Lucida analisi bertinottiana della crisi particolare e globale della sinistra

La violenza è una parte preponderante del nostro linguaggio quotidiano: verbale, morale, fisica. Senza scadere nella retorica della banale generalizzazione e fascistizzazione dei comportamenti giornalieri di ognuno di noi,...

La violenza è una parte preponderante del nostro linguaggio quotidiano: verbale, morale, fisica. Senza scadere nella retorica della banale generalizzazione e fascistizzazione dei comportamenti giornalieri di ognuno di noi, dobbiamo comunque prendere atto che la rabbia sociale si produce talvolta in scioperi, manifestazioni, presìdi, anche rivolte più marcatamente tali; ma alla fine il prodotto di tutto questo non è un nuovo frontismo coscienzioso di classe. Non una presa di consapevolezza comune del proprio stato miserrimo o non agiato di vita.

Diviene, spesso e volentieri, reprimenda verso i propri simili per ceto, ma magari con una diversa pigmentazione della pelle e parlanti una lingua che non è l’italiano. Troppe volte quell’ipocrita, falsamente buon concetto di “tolleranza” è stato adoperato per sembrare così umani, così disposti all’accoglienza dell’altro da noi. Mentre eravamo disposti ad “accettare” che ci si presentava accanto, provenendo da un paese molto lontano, oltre il Mediterrano o oltre la Sublime porta, alimentavamo nel nostro inconscio pezzetti di disumanizzazione che covavano sotto la cenere di un fuoco alimentato da pregiudizi e preconcetti.

Un ancenstralismo di vecchia natura e data che dava il via libera alla percorribilità di autostrade dell’odio e del disprezzo verso tutti coloro che, con grande facilità politica da parte delle destre peggiori da ottant’anni a questa parte, veniva elaborato e trasformato in consenso elettorale, piedistallo di facile avventurismo governativo senza una adeguata classe dirigente alle spalle, culturalmente inetta, sprovvista di un manuale di apprendimento del minimo dell’ethos democratico, laico e repubblicano. Fausto Bertinotti ha ragione: la politica per come l’abbiamo conosciuta è oggi sostanzialmente deceduta. Così anche la sinistra che fu.

Quella sinistra ha smesso di confrontarsi con i mostri sacri del passato cercando di ricondurli ad una declinazione attuale per comprendere proprio analiticamente il susseguirsi dei fatti, entro determinati rapporti di forza. Quella sinistra ha, in questo senso, sì abbandonato le ideologie, perché ha preferito fare del pragmatismo un santuario in cui celebrare le compatibilità più utilitaristiche e ruffiane, rimanendo a galla in tempi in cui il governismo era l’approdo ultimo della degenerazione del maggioritario.

Il rapporto tra chi è di più e chi è di meno, che dovrebbe essere regolato dalla partecipazione sociale ad ogni momento della vita di ogni paese, è stato piegato alla logica del diritto maggiore rispetto a quello minore: meglio ancora oggi di ieri, e comunque lungo tutto il corso degli ultimi trentacinque anni, lo si è potuto constatare quando a prevalere sono stati i leaderismi come cardine della concentrazione politica, dell’attenzione rivolta su un uomo rispetto ad una idea. Nel momento in cui si è passati dal riconoscersi in un partito per la sua lettura del sociale e del civile, dell’umano come del disumano, al riconoscervisi attraverso la traduzione politica di un capo, si è compiuta la svolta esiziale.

Bertinotti afferma, con una lucidissima definizione della propria identità, di essersi sempre mosso in una “compattezza di impostazione che deriva da un’impronta ideologica”. Se nel retroterra personale di molti personaggi dell’agone parlamentare odierno si potesse riscontrare quest’ultima, proprio una vera e propria cultura ascrivibile ad una visione pure “grande e terribile” del mondo che ci circonda, quanto meno si avrebbe il diritto di affermare che lo scontro politico avviene tra aspiranti classi dirigenti. Ma oggi del livello culturale, civile e anche morale di un tempo si trova ben poca traccia nelle dirigente partitiche.

Se per la destra è un discorso quasi scontato, visto che l’interesse privato prevale sempre su quello pubblico e le consorterie familiari sono all’origine del successo dei partiti personali (inaugurati dal primo berlusconismo nell’ormai lontana metà degli anni novanta del Novcento), per la sinistra non dovrebbe essere altrettanto: così sarebbe se ciò che era rimasto del progressismo socialista e socialdemocratico, dopo la scomparsa del PCI e la consunzione molto trasformistica del PSI, si fosse evoluto in una anche semplice riformistica voglia di modificare qualche eccesso del capitalismo più nostranamente liberista e portare il mondo del lavoro a gareggiare di nuovo con quello padronale.

Ma, purtroppo, l’attingere sempre dal sancta sanctorum del pragmatismo a buonissimo mercato, ha alienato i princìpi dai doveri e ha fatto in modo che prevalesse l’opportunismo interclassista, il cercare, visto che la rivoluzione tardava a venire e qualcuno era morto, altri si sentivano poco bene, un compromesso compromissorio con le imprese di cui, dogmaticamente, si proclamava l’assunzione nel pantheon delle nuove icone del modernismo centrosinistroide. Più che la lotta di classe, si è fatta la lotta contro la classe di cui, poco tempo prima, si diceva di voler essere i rappresentanti unici, speciali e difficili da imitare.

Sono rimasti nella cultura politica dei progressisti moderni dei tratti laici di ribellione all’autoritarismo, di ostilità manifesta contro ogni restrizione delle libertà civili, di giusto rifiuto di qualunque tentativo di negare l’uguaglianza formale di ogni essere umano (per il resto degli esseri viventi il discorso andrebbe fatto, ma qui anche la sinistra di alternativa e comunista è molto, molto indietro…); ma sul piano dei diritti sociali, della difesa quindi sostanziale dell’uguaglianza come precetto di giustizia oltre il diritto positivo, la sinistra si è infranta con un’onda sugli scogli dell’accesso al potere come elemento quasi ricostituente rispetto alla pochezza che via via dimostrava di avere.

Non era tutto quello che le restava, ma compromesso dopo compromesso, ha finito con l’indurre all’accettazione, da parte di una vasto settore del suo popolo di presunto riferimento, anche delle misure economiche più destabilizzanti per la sicurezza, il livello dei salari, la qualità generale della vita dei ceti più deboli e bistrattati. Tanto che la precarietà è divenuta la norma insieme alla teorizzazione delle magnifiche sorti e progressive date dalla marea di privatizzazioni dei più importanti settori pubblici amministrativi, gestionali e produttivi.

Scrive Bertinotti che la politica è morta, in senso proprio lato, generale. Una affermazione certamente ispirata dalla constatazione piuttosto ovvia del disastro mondiale: l’ex segretario di Rifondazione Comunista e presidente della Camera dei Deputati non si riferisce soltanto a quella italiana. Magari fosse solo il nostro Paese a soffrire di una patologia della disaffezione che allontana dal consesso della condivisione delle idee, delle proposte e delle soluzioni da cercare. Dall’America di Trump alla Russia di Putin, dalle condizioni inquietanti della presunta democrazia israeliana, passando l’artificio malmesso dell’Unione Europea, avanzano i populismi autoritari.

La sconfitta del movimento internazionale del lavoro, del loro riferimento politico nel socialismo e nel comunismo, è divenuta, proprio sul finire del Novecento, la premessa della rivalsa di un capitalismo che ha accelerato nella predazione e ha messo gli stessi padroni davanti al bivio: aggiornarsi alla fase di transizione dal bipolarismo da Guerra fredda all’unipolarismo statunitense oppure perire. Fa bene Bertinotti ha ricordarci la “previsione della fine della storia” da parte dei teorizzatori del liberalismo convertito al liberismo. Questa si accompagnava a quello che era stato definito, con una felice espressione di grande impatto e di facile ricordo, il “pensiero unico“.

Quanto è avvenuto tra il 1991 e il 2008, prendendole come date di inizio e di fine di un tentativo nobilissimo e non certamente inutile di rinascita del movimento comunista in Italia, unitamente alla ripresa di un confronto tra politica progressista e mondo del lavoro, Bertinotti lo sintetizza così: «…la sinistra storica esce di scena con lo scioglimento del Partito Comunista e ciò che accade lì attorno. Noi con Rifondazione Comunista tentiamo di prolungare questo ciclo volontaristicamente ma non ci riusciamo. E quindi esce di scena la sinistra del Movimento Operaio e prende il suo posto, senza ereditarne alcunché, una sinistra liberale».

Senza ereditarne alcunché“: in tre semplici parole sta il dramma di una mancata riconversione ideologica, culturale, sociale e politica dall’alternativa a quel regime dell’alternanza che la logica maggioritaria ha reso il fulcro della violazione antidemocratica dei valori costituzionali, pur essendo legale a tutto tondo, ma decisamente sperecquativa nella traduzione del voto popolare, della “volontà” collettiva in delega parlamentare. Nel momento in cui si va oltre il proporzionalismo, come paradigma dell’equipollenza civile e civica, ogni altra deduzione egualitaria viene progressivamente meno. Vince l’interclassismo che è arma di seduzione non di massa, ma di élite.

Prevale la logica delle necessità di una sinistra mondiale di governo, che amministri per conto di una unità di interessi che sono e rimangono dicotomici: capitale e lavoro, sfruttatori e sfruttati continuano ad esistere, ma si cerca di cancellarne gli opposti in tutto e per tutto. Bertinotti nota opportunamente che questa sinistra, passata dal socialismo al liberalismo, «addirittura governa nella prima fase della globalizzazione capitalistica». L’analisi è tanto impietosa quanto veritiera. La difficoltà a radunare sotto un unico minimo programma una sinistra moderata degna di questo nome e una di alternativa altrettanto degna del suo (quindi aliena da ogni settarismo narcisisticamente autoindotto) sta qui.

Ci si potrebbe almeno intendere su una piattaforma strettamente pragmatica, come piace tanto ai realisti più realisti del re, su una serie di clausole necessarie per riformare il mercato del lavoro ed evitare che divenga un peggio del peggio che già oggi è: che vi sia una sostanziale sintonia tra Rifondazione Comunista, AVS, PD e Cinquestelle sui referendum di giugno è un dato che va messo a valore. Da qui può partire un dialogo, ammesso che si voglia davvero dialogare, tra tutte le forze progressiste per dire quindi, nel nome del lavoro, un NO categorico al riarmo, all’aumento delle spese militari in chiave atlantica e imperialista.

E qui iniziano i problemi seri: una sinistra che guarda al campo europeo come ad una competizione interpolare tra ovest ed est, considerando il primo il suo mondo virtuosamente democratico ed eticamente superiore al resto del pianeta, è di per sé una sinistra che rinuncia ad essere veramente riformatrice e si subordina ennesimamente alle logiche delle compatibilità di Bruxelles. Sostanzialmente le ambiguità le deve risolvere il PD. Il capitalismo di oggi è un capitalismo di guerra che produce una economia globale di guerra.

Sinceramente, è impossibile costruire una alternativa alle destre se si condivide anche solo velatamente questa impostazione. Se il Partito democratico intende ancora richiamarsi al socialismo, almeno un briciolo di internazionalismo lo dovrebbe riprendere come base costituente di una nuova cultura sociale che metta prima di tutto i diritti di chi è sfruttato. Senza alcuna bandiera nazionale dietro. Il non voler riconoscere il carattere imperialista della guerra in Ucraina è, sì, un elemento discriminante. Ora e nel futuro. Ovvio che la una ricostruzione della sinistra non può passare solo dal tatticismo elettoralistico.

Forse nemmeno da un briciolo di minimo comun denominatore politico-programmatico. Ma da qualche parte bisognerà pure ricominciare. Lasciamo chiudere a Bertinotti in merito: «…io penso che la rinascita sia fuori da questo ciclo, è fuori da questo ciclo e fuori da questa politica. La rinascita sta altrove, la rinascita sta in quei fili d’erba, in quelle scintille che possono essere promossi dal conflitto». Non è tutto, ma continuiamo a rifletterci.

MARCO SFERINI

25 marzo 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

Le citazioni sono tratte dall’intervista de l’Unità a Fausto Bertinotti: “La politica è morta, in particolare la sinistra

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