINI
6 aprile 2023
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