La toppa è peggio del buco. Le spiegazioni, le mezze giustificazioni, mal dette, mal poste e bislacche quanto basta per dare adito all’ipotesi che qualche ora in più sui libri e lontano dalla pubblicistica neo e postfascista gli avrebbe fatto bene, non consentono di assolvere il Presidente del Senato dallo sfregio che ha procurato alla Storia e all’impianto resistente e antifascista della Costituzione e della Repubblica.
Lui si è sbagliato, forse ha pure esagerato ma, tiene a sottolineare, la fuorviante interpretazione di quanto ha detto è chiaramente attribuibile ai giornalisti, alla carta stampata e certamente anche al web. Poco importa che questo atteggiamento di supponenza verso i fatti, nei confronti di tutto quanto è oggettivo perché, ancora di più di quelli dei secoli passati, almeno ciò che è accaduto nel Novecento è ampiamente riscontrabile anche con fotografie, filmati e testimonianze dirette.
Poco importa che una ampia fetta di opinione pubblica, certamente maggioritaria rispetto alla minoranza negazionista e revisionista che vota per le forze più estreme della destra postfascista, abbia mostrato tutta la sua indignazione e le opposizioni, fatta eccezione per Conte e i Cinquestelle, abbia chiesto le dimissioni di La Russa dalla seconda carica dello Stato.
Lui, Ignazio Benito Maria, coerente col suo coriaceo carattere di già militante missino e di conservatore dei busti del duce in casa propria, non fa un passo indietro. Del resto, il motto mussoliniano suonava più o meno così: «Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi». Piuttosto che l’orrore del riconoscimento di un barlume di lucidità mentale e di empatia umana, meglio soccombere. Il predappiese la pensava così, i figuranti in camicia nera che lo vanno ad omaggiare ogni anno forse anche peggio.
Sta di fatto che l’indegnità delle parole del Presidente del Senato, stigmatizzata in mille modi, non ha prodotto al momento un reazione da parte dell’interità della politica italiana, almeno di quella parte democratica e antifascista che, seppure di varia origine e di estrazione altrettanto differente, avrebbe dovuto cementarsi davanti ad un attacco così astioso nei confronti dell’integrità morale, civile e sociale del Paese riunita attorno ai valori dell’antifascismo e della democrazia repubblicana.
La distinzione dei pentastellati sulla richiesta di dimissioni di La Russa è un incespicare in una sottigliezza balbettante, priva di qualunque reale obiezione ragionevole che intenda richiamarsi alla buona fede e alla coscienza dell’interessato. Abbiamo avuto modo di constatare la coerenza ideale e politica del Presidente del Senato: preso atto di ciò, non vi dovrebbe essere alcun dubbio sul fatto che nulla potrà fargli cambiare idea o ammettere di stare ancora una volta dalla parte sbagliata della Storia e anche in quella molto civile, democratica e umana di una destra fintamente moderna.
Perché, dunque, richiamare ad una maggiore responsabilità La Russa, sapendo che – come già affermato da lui stesso – ci saranno sorprese per questo prossimo 25 aprile? La frase va intesa in chiave ovviamente negativamente sorprendente. Non c’è da aspettarsi nulla di buono, nessuna rivisitazione coscienziosa, nessun ripensamento, alcun tipo di critica rispetto ai propri comportamenti tanto con i giornalisti quanto con la Camera alta del Parlamento italiano.
Incomprensibile qui è la timidissima reazione dei Cinquestelle che non rientra affatto nel perimetro di quel progressismo politico che intendono rappresentare da qualche tempo, dopo la caduta del governo di Mario Draghi. La divisone del fronte delle opposizioni non è quasi mai una buona notizia, tanto più, se le divisioni avvengono su questioni che concernono i diritti fondamentali, sociali, civili e una cultura delle istituzioni che non può essere separata dalla pratica, semplicemente perché non si tratta mai veramente di mera teoria.
Quanto è avvenuto in questi giorni ha, per certi tratti, dell’incredibile per la spregiudicatezza con cui proprio la Storia è stata trattata, vilipesa, contusa e vituperata da una serie di botte e di sconquassi che ne hanno fatto un non-luogo e al tempo stesso un, per certi versi, onirico antro di distopia in cui tutto è permesso perché nulla ha veramente senso.
Se è possibile permettersi, e permettere, che fatti, persone, cose e accadimenti storici vengano gestiti con il teatrantismo macchiettistico di un cabarettismo di bassissimo profilo, fregiandosi del ruolo alto che si ricopre e, quindi, trasmettere un messaggio che colleghi il tutto ad una legittimazione di alto lignaggio, allora è per prima la verità ad essere in pericolo e, con essa, la Costituzione, la democrazia che sono, fino a prova contrarie, anche un carattere “storico” del nostro Paese rinato dalle ceneri del fascismo e dalle macerie della guerra.
Purtroppo i conti con la propria storia non si possono fare per legge, con decretazione del governo, con una firma e un timbro istituzionali. La Costituzione prima e il Parlamento poi possono vietare la ricostituzione del disciolto partito fascista e ribadire poi con una serie di norme che è vietata la propaganda e l’apologia del fascismo stesso. Ma deve poi essere la cultura singola e collettiva di ogni comunità a sperimentare questi dettami, a tradurli in consuetudini e valori irrinunciabili, in una sorta di religione civile dell’Italia democratica, libera e, pertanto, solamente antifascista.
Eppure per il postfascismo c’è spazio in questa disgraziata, cara Repubblica italiana: l’indulgenza verso la buona fede non ha nulla a che vedere qui con l’utilizzo che molte forze politiche. A cominciare da quelle dichiaratamente nostalgiche del regime criminale di Mussolini, passando per quelle che, avversando socialismo e comunismo, hanno preferito dare spazio agli eredi della repubblichina di Salò per creare la “giusta” destabilizzazione antisociale e impedire che il governo del Paese andasse a sinistra.
Venendo a tempi più recenti, chi ha permesso che si concedesse un credito di costituzionalità politica e di sostenibilità, culturale e civile ad una sciagurata idea di condivisione della memoria, altro non ha fatto se non aprire la strada ad un inquinamento antistorico, ad una innumerevole sequela di revisionismi e negazionismi storici che oggi si rinsaldano dietro la certezza di una mancanza di ostilità da parte dell’esecutivo.
La gravità delle parole di Meloni e La Russa sull’atto di guerra di via Rasella da parte dei GAP e sulle Cave Ardeatine è oggi sostenuta come “libertà di interpretazione” proprio di una Storia che, se narrata e descritta puntigliosamente col metodo della ricerca storica, non consente margini di elucubrazione così diversificati da innestare polemiche sul giusto e sullo sbagliato.
Eppure le polemiche circolano da decenni e decenni, perché l’immaturità culturale, politica, civile e civica degli italiani non ha mai permesso veramente che le loro coscienze facessero i conti con il ventennio per antonomasia, con il dispotismo terrorista del regime di Mussolini, con le distruzioni portate dalla guerra. Per primo il fascismo, e poi tutte le sue declinazioni nazionali a partire da quella certamente più assassina e orrorifica interpretata dal nazionalsocialismo hitleriano, è stato nemico di quello che chiamava il suo popolo.
La dicotomia totalitaria tra sostenitori del regime e oppositori ha messo cittadini contro altri cittadini, persone contro altre persone e ha fatto dell’Italia un paese di spie, di delatori di ogni tipo, di una quotidianità guardinga, infingarda, sollevatrice dei peggiori istinti egoistici, annullando qualunque dimostrazione di empatia. Anche quelle che nelle coscienze di molta gente esistevano, nonostante tutto, ma non potevano venire alla luce del sole per il timore degli arresti, dell’olio di ricino, delle bastonate e delle sparizioni senza più alcun ritrovamento.
Il fascismo è stato tutto questo e anche di più, purtroppo. Non si può indulgere nemmeno un istante nel condannare chi prova a riabilitarlo anche indirettamente provando ad affermare: «Anche Mussolini ha fatto qualcosa di buono». Come ha bene osservato il professor Alessandro Barbero, pure un governo dispotico e dittatoriale, soprattutto ultraventennale, certamente incappa in qualche azione utile per la comunità. Ma il bilancio si fa alla fine della storia. E, almeno per chi ha fondato la Repubblica e ne ha scritto la legge fondamentale, quel bilancio era un disastro completo.
Di quei la gravità della distorsione della Storia, del suo pervertimento in asserzioni apparentemente innocenti ma che, sul medio e lungo periodo, intendono lasciare qualcosa nella moderna eredità inculturale di un Paese sedotto da ancestrali sedimentazioni di rabbia e sconforto, di impossibilità di visionare un futuro per i propri giovani, di avere delle garanzie sociali che consentano un trascorrere della vita in quel minimo della dignità possibile che, comunque sia, è sempre insufficiente e somiglia sovente ad una demoralizzante accettazione di quello che accade.
Scostamento dalla critica sociale e analfabetismo di ritorno sui principali eventi del Novecento, ed anche del nuovo millennio, sono fratelli siamesi di un percorso politico che non è innocente e sprovveduto; tutt’altro: è pienamente consapevole e conscio di ogni proprio passo, di ogni parola detta, di ogni dichiarazione rilasciata pure con tono un po’ celiante, giocoso e goliardico dai microfoni di una radio.
L’unità delle opposizioni, fatte tutte queste osservazioni, va da sé che sarebbe stata utile a dare maggiore forza ad una richiesta di dimissioni per un Presidente del Senato che si fa fatica a riconoscere come tale, per usare una fraseologia ampiamente eufemistica. Non sono da escludere nemmeno atti di disobbedienza civile come quelli proposti da varie parti della sinistra moderata e di alternativa: abbandonare le sedute del Senato ogni volta che la presidenza è gestita da La Russa.
Tutto va considerato per ridare a questa Italia un sussulto di dignità morale, civile e culturale. Vuol dire fondare la socialità a venire su basi diamentralmente opposte a quelle della rassegnazione e dell’atomizzazione delle incoscienze dell’oggi.
Vuol dire non lasciarsi convincere dalla scala di importanza delle questioni che qualcuno ogni tanto prova a mettere sul piatto della bilancia della ben misera dialettica televisiva, provando ancora una volta a separare le sensibilità, a dividere chi potrebbe ritrovarsi unito: le lotte dei lavoratori della Portovesme o della GKN sono fondamentali e non se ne discute. Ma la tutela delle nostre istituzioni e della Repubblica da chi vorrebbe trasformala in altro da sé è altrettanto fondamentale. E’ imprescindibile, è irrinunciabile, è necessaria. Qui ed ora.
MARCO SFERINI
2 aprile 2023
foto: screenshot ed elaborazione propria