Lucio Libertini e… la Bolognina

Quando si apre il dibattito sulla trasformazione del Partito Comunista in un nuovo e inizialmente non ben definito soggetto politico (“la cosa”), Libertini si schiera nettamente sul fronte del...

Quando si apre il dibattito sulla trasformazione del Partito Comunista in un nuovo e inizialmente non ben definito soggetto politico (“la cosa”), Libertini si schiera nettamente sul fronte del “no”. Una posizione che terrà per tutto il percorso dal quale nasceranno il Partito Democratico della Sinistra e il Partito della Rifondazione Comunista. Libertini, come sappiamo, sarà uno dei promotori e fondatori di questa seconda esperienza politica.

Sintetizzando le ragioni del “no”, Libertini contesta che la questione del nome sia irrilevante, perché esso identifica un’identità politica e culturale e ogni contenuto, ogni programma ha la sua radice in una identità. Abbandonare il nome vuol dire tagliare gli ancoraggi ideali e diventare preda di una deriva verso destra.

Fatta questa premessa, il tema centrale che sollecita nel confronto ruota attorno ad un interrogativo: se il fallimento dei regimi dell’est Europa determini una vittoria definitiva del capitalismo o il bilancio di quell’esperienza, che va certamente fatto, con quella che chiama la loro “tragica degenerazione”, cancellando l’esistenza di nuove e gigantesche contraddizioni del capitalismo. Sono queste contraddizioni a riproporre la questione del socialismo e in un orizzonte ideale più la lontano, del comunismo(1).

Libertini era evidentemente consapevole che una crisi era inevitabile per effetto degli stravolgimenti sociali e politici che erano in corso e che colpivano certamente la stessa prospettiva di fuoriuscita dal capitalismo. Era quindi necessaria una “rifondazione” ma la proposta della maggioranza del PCI, sostituendo un’identità con una “fuga nel vuoto”, era destinata a trasformare la crisi in disfatta. Rifondarsi era necessario, abiurare certamente no. Una valutazione che può essere verificata alla luce della situazione attuale.

All’interno del fronte degli oppositori al superamento del PCI confluivano tendenze diverse che nel corso degli anni si erano andate differenziando su questioni importanti. In genere le ricostruzioni successive, ma anche quelle del tempo, indicavano la convergenza di tre correnti: la sinistra berlingueriana, gli ingraiani, ai quali erano affini per tematiche e sensibilità coloro che erano entrati nel PCI dopo l’esperienza del PDUP e prima ancora del Manifesto e l’area che si era raccolta attorno a Cossutta.

Da questo punto di vista Libertini non aveva aggregato una propria sensibilità ma, in modo anche originale, interpretava elementi che all’interno dello schieramento del “no” erano variamente distribuiti, anche se rispetto all’area che faceva capo a Cossutta aveva sempre avuto una posizione radicalmente diversa nel giudizio del cosiddetto “socialismo reale”.

Come mai Libertini si schierò a difesa di un partito con il quale aveva spesso polemizzato e nel quale, al momento della sua adesione, aveva dovuto scontrarsi con una certa ostilità? Attraverso quali percorsi di analisi e di riflessioni arrivò a formulare la propria posizione nel dibattito interno al PCI nella sua fase finale e anche il rifiuto di pensare alla praticabilità di una corrente all’interno del neonato PDS?

Una risposta a questo interrogativo può essere almeno accennato richiamando idee espresse nell’arco di una trentina d’anni.

In un intervento su Rinascita del novembre del 1964(2) rivendicava le ragioni della formazione dello PSIUP, di cui era uno dei dirigenti, respingendo “l’illusoria via del condizionamento” interno come corrente di sinistra del PSI. Così scriveva:

La regola era – ed è in parte – quella di non perdere contatto con la destra socialdemocratica; e quindi di evitare un urto aperto, cercando viceversa di frenarla sulla strada dei suoi cedimenti, inchiodandola di volta in volta al suo penultimo cedimento. In questo modo – non sempre, ma spesso – la politica unitaria è scaduta al livello di un tatticismo di vertice, di un giuoco sulle formule, ed è stata insensibilmente privata dei suoi contenuti.

Per Libertini i due processi più rilevanti che si erano aperti nella seconda metà degli anni ’50 erano il crollo del dogmatismo staliniano e lo sviluppo di un capitalismo moderno. Tutto ciò doveva aprire una riflessione e un’iniziativa politica che ponesse all’ordine del giorno il tema del socialismo e in particolare di una democrazia socialista anche nelle aree di capitalismo avanzato.

Intervenendo sulla questione, aperta da un intervento di Amendola proprio in quei mesi, della costituzione del partito unificato della classe operaia, Libertini chiariva, con l’abituale franchezza:

Su questo terreno si pone il grande e urgente tema del partito unificato della classe operaia che non può essere l’insipido e assurdo minestrone di un generico “partito del lavoro”, bensì il partito della rivoluzione socialista, e quindi della democrazia socialista.

In diversi suoi interventi, in quegli anni, Libertini segnalava una sua vicinanza in particolare alle posizioni della sinistra del Pci e segnatamente a quelle di Ingrao. Quando nel 1972 decise di confluire nel PCI, trascinando con sé quasi tutto il gruppo dirigente della federazione del PSIUP di Torino, la sua decisione non venne accolta con molto favore. Fu soprattutto la destra del PCI a fare opposizione anche se perplessità ci furono nello stesso Berlinguer(3) .

Com’è noto si ricorse ad uno scambio di lettere sul settimanale Rinascita per chiarire le questioni politiche considerate irrisolte nell’adesione di Libertini al Partito Comunista. Nella risposta all’intervento di Luciano Gruppi, che evidentemente non parlava a titolo personale, Libertini riprendeva un tema che era stato oggetto di particolare dibattito nella sinistra ed anche del Partito Comunista, in particolare nel Convegno del Gramsci del 1961:il rapporto tra elementi di arretratezza e modernità nelle contraddizioni del capitalismo italiano(4). Questione che aveva importanti ricadute sulla strategia politica dei partiti della sinistra.

Libertini teneva a distinguere le sue posizioni da quei compagni confluiti poi tra le forze collocate a sinistra del PCI in quanto riteneva che le vecchie contraddizioni del sistema capitalistico italiano non fossero cancellate (ad esempio la questione meridionale) ma che principale e dominante fosse la contraddizione tra capitale e lavoro.

I contenuti di una strategia politica alternativa doveva fondarsi sulla comprensione dell’intreccio tra fattori avanzati e fattori arretrati, necessità di cambiare il meccanismo di sviluppo, ruolo in tal senso delle lotte operaie avanzate, perno di un vasto sistema di alleanze che investa tutti gli aspetti della società.

Tutto ciò – scriveva – mi ha condotto sin dal 1958 non già a negare l’importanza delle rivendicazioni “democratiche”, ma a sostenere che esse dovessero essere collegate con una linea più avanzata che faceva perno sui delegati e sui consigli operai, e mettesse in discussione l’organizzazione del lavoro.

Libertini tornerà successivamente(5) sulla divaricazione di posizioni con il filone teorico che aveva in Panzieri il suo punto di riferimento. Rivendicava le tesi comuni sul controllo operaio che corrispondevano all’esigenza legittima di reagire a orientamenti populisti o genericamente democraticisti della sinistra italiana; di riportare il centro del discorso sulla fabbrica, di rivendicare la centralità della classe operaia, di tentare una analisi serrata del processo di produzione capitalistico nella fase presente, rileggendo Marx alla luce degli sviluppi reali.

Prendeva però nettamente le distanze da tutto il filone, cosiddetto “operaista”, che aveva preso le mosse dai “Quaderni Rossi”:

Ma la rottura polemica che veniva consumata con i partiti della sinistra storica, il prevalere della ricerca intellettuale astratta sui dati veri della esperienza condusse questi gruppi a isolare la fabbrica dalla società – che è cosa diversa dal rivendicarne la centralità – e a cadere in una sorta di massimalismo colto; e spinsero gli epigoni di Panzieri verso visioni del tutto astratte e unilaterali (…)

Nella sua riflessione critica su alcune delle tendenze emerse nel sessantotto, di cui Libertini rivendicava esplicitamente la validità e anche la forte caratterizzazione operaia, sollevava un altro tema che presenta ancora accenti di attualità.

Sottoponeva a critica quegli orientamenti che partivano da un’attenzione praticamente esclusiva allo specifico sociale e di cui rintracciava le basi in una “radice cattolica, missionaria”. Non si può certamente negare il valore del richiamo alla realtà sociale com’è, alle lotte e ai movimenti che scaturiscono da condizioni specifiche e assumono potenzialità di rottura degli schemi sociali dominanti.

Ma se si perde di vista la sfera politica, i rapporti politici, una concezione più organica della lotta di classe, -sottolineava – e ci si limita a ignorare le strutture istituzionali o a irriderle, lo specifico sociale diventa paradossalmente una gabbia che separa i militanti dalla società reale, e quel che sembra il massimo di concretezza si rivela poi come il massimo dell’astrazione. Nella società vi sono continuamente momenti di sintesi tra la sfera sociale e la sfera politica, e questo fa poi la storia, il sistema di connessioni entro il quale si svolge la lotta della classe operaia e di tutti i lavoratori: ignorarli conduce a una visione deformata delle cose, che oscilla ingenuamente tra la catastrofe e la palingenesi.

In un altro testo segnalava l’indispensabilità di un giusto rapporto tra il momento del movimento, della lotta e il momento dello Stato, della direzione complessiva:

Non sono realistiche quelle soluzioni che pretendono di ridurre il movimento fine a se stesso e di isolarlo dalle grandi questioni della società e dello Stato.(6)

Un altro tema che attraversa la riflessione e anche le battaglie politiche di Libertini riguardano evidentemente la questione dello stalinismo, il giudizio sull’esperienza sovietica e i paesi dell’est Europa. Abbiamo visto come il suo giudizio critico rivendicato nei suoi interventi nel dibattito sullo scioglimento del PCI non lo conduca a ritenere chiusa la questione del socialismo e dell’orizzonte comunista.

La polemica contro il dogmatismo staliniano lo aveva caratterizzato sin dalle sue prime esperienze politiche e lo aveva portato per lungo tempo anche a battaglie politiche in gruppi isolati o comunque molto minoritari. Confluirà poi nella sinistra socialista all’interno del PSI, ma anche in questo ambito le sue posizioni non erano affatto maggioritarie.

Nella lettera a Rinascita del 1972, pur riconfermando dissensi con Togliatti contenuti in un suo testo biografico dello scomparso leader comunista, ricordava di aver apertamente sostenuto e valorizzato il “Memoriale di Yalta”, che Togliatti redasse poco prima della morte. Quel documento, sottolineava Libertini segnava il suo avvicinamento alle posizioni del PCI, di cui aveva poi rilevato le posizioni coraggiose e di grande apertura assunte sull’invasione della Cecoslovacchia. Mentre quello che era allora il suo partito, lo PSIUP, esprimeva ambiguità e contraddizioni.

Questo avvicinamento, che consentiva di rimuovere uno dei punti di maggior dissenso con il PCI e anche con gran parte della stessa sinistra tradizionale del PSI, permise a Libertini di intervenire proficuamente sui temi posti prima dall’eurocomunismo e poi dalla terza via. Questi erano intesi come momenti di ripensamento critico delle esperienze del socialismo, caratterizzate da autoritarismo e repressioni, senza confluire nella visione socialdemocratica.

La socialdemocrazia, scriveva in un saggio pubblicato da una rivista marxista latinoamericana(7), nella sostanza accetta il capitalismo anche se cerca di apportarvi delle correzioni. Il massimo di novità tollerato dalla socialdemocrazia è un più ampio ruolo dello Stato assistenziale che non modificando i meccanismi di produzione finisce per influire negativamente sullo sviluppo. In questo modo rischia di convertirsi in un lusso per i soli paesi ricchi. Inoltre, l’altra critica di fondo, è quella di separare i problemi sociali, ridotti alla distribuzione della ricchezza prodotta, dal rafforzamento della democrazia, che si identifica tout court con i sistemi democratico-borghesi così come sono.

Al contrario la posizione eurocomunista tende a trasformare la società e a superare il capitalismo collegando strettamente le riforme di struttura, i mutamenti del sistema di accumulazione e di sviluppo con il progresso della democrazia, mantenendo i valori positivi ereditati dalla rivoluzione borghese ma estendendo la partecipazione delle masse. Per questo però occorre definire una scienza politica marxista, che a partire dal giudizio sullo Stato e dal suo rapporto con la società, le classi, i movimenti, sia in grado di elaborare le istituzioni e le forme della transizione.

Ho voluto segnalare questi interventi, seppure evidentemente in modo molto sintetico, per ricordare come Libertini, nella sua ventennale presenza politica all’interno del Partito Comunista Italiano non si occupò solo, con competenza, di temi concreti, ma anche di quelle che un tempo si sarebbero chiamate: “questioni di dottrina”. Il suo contributo non può quindi essere congelato alle sole tesi sul “controllo operaio” del 1958, rispetto alle quali operò aggiornamenti, integrazioni e sviluppi nuovi alla luce di quella concreta esperienza politica di massa che fu la sua presenza nel Partito Comunista Italiano.

L’attività di riflessione teorica di Libertini fu sempre strettamente collegata all’analisi dei processi reali così come alla ricerca di una stretta connessioni con gli orientamenti, i bisogni, le sensibilità presenti, anche in forme contraddittorie, nei settori popolari. Nella sua visione: popolo e classe non erano due oggetti contrapposti per questo, pur se al “popolo” seppe parlare, la sua visione non può essere rinchiusa nel modello del “populismo di sinistra”, di cui si è ampiamente discusso in anni recenti.

FRANCO FERRARI

da rifondazione.it

12 agosto 2024


* da Nikolova, Barbara e Signorini, Giacomo (a cura di) Lucio Libertini e… Un protagonista della sinistra italiana nel centesimo anniversario della nascita. Atti del convegno svoltosi a Pistoia il 2 dicembre 2022, Tralerighelibri, Lucca, 2023, pp. 172-179.

1) Libertini, Lucio, “Perché un movimento di rifondazione comunista”, Lettere sulla Cosa, suppl. L’Unità, 14 dicembre 1990.

2) Libertini, Lucio, intervento su “Lotta di classe e riunificazione politica”, Rinascita, pp. 4-5, 14 novembre 1964.

3) Agosti, Aldo, Il partito provvisorio, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 279-282.

4) Rinascita, 30 giugno 1972, pp. 38-39.

5) Libertini, Lucio, La generazione del sessantotto, Editori Riuniti, Roma, 1979, pp. 48-49.

6) Libertini, Lucio, Trentin, Bruno, L’industria italiana alla svolta, De Donato, Bari, 1975, p. 68.

7) Libertini, Lucio, Democracia y socialismo. El punto di vista del eurocomunismo. Historia y sociedad, numero 13, 1977, pp. 70-85

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Comunismo e comunisti

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