Nel 1596 una delegazione pontificia guidata dal cardinale Caetani attraversò la Moravia diretta in Polonia. La Moravia e la Boemia erano terre di eretici ed il nunzio papale lo sapeva bene, ma anche lui rimase stupito quando, durante una sosta nella piccola città morava di Slavkov (alias Austerlitz), si trovò di fronte ad una vera e propria esplosione di «sette» eretiche. Annotò nei suoi diari che a Slavkov si potevano «trovare 64, o forse addirittura 70 tipi di eresia».
Un viaggio odierno all’interno del mondo «eretico» italiano ci mostra evidenti analogie con le osservazioni del Caetani.
In quali termini è possibile definire l’«eresia» dei nostri tempi? Esiste un nucleo in qualche modo comune all’interno di questo frammentato universo?
In verità è proprio tale nucleo che ne definisce la caratteristica «eretica». «Eresia» oggi è quella dimensione di analisi critica e di azione politica che si oppone all’ideologia economica dominante. Certo il termine «eresia» è stato adoperato per tutte le forme di critica dell’economia politica fin da quando l’antitesi ai percorsi del capitale è diventata una forza reale. Per circa un secolo l’«eresia», però, si è conquistata spazi teorici e politici che hanno impedito quello che chiamiamo «pensiero unico». Solo a partire dalla fine degli anni Ottanta l’ «ortodossia» ha assunto il ruolo, del tutto «naturale», dell’acqua in cui ci troviamo immersi, in cui nuotiamo. Della «naturalità» si danno analisi tecniche, di contingenti equilibri, non di conoscenza delle correnti profonde che, lentamente, cambiano gli elementi strutturali di ambienti supposti naturali.
La nostra «eresia», invece, si misura proprio alla luce di quei problemi di conoscenza e nelle infinite difficoltà della loro traduzione politica. Il riferimento al contesto teorico dell’«economia critica (l’espressione è di Gramsci) non è, in genere, reso esplicito nei lineamenti politico-culturali delle forze politiche organizzate che pure si trovano continuamente confrontate con i problemi che ne derivano.
Coloro che, come chi scrive, hanno seguito i recenti congressi di Sinistra Italiana e del Partito della Rifondazione Comunista, hanno certamente assistito ad un interessante fenomeno. Gran parte degli interventi dei delegati, soprattutto giovani (dirigenti locali di partito, militanti di partito ma impegnati in movimenti sociali di vario genere), sono stati costruiti su uno schema largamente comune. Il punto di partenza era sempre la concretezza di una situazione di lotta, quella in cui il militante si trovava ad essere partecipe. Le ragioni del momento di antitesi in atto non potevano essere spiegate ricorrendo all’immediatezza dell’attualità. Si doveva ricorrere ad alcuni lineamenti di incompatibilità sistemica tra le ragioni della lotta e le ragioni dei suoi nemici. Sullo sfondo finiva sempre per apparire, in forme più o meno coscienti, un abbozzo analitico in termini di «economia critica». Da questo punto di vista gli interventi di delegati al congresso di SI ed a quello del PRC erano indistinguibili.
Mi sembra un punto di partenza da considerare con particolare attenzione per un vero inizio del processo imprescindibile di abbandono del mondo delle «sette»; non certo di quello della necessaria «eresia». Imprescindibile, appunto, se veramente si vuole uscire dall’irrilevanza attraverso una via diversa rispetto alla tradizione ed all’attualità del trasformismo.
Un percorso che per provare ad avere esiti positivi deve avere ben salde alcune consapevolezze.
La consapevolezza nel mondo politico che si dice «radicale» che la battaglia per l’«economia critica» non è soltanto il compito degli studiosi di professione. La consapevolezza nel mondo politico «radicale» che senza le categorie dell’«economia critica» la pretesa radicalità (andare alle radici) è un puro flatus vocis. La consapevolezza nel mondo politico «radicale» che senza le radici nell’humus dell’«economia critica» le uniche sterminate pianure che si aprono a sinistra sono quelle del trasformismo. Ed infine la consapevolezza che questo nucleo forte della nostra «eresia», se davvero diventa carne e sangue tanto di cultura che di prassi politica, deve diventare anche il collante, elastico ed insieme assai solido, di uno spazio unitario che vada ben oltre il cartello elettorale.
Le ragioni dell’attuale scarsissima rilevanza politica della nostra parte hanno molte cause, le più importanti pesantemente oggettive. Ma non c’e dubbio che la storia infinita della decomposizione tramite scissione usata quasi come meccanismo metodologico di soluzione delle controversie, ne è stata, ne è, una componente non marginale. L’inversione della tradizione, in questo caso, non è un aspetto tattico dell’azione politica, bensì strategico. Proprio sulla base di quel nucleo comune di cui finora si è ragionato, è possibile pensare alla costruzione di un soggetto politico che assuma forme adeguate ai problemi che abbiamo di fronte. Una sfida su cui misurare la trasformazione di un mini ceto politico a personale dirigente nella sfera «eretica» dell’antitesi trasformatrice.
PAOLO FAVILLI
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