Tornare a scrivere di “unità a sinistra” sembra quasi una beffa, una riedizione di ragionamenti che sono triti e ritriti, eppure se ne sente sempre il bisogno sia quando si è in presenza dell’autunno e le lotte dovrebbero riprendere vigore e riattivare la lotta di classe e la coscienza tale, sia quando ci si avvicina ad un appuntamento elettorale e la febbre del voto fa andare in fibrillazione movimenti e partiti, comitati e centri sociali per capire “chi rappresenta chi” e “chi può rappresentare chi” magari fingendosi quel “cosa” che quel “chi” vorrebbe vedere sulla scheda come formazione unitaria, per l’appunto.
Ripeto anche in questa sede che l’unità diventa un mero feticcio se viene agganciata ad un propellente che la trascina verso una meta di aggregazione spinta soltanto dalla paura del sorpasso di un quorum, della competizione con altri blocchi politici formatisi nel nome della “sinistra”, con l’aspirazione di diventare un “fronte” repubblicano, ma privi di quella obiettiva credibilità conquistata nel tempo per dirsi “progressista”, per rappresentare il proletariato moderno delle nostre città e il sottoproletariato delle periferie che oggi si dirige tutto (o quasi) verso forze neofasciste, xenofobe e razziste.
Scrive Luigi Longo nel “Rapporto al XII Congresso del Partito Comunista Italiano”: “Non siamo mai stati per il ‘tanto peggio tanto meglio’. Anche in questa situazione di profondi contrasti e di aspre lotte sociali noi non puntiamo su convulsioni anarchiche, bensì su lotte e movimenti che rinnovino dal profondo e facciano avanzare la democrazia in modo che sia possibile alle grandi masse popolari pesare, con tutta la loro forza e con tutto il loro buon diritto, nelle decisioni fondamentali che interessano il lavoro, la loro vita e la vita della nazione.”.
Ed a proposito della fase che si viveva in quel 1969, continuava Luigi Longo a proposito degli equilibri di governo: “Sappiamo che con il fallimento del centro-sinistra è entrato in crisi l’esistente sistema di potere che è incapace di dare al paese un governo adeguato alle esigenze del momento. Si è creato, per così dire, un vuoto, come si riconosce da varie parti.”.
Il “vuoto” cui fa riferimento il segretario nazionale del PCI sembra proprio simile a quello lasciato dal PD negli ultimi tempi quando, dopo aver troneggiato con issata la bandiera di un rinnovato centro-sinistra, ha determinato le condizioni di trasformazione ulteriore, anzi di un vero e proprio “trasformismo” nel capovolgere i valori di appartenenza anche di un moderato aggregato di culture di centro cattolico e di sinistra socialdemocratica in disvalori, in antitesi rispetto a quanto di pratico una vera sinistra dovrebbe mettere in campo.
Per questo trasformismo di nuovo concepimento, la sinistra è stata continuata ad essere percepita come un residuato di un logoramento temporale che origina dalla pulsione governista occhettiana – sulla scia del proclamato anacronismo del comunismo come rottame della storia dopo la caduta dei governi dei paesi del Socialismo reale (mai realizzato) – e trova il suo completamento nella disposizione totalmente asservita ai poteri forti con l’evoluzione democratica veltroniana che pretendeva di conservare ancora una fisionomia popolare e sociale seppure dentro un contesto liberal-liberista.
Ha prevalso in seguito l’anima rottamatrice, quella “nuovista” contro il nuovismo di coloro che ormai erano non più i giovani quarantenni della svolta della Bolognina eredi di una gioventù comunista degli anni ’80, ma consumati ex presidenti del consiglio, ex ministri, deputati e senatori che non avrebbero potuto tirare la volata contro forze anti-sistema che stavano venendo avanti.
Ma il provare a mantenere la maschera della sinistra con sotto un viso corroso dal liberismo più sfrenato ha soltanto fatto il gioco di destre peggiori di quelle berlusconiane e che oggi si trovano al governo del Paese dopo aver stretto un patto che si fonda su un interclassismo espresso da rappresentenze miste tra il popolare il borghese nell’ambito pentastellato e, invece, nell’espressione politica di una imprenditoria più localistica e protezionisticamente autarchica bene incarnata dalla Lega.
Tutto il pericoloso contorno xenofobo e razzista che ogni giorno viene fuori in differenti misure, decreti, espressioni e gerghi verbali da età della pietra, è il pascolo cui far circolare il popolo che sfoga la sua fame di rabbia e la sua rabbia diventa consenso per un governo che ora deve fare i conti l’Europa dei capitalisti e delle banche in quanto a manovra finanziaria.
Dunque, compreso che questo è il quadro generale in cui ci troviamo innanzi, con una crisi della democrazia che deriva da una destabilizzazione sociale imperniata sulla mancanza di lavoro e di futuro per le generazioni medio-vecchie e giovanissime; compreso che la democrazia si troverà ancora più in pericolo quando si salderanno gli interessi politici del governo con quelli economici della struttura economia padronale, la soluzione non può essere il “Fronte repubblicano” proposto da Carlo Calenda: una nuova forma di federazione di tutte le forze antifasciste e anti-governo gialloverde per riproporre al Paese poi quale esecutivo? Quale guida? Quale programma politico?
Un liberismo fintamente di sinistra o una sinistra veramente liberista?
Che vi sia una eccessiva particolarizzazione e frammentazione a sinistra è un dato oggettivo e “storico”.
Che, a differenza della galassia delle destre (che organizzativamente parlando sono tante e contrapposte tra loro sovente), la sinistra non riesca a pensarsi ed a essere tale proprio perché ci si pensa sempre “unici” nell’essere “sinistra” è un altrettanto storico dato che viene fuori dalla notte dei tempi del mondo socialista e comunista in Italia.
E’ una spocchia che ci portiamo dietro appunto da molto, però è anche vero che tra socialisti e comunisti differenze ve ne sono e che, chi ha tentato di ridurre la parte comunista ad anacronismo della storia oggi è un residuato di un riformismo che ha fallito nell’operazione di azzeramento delle culture socialdemocratiche e cattoliche sociali unite nell’anomalia tutta italiana del PD.
Dobbiamo sfuggire alla tentazione della banalizzazione delle differenze provando a riconoscerle e a legittimarle come frutto di un processo di attualità della storia passata e di conferma di una tendenza irrisolvibile per ora: quella di pensare alla trasformazione sociale in termini differenti per tattica e, in un disegno di più lungo periodo, di strategia politica e, quindi di intervento nel sociale.
Le colpe sono un po’ distribuibili a tutti, me compreso, Rifondazione Comunista compresa.
Ma è tipico dell’essere marxisti e del marxismo in particolare la necessità di ridurre ad un’unica lotta tante differenze, tante diversità e culture estranee tra loro. La stessa natura internazionalista del movimento comunista ci dice che è dovere nostro mettere insieme popoli di poli opposti del pianeta e quindi la differenza sta nella lotta stessa per l’alternativa di società, per il capovolgimento del capitalismo che unifica forzatamente sotto la minaccia dell’assenza di un futuro singolo per i proletari e vuole quindi dividere la massa degli sfruttati.
La capacità del marxismo e della sinistra marxista deve poter tornare ad essere quella di mantenersi “universale” e di risalire da questa universalità al particolare, al differente tanto grande quanto piccolo e provare a fare sintesi per concentrare le lotte e quindi dare un senso ad una alternativa di vita.
Ma di “frustate” ce ne siamo date abbastanza. Ora proviamo, ciascuno dal suo punto di vista di evoluzione sociale e di capovolgimento dell’esistente, a mettere insieme non una testimonianza della sinistra di alternativa ma la sinistra di alternativa stessa, senza vergognarci di dirci socialisti o comunisti se lo siamo o pensiamo d’esserlo.
MARCO SFERINI
19 ottobre 2018
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