Dopo un mese e quattro giorni di guerra, tra le tante non-conclusioni a cui si può provare a giungere – visto che tutto è in in continuo, velocissimo movimento – vi sono alcune osservazioni di carattere generale che comprendono il conflitto armato e che, allo stesso tempo, abbracciano l’intera economia mondiale.
Ciò che accade nell’Europa dell’Est da trentacinque giorni non è riconducibile soltanto al fronteggiarsi di due storici ex blocchi contrapposti, ma riguarda in particolare le potenze emergenti (ormai da alcuni decenni) in Asia e altri Stati che non possono essere sottovalutati nel processo di ridefinizione della globalizzazione e della geopolitica planetaria.
Cina, India, Turchia, Giappone, Iran, Israele stessa, ed anche i paesi del Golfo Persico e una America Latina più defilata ma non esente da influenze interne ed esterne in questa fase della guerra russa in Ucraina, pur non apparendo tra gli attori materiali del conflitto, sono comprimari di una scena equivocabilmente europea , inequivocabilmente globale.
I pesi e i contrappesi che vengono messi sulla bilancia della politica internazionale, da parte delle nazioni citate, sono tali da far considerare come primo effetto concreto della guerra una ridefinizione del concetto stesso di “unipolarismo“.
E’ una osservazione che non si può non condividere, perché, se fino allo scoppio delle ostilità tra Mosca e Kiev, senza sottovalutare la potenza russa e tanto meno quella cinese, si poteva ancora affermare che il mondo era preda di una, pure decadente, egemonia politica e militare statunitense, in aperta competizione con Pechino sul terreno della macroeconomia e della spinta propulsiva di un liberismo multilaterale, oggi tutto questo visionario castello incantato di strutture e sovrastrutture è crollato o, nella migliore delle ipotesi, è decisamente pericolante.
La crisi politica della Repubblica stellata, arrivata al suo apogeo con il suprematismo quasi autarchico trumpiano, non è stata superata dalla rivincita democratica e dalla scommessa sulla presidenza di Joe Biden. Non sono tanto le gaffes del capo della Casa Bianca a mettere in discussione il primo posto degli USA nell’influenza mondiale, perché non è soltanto di rapporti formali tra Stati che si tratta quando si intende discutere di riposizionamento globale della globalizzazione stessa.
La politica estera americana, costellata di insuccessi, di fallimenti tanto diplomatici quanto militari (ultimo ma non ultimo il ritiro precipitoso da un Afghanistan tornato pienamente sotto il controllo dei Taliban) ha iniziato la sua flessione comune con il piano economico e quello militare ben prima della crisi pandemica.
La guerra mossa da Vladimir Putin contro l’Ucraina, non per niente, avviene nel momento in cui il fronte occidentale era e si è trovato frastornatamente impreparato ma, comunque, capace di sfruttare anche le altrui debolezze e la posizione di frontiera di Kiev, sacrificandone il popolo intero innalzato a difensore degli altissimi valori delle democrazie occidentali, per ridefinire la strategia di lungo termine.
Dalle guerre balcaniche alle primavere arabe, passando per le nuove guerre del Golfo, per la lunga epopea del terrorismo internazionale e i suoi ultraventennali riflessi omicidiari di massa in Afghanistan e nel Medio Oriente, la parabola discendente degli Stati Uniti d’America nella lotta per il mantenimento della propria potenza mondiale pareva inesorabilmente destinata ad acuirsi e anche ad accelerarsi.
L’espansione cinese in Africa, la tessitura delle relazioni tra Pechino e i paesi europei (Italia compresa) da un lato e la ripresa del gioco tattico russo nella guerra civile siriana, erano elementi sufficienti per lasciar pensare che agli USA sarebbe occorso ben più di un ripensamento della propria autoreferenzialità sovranista, attraverso il cambio di passo alla Casa Bianca, per venire fuori da una crisi epocale.
Ci siamo un po’ tutti cullati nella semplificazione dei contrasti di confine tra le grandi potenze e tra queste e mondi malamente messi insieme, retti più che altro da unità monetarie tutt’altro che solide e prive di una conformazione strutturale sul piano economico, fisiognomicamente riconducibili ad agglomerati di interessi che – oggettivamente – se separati renderebbero anche il più forte di questi Stati un microbo nel mezzo di una contesa mondiale dove riemerge – quanto meno – un tripolarismo russo-sino-americano.
La corsa al riarmo è stata il demone che ha preso le nazioni, cogliendo, in parte, il pretesto dello scoppio della guerra per sfuggire ai veti contrapposti e a quelli che erano una consuetudine assegnata dalla Storia e rimettersi in gioco nello scacchiere internazionale anche sul terreno della difesa.
La parola “prevenzione” ha interessato i dibattiti di queste settimane: l’aumento delle spese militari non può non essere mostrato ai propri popolo se non come un deterrente. Nel nome della pace, si intende. Visto quello che accade in Ucraina, soltanto dei cocciuti, ostinati pacifisti, antimilitaristi e per giunta comunisti potrebbero opporsi alla difesa della patria dal nemico universale del momento.
Presunti democratici che definivano tiranni i propri vicini, oggi siedono con loro ai tavoli delle trattative, li spingono a trovare una maschera nuovo, un volto vergineo, tanto aggraziato da una sensibilità diplomatica mai vista prima da darsi i pizzicotti per vedere se si è preda di qualche affabulazione onirica.
Mentre l’Unione Europea non recita la sua parte di mediatrice, ad approfittarne sono Turchia ed Israele: lo sguardo del mondo si allontana dal Medio Oriente, dalle crisi umanitarie in Africa e dalle mutazioni politico-sociali che ribollono in America Latina. E’ tutto concentrato sulla carta dell’Europa dell’Est, tra i confini del territorio “protetto” dalla NATO e l’orso russo dato troppo presto per letargicamente schiantato da una globalizzazione in cui, tutt’al più, a sostituirsi al potentato americano sul mondo sarebbe stata immantinente la Cina di Xi Jinping.
Invece, senza voler mettere certamente in difficoltà Pechino in questa operazione di giganteggiamento pantagruelico liberista con Washington, Putin ha sparigliato le carte, ha sovvertito il cambiamento radicale ma spalmato su un tempo più lungo e ha creato, sempre senza averne alcuna intenzione, una occasione per gli USA, per la NATO e per la malandata Europa di riaversi dal tracollo in cui vivacchiavano magnificando il turbocapitalismo del nuovo millennio.
La guerra tra Russia e Ucraina, per quanto si può vedere, leggere e ascoltare dalle più diverse fonti, consente all’Occidente di riprendersi un ruolo nello scenario globale, costringendo il Drago cinese a fermarsi per un istante, senza prendere apertamente posizione nel conflitto, mantenendo tutti i canali aperti, guardandosi intorno per capire chi potrà prevalere alla fine di questa ondata bellica che stravolge i piani di ogni paese.
Indubbiamente le presunte gaffes di Joe Biden non aiutano l’America ad agguantare l’occasione, a speculare ancora una volta sulle sofferenze dei popoli per ritrovare un senso alla propria esistenza ininterrotta di superpotenza (politicamente mondiale prima e anche economicamente globale poi).
Ammesso, appunto, che si tratti di plateali inciampi antidiplomatici e non invece, come è più lecito supporre, una eccessiva sincerità presidenziale, una “voce dal sen fuggita” che ci rivela quelle che realmente sono le intenzioni della Repubblica stellata. Quelle che non si confessano apertamente, ma che, complice anche la sventatezza bideniana, si lasciano intendere nemmeno troppo velatamente…
MARCO SFERINI
29 marzo 2022
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