Alla fine, il mondo dello spettacolo si è fatto avanti, in tutte le sue articolazioni. Franceschini ha inutilmente cercato di parare in anticipo il colpo con una paginata di intervista sul Corriere. Ma invece il movimento è andato avanti, senza scomporsi né intimidirsi, in questa intensa «due giorni». In un carosello di appuntamenti e manifestazioni, dai teatri al Parlamento, da Roma alle sale di spettacolo distribuite nei comuni di provincia, i lavoratori dello spettacolo (di sala e di palcoscenico, della sicurezza e dell’amministrazione) hanno mostrato nell’insieme lo stato di crisi vera, e non «casuale» che stanno attraversando. Un gesto tanto più forte quanto simbolico, quell’ accendere le luci di lunedì sera in una realtà che, non bastasse la pandemia, i governi e le chiacchiere stanno affossando, se non mandando dritta al massacro.
Sembrano parole grosse, o retoriche, ma tra i tanti comparti che lo stato di Covid sta massacrando, quello artistico è sicuramente uno dei più esposti. Con i teatri e i cinema chiusi, a partire esattamente da un anno fa, tranne la breve pausa estiva di lockdown, è venuta a mancare proprio la possibilità stessa del rapporto col pubblico. Che oltre che destinatario e interlocutore indispensabile per qualsiasi forma di spettacolo o creazione artistica, è anche il finanziatore (e quindi motivazione) di primo grado dell’intera attività. Con buona pace di tutti gli streaming che nella quasi totalità non fanno che confermare l’inadeguatezza del piccolo schermo domestico.
Non è un caso che all’iniziativa partita dall’Unita (la più vitale attualmente delle rappresentanze dello spettacolo, associazione di attori e attrici del teatro e dell’audiovisivo) si siano poi davvero unite molte altre forze, maestranze e professionalità del campo. Fortunatamente anche le confederazioni sindacali nazionali si sono decise a intervenire, disseminando per Roma nei due giorni scorsi davvero una ricca varietà di presenze che, anche in silenzio, gridavano il diritto ad essere ascoltati e a confrontarsi con chi gestisce la cosa pubblica.
Non è un caso che un’iniziativa nata in modo assolutamente spontaneo, abbia coinvolto anche tutti gli enti lirici e sinfonici, e i principali teatri pubblici, nazionali e di «rilevante interesse culturale» (nonostante che i loro «ristori» garantiti qualcuno malignamente sostiene siano finiti a ripianare pregressi deficit di bilancio). E i teatri di quartiere (era commovente vedere l’altra sera in giro per Roma accese le luci e le timide insegne di spazi piccoli e piccolissimi), e quelli che sono riusciti a coinvolgere perfino i loro enti regionali (si parla addirittura dell’adesione del governatore leghista del Friuli Fedriga). Assenti poco giustificati diversi teatri privati romani: dal Sistina al Quirino all’Eliseo, questo del resto già ristorato a suo tempo.
Quello che manca per ora è una risposta concreta (oltre le briciole promesse) e soprattutto strutturale da parte del governo. Il ministro Franceschini oltre all’affarone avviato con «la Netflix del teatro», non offre risposte soddisfacenti. Promette la riapertura, «primi in Europa», come se Spagna e altri paesi non abbiano da tempo riaperto i teatri. Incollato al suo ministero e capodelegazione Pd, ama solo le grandi vetrine dei beni culturali, incurante delle polemiche (vedi Pompei). E riserva le sue pubbliche pronunciazioni alla cornice indiscutibile del Colosseo. Che a Roma, anche in tempi di forzato digiuno teatrale, rischia di suscitare solo l’antica risposta «Ahò, ma chi sei, Nerone?».
GIANFRANCO CAPITTA
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