In un articolo di Marco Bascetta, pubblicato dal Manifesto il 18 novembre, sotto il titolo “I Trattati dell’UE colpevolmente ostaggio dei sovranismi nazionali” colpiscono due passaggi, per altro evidenziati per estratto nell’impaginato del giornale.
Il primo passaggio recita: “E’ stata un’illusione pensare che le fallite democrazie popolari, dopo lo sgretolamento del campo sovietico, non potessero che seguire per filo e per segno il modello occidentale”.
Il secondo passaggio: “Finché l’approvazione del bilancio europeo o di misure eccezionali come il Recovery Fund richiederanno un voto unanime il problema resterà insolubile”.
Le due questioni evocate da Bascetta risultano strettamente connesse a partire dalla questione dei Trattati. La costruzione europea (nata, è bene ricordarlo come propaggine della NATO) almeno da Maastricht all’adozione della moneta unica e via via a seguire (con il fallimento del trattato di Nizza), è risultata il frutto di una impostazione politica ben precisa,quella impressa dai politologi conservatori USA cui tutti più o meno si sono allineati.
L’impostazione era quella che la caduta del muro di Berlino rappresentasse la “fine della storia”, teoria elaborata da Francis Fukuyama allo scopo di rappresentare un presupposto filosofico al trionfo del liberismo della scuola di Chicago e all’allineamento alle teorie di Von Hajek.
Su queste basi è avvenuto l’allargamento a Est dell’Unione nella convinzione che:
1) ormai gli USA funzionassero irreversibilmente da unica superpotenza e da “gendarme del mondo”;
2) l’Est post – sovietico rappresentasse una sorta di “prateria del mercato” nella quale scorrazzare importando individualismo competitivo, società impostata su abbandono del welfare e superflui consumi indotti, presunta democrazia di tipo “recitativo”, privatizzazione selvaggia di fonti energetiche e di strutture militari di fondamentale importanza.
Vado per le spicce: né la socialdemocrazia europea (già in piena crisi) né il comunismo italiano (pronto a confondersi con il “crollo” in nome dello sblocco del sistema politico e della vocazione governista) furono in grado di proporre un modello alternativo all’imperio liberista.
Il resto è storia che si sta riproducendo in una fase molto particolare nel corso della quale lo spostamento d’asse della globalizzazione verificatosi con la pandemia ha assunto le vesti di una complessità multipolare che non sarà certamente riequilibrato dalla vittoria democratica negli USA: riprendo Oliver Zajec da “Le monde diplomatique” “Gli equilibri strategici globali, tuttavia, non sono più determinati dall’identità dell’inquilino della Casa Bianca e dalle scelte diplomatiche statunitensi”.
Per dirla in soldoni: sarà difficile poter pensare di rimettere sui binari la complicata situazione europea con la semplice riapertura del “ciclo atlantico”, così come molti stanno credendo.
Non è sufficiente pensare a uno schema di nuovo bipolarismo: USA versus Cina/Russia dove il 5G costituirà l’oggetto del contendere e l’Europa compirà atto di schieramento come ai tempi di De Gasperi, Monnet e Adenauer.
Servirebbe, invece, fornire un’idea di modello economico – sociale alternativo. Non basterà comunque sollevare la “questione ecologica” (pur fondamentale) e la democratizzazione dell’espansione digitale. Il complesso di contraddizioni in atto deve essere affrontato per intero in una coraggiosa opera di aggiornamento e di rielaborazione.
Si sono perse le tracce di una “volontà alternativa” con la sparizione di soggetti politici “nazionali” (il processo di cessione di sovranità dello “Stato – Nazione” si è sicuramente rallentato) capaci di declinare una identità transnazionale in termini di moderna “internazionalità”.
L’UE del “deficit democratico” non è soltanto subalterna ai grandi equilibri globali ma anche percorsa da velleitari bonapartismi come quelli espressi dal presidente francese.
Stiamo attraversando il momento più drammatico dopo la fine della seconda guerra mondiale e scontiamo l’assenza di una sinistra europea capace di produrre una visione del futuro non riducendosi ad esaminare una frattura per volta. Una sinistra europea capace anche di esprimersi nel solco delle grandi tradizioni passate, quella della socialdemocrazia e quella del comunisti italiani.
Grandi tradizioni cui è mancato, nel recente passato, non soltanto una possibilità di intreccio ma anche di costruzione di un progetto comune che non fosse quello dell’accettazione liberista di Clinton e Blair.
Sarebbe necessario uscire da quell’angolo oscuro.
FRANCO ASTENGO
19 novembre 2020