SECONDA PARTE
Il Neorealismo nacque spontaneamente, senza avere, a contrario di altre correnti cinematografiche, un manifesto di riferimento o regole codificate. Come ovvio, tuttavia, le pellicole riconducibili a quella stagione, che vantava le radici nei romanzi di Giovanni Verga, nei film di Elvira Notari e in quelli del Realismo francese, avevano molti punti in comune: raccontavano la vita dei lavoratori e delle fasce sociali più deboli uscite ulteriormente impoveriti dalla guerra; erano girati prevalentemente in esterno; venivano spesso interpretati da attori non professionisti; davano una grande importanza ai bambini. La realtà e la quotidianità, a tratti documentaristica, della gente comune.
Luchino Visconti aprì con Ossessione quella stagione, il termine “neorealista” fu proprio coniato per la prima pellicola del regista, ma il cineasta si distaccò quasi subito da quella corrente. In Bellissima usò quello stile per criticare il mondo del cinema e dello spettacolo, in Senso fece una riflessione sul Risorgimento come “rivoluzione mancata”, ne Le notti bianche tratteggiò, tra sogno e realtà, la banalità di un piccolo-borghese. Più “puramente neorealista” fu, invece, La terra trema, storia della lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, in cui affiorò la “questione meridionale”, per dirla gramscianamente. Su tale “questione” il cineasta volle ritornare nel successivo film.
Dall’inizio del 1958, intramezzato dalla solita intensa attività teatrale, da segnalare il “Don Carlo” al Covent Garden di Londra il 12 maggio, il regista iniziò a lavorare ad un nuovo soggetto che avrebbe raccontato “La storia di una madre e dei suoi cinque figli: cinque come le dita di una mano”. L’idea iniziale sorprese gli storici collaboratori, Suso Cecchi D’Amico e Vasco Pratolini, ma conteneva già alcuni elementi che sarebbero diventati centrali nella pellicola: una madre possessiva che vede i figli come una strumento per la propria ambizione e affermazione, un vincolo fraterno dai tratti arcaici, l’emigrazione dal sud verso il nord Italia, le periferie milanesi, il mondo della boxe, una buona dose di melodramma, cara al regista, e, appunto, la “questione meridionale”.
Benché il soggetto, scritto da Visconti con la D’Amico e Pratolini, fosse originale, molte furono le opere letterarie che influenzarono in nuovo film. “Il ponte della Ghisolfa” di Giovanni Testori fornì alcuni episodi della periferie milanese (come richiamato nei titoli di testa), “A View from the Bridge” (“Uno sguardo dal ponte”) di Arthur Miller offrì il tema dell’immigrazione e della boxe. Altri spunti vennero dall’opera di Giovanni Verga. La bontà fine a se stessa del protagonista, invece, Visconti la prese, così come altro, da “Idiót” (“L’idiota”) di Fëdor Dostoevski. E poi ci furono le opere che, fin dall’agosto del 1958, diedero anche il titolo alla nuova pellicola. Da una parte “Joseph und seine Brüder” una tetralogia di Thomas Mann con al centro il tema dell’emigrazione del popolo di Israele in Egitto da cui Visconti trasse anche un disegno armonioso, umanistico e sottilmente ironico. In Italia l’opera dello scrittore tedesco uscì col titolo “Giuseppe e i suoi fratelli”. L’altro punto di riferimento per completare idealmente e nominalmente il film, fu l’opera di Rocco Scotellaro socialista lucano, poeta meridionalista che il cineasta amava molto. Nacque Rocco e i suoi fratelli.
Il film, inizialmente presentato alla Vides che aveva già prodotto Le notti bianche, venne realizzato dalla Titanus di Goffredo Lombardo. Lo storico britannico John Foot, studiando minuziosamente i documenti conservati presso il Fondo Visconti dell’Archivio Gramsci di Roma, ha ricostruito che di Rocco e i suoi fratelli esistevano: un soggetto, due trattamenti, sei redazione della sceneggiatura e oltre duecento pagine tra appunti, scalette, lettere, annotazioni. Tra il settembre del 1959 e il 24 gennaio del 1960 la sceneggiatura venne scritta da Luchino Visconti, Suso Cecchi D’Amico e Enrico Medioli (Parma, 17 marzo 1925 – Orvieto, 21 aprile 2017) chiamato a sostituire Pratolini che lasciò per impegni letterari. La produzione affiancò loro Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa.
I principali ruoli del film vennero affidati a Alain Delon (Sceaux, 8 novembre 1935) destinato a divenire uno dei volti più conosciuti del cinema mondiale; Renato Salvatori, pseudonimo di Giuseppe Salvatori (Seravezza, 20 marzo 1933 – Roma, 27 marzo 1988) un ex marmista divenuto celebre per le interpretazioni in diverse commedie di Dino Risi e ne I soliti ignoti (1956) di Mario Monicelli; e Annie Girardot (Parigi, 25 ottobre 1931 – Parigi, 28 febbraio 2011) attrice francese che Visconti aveva conosciuto e diretto sul palcoscenico.
Nel ricco cast anche Roger Hanin (Algeri, 20 ottobre 1925 – Parigi, 11 febbraio 2015) precedentemente diretto da Jules Dassin e Jean-Luc Godard, destinato a divenire ancora più celebre in Francia come Commissario Antoine Navarro nell’omonima serie televisiva; Katina Paxinou, pseudonimo di Ekaterini Konstantopoulou (Pireo, 17 dicembre 1900 – Atene, 22 febbraio 1973) attrice premio Oscar per For Whom the Bell Tolls (Per chi suona la campana, 1943); Spiros Focás, nome d’arte di Spyridonas Androutsopoulos (Patrasso, 17 agosto 1937) all’epoca semi debuttante; Paolo Stoppa (Roma, 6 giugno 1906 – Roma, 1 maggio 1988) attore teatrale e cinematografico di altro profilo; Corrado Pani (Roma, 4 marzo 1936 – Roma, 2 marzo 2005) capace di muoversi con disinvoltura tra teatro, cinema, radio e televisione.
Una menzione particolare meritano, infine, altre due interpreti di Rocco e i suoi fratelli. La prima era Claudia Mori, pseudonimo di Claudia Moroni (Roma, 12 febbraio 1944), attrice che aveva fino ad allora recitato solo in Cerasella (1959) diretta da Raffaello Matarazzo. La donna recitò anche nei decenni successivi, ma progressivamente si impegnò sempre più in ambito musicale. Il motivo? L’amore. Nel 1961 aveva conosciuto e, due anni dopo sposato, un cantante con cui contribuì a cambiare la musica italiana. Si era innamorata di Adriano Celentano.
Anche la seconda attrice si chiamava Claudia, o meglio Claude Joséphine Rose. Era figlia di siciliani, ma era nata a Tunisi il 15 aprile 1938. Nel 1957 era stata eletta “la più bella italiana di Tunisi”. Anche per questo decise di “italianizzare” il suo nome. Divenne semplicemente Claudia Cardinale.
L’opera di Visconti vantava anche un cast tecnico di grande qualità. La fotografia, un cupo bianco e nero, era di Giuseppe Rotunno (Roma, 19 marzo 1923) che aveva iniziato a lavorare col regista in Senso. Il montaggio del solito grande Mario Serandrei (Napoli, 23 maggio 1907 – Roma, 17 aprile 1966) collaboratore dai tempi di Ossessione. Le musiche del grandissimo Nino Rota (Milano, 3 dicembre 1911 – Roma, 10 aprile 1979).
Tornando al film Rocco e i suoi fratelli ottenne il visto della censura “preventiva”, strumento creato da Giulio Andreotti nel 1949 per poter controllare i soggetti e scoraggiare i produttori (elemento che contribuì alla fine del Neorealismo). Le pagine della sceneggiatura non turbarono il funzionario preposto che annotò positivamente l’assenza “di quel contrappunto tra ricchi e poveri che è l’esca usuale dei film a contenuto sociale” e si limitò a stigmatizzare la descrizione dell’ambiente pugilistico. Passarono senza note due scene destinate a diventare centrali nella storia raccontata dal film e in quella del film stesso: lo stupro e poi l’assassinio del personaggio interpretato da Annie Girardot. Queste due scene vennero liquidate con “bacia a forza la ragazza” e “una coltellata”, benché fossero puntualmente descritte nella sceneggiatura.
Quando giunse il visto della censura Rocco e i suoi fratelli era già in lavorazione. Erano mesi in cui l’Italia stava attraversando un periodo politicamente rilevante con l’apertura della Democrazia Cristiana al Movimento Sociale Italiano e la nascita, il 26 marzo del 1960, del celeberrimo Governo Tambroni. Uno spostamento a destra del Paese che ebbe in risposta numerose manifestazioni in tutta Italia (giustamente celebrata quella di Genova del 30 giugno contro lo svolgimento nel capoluogo ligure del congresso del MSI) e la puntuale repressione di governo reazionario. In questo clima politico Rocco e i suoi fratelli iniziò a far parlare di se prima ancora di essere girato.
La Giunta provinciale di Milano, conosciuto il soggetto, si oppose alle riprese dell’omicidio all’idroscalo descritto nel film (scene inizialmente prevista tra l’8 e l’11 aprile). Deliberò in merito il 13 dello stesso mese e iniziò uno scontro con la produzione e Visconti. Non paga, la Giunta presieduta dal democristiano Adrio Casati, scrisse al Ministro del Turismo e dello Spettacolo Umberto Tupini sollecitando un intervento. Quest’ultimo fu costretto a rispondere che il film era già stato autorizzato. Si aprì uno scontro istituzionale, vinse la Provincia di Milano, la scena venne girata a Sabaudia e il Ministro, umiliato, scrisse una lettera in cui annunciò che la crescente presenza di soggetti e temi a natura erotica “che assumono perfino aspetti pornografici” lo inducevano a rivedere i criteri della censura. Minacciò, inoltre, di non firmare permessi di proiezioni in pubblico anche in presenza di pellicole già autorizzate. Fortunatamente il Governo Tambroni cadde di li a poco e Tupini non riuscì a portare a termine il suo piano di “supercensura”.
I guai per Rocco e i suoi fratelli non erano comunque finiti. Il protagonista si chiamava Rocco Pafundi, cognome tipico lucano suggerito da Suso Cecchi D’Amico, e a riprese terminate “un” Rocco Pafundi, figlio di un ex procuratore della Corte di Cassazione, chiese e ottenne che il “suo nome” venisse tolto dalla pellicola, pena il ritiro di tutte le copie del film. Il cognome della famiglia venne così cambiato in Parondi, ma benché tale cambio fu, come dichiarato, “reso possibile dalle più moderne tecniche cinematografiche”, se si presta attenzione si vede più di un segno nella pellicola (ad esempio sulle locandine e sui giornali appesi a fine film).
Rocco e i suoi fratelli, forte anche del dibattito che aveva sviluppato, venne inviato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, in programma dal 24 agosto al 7 settembre del 1960. Quasi in contemporanea, dal 25 agosto all’11 settembre, a Roma erano in programma anche le Olimpiadi. Quale occasione migliore per attaccare una volta di più l’opera di Visconti?
Giulio Andreotti, già a capo della censura cinematografica tra il 1947 e il 1954, attaccò gli intellettuali italiani, che si era mossi in difesa sia di Rocco e i suoi fratelli sia de La dolce vita di Fellini, definendoli “una legione di opportunisti […] alle dipendenze di Togliatti” e aggiunse “Noi preferiamo la gioventù delle Olimpiadi a quella, tanto cara ai comunisti, di Rocco e i suoi fratelli”.
Attacchi, minacce di censura, critiche di pornografia, che aumentarono l’attenzione verso Rocco e i suoi fratelli. Il film venne presentato in anteprima a Venezia il 6 settembre 1960.
La vedova lucana Rosaria Parondi (Katina Paxinou) si trasferisce con i figli Simone (Renato Salvatori), Rocco (Alain Delon), Ciro (Max Cartier) e Luca (Rocco Vidolazzi) a Milano dove è già immigrato il primogenito Vincenzo (Spiros Focas). Quest’ultimo viene raggiungo mentre sta festeggiando il fidanzamento con la bella Ginetta (Claudia Cardinale) anche anche lei figlia di emigrati lucani, i Gianelli. I Parondi sono ben accolti, ma quando Rosaria pretende che il figlio maggiore si assuma la responsabilità della famiglia prima di ogni altra cosa, lo scontro è inevitabile e il matrimonio è pregiudicato. I Parondi, la madre e i cinque figli, vanno così a vivere in un seminterrato a Lambrate. Col tempo Vincenzo riesce a far riavvicinare le famiglie e a riprendere il fidanzamento con Ginetta, mentre i fratelli fanno fatica ad ambientarsi nella nuova realtà. Un giorno però conoscono la prostituta Nadia (Annie Girardot) che propone loro di arricchirsi col mondo della boxe. Un incontro che rappresenta la svolta. Simone comincia la carriera di pugile sotto la protezione di un ex campione, l’omosessuale Morini (Roger Hanin), Rocco trova impiego come garzone di una lavanderia gestita da Luisa (Suzy Delair) dove lavorano anche due ragazze (Claudia Mori e Adriana Asti), Ciro studia e viene assunto come operaio in una fabbrica dell’Alfa Romeo, Luca, il più piccolo, sta con la madre, ma non rinuncia a fare consegne per contribuire al sostentamento della famiglia. Passano le settimane. Simone si innamora di Nadia e per conquistarla e frequentarla si procura denaro con piccoli furti, come quello di un gioiello di Luisa, poi trattenuto dallo stipendio di Rocco, ma la prostituta si stanca presto di lui e lo lascia. Nel frattempo Vincenzo diventa padre e Ciro avvia una relazione una ragazza di nome Franca (Alessandra Panaro). Rocco parte, invece, per il militare, sempre obbligato dalla madre a versare tutto alla famiglia per il sostentamento. Nella piccola città di provincia dove presta servizio, il giovane rincontra Nadia, appena uscita di prigione. Tra i due nasce un sincero affetto che, una volta tornati a Milano, diventa amore. Quando Simone viene informato dall’amico Ivo (Corrado Pani) della relazione del fratello con la prostituta, li aggredisce brutalmente e violenta la ragazza sotto gli occhi di Rocco. Quest’ultimo sentendosi incredibilmente in colpa, la lascia e per pagare i debiti di Simone entra anche lui nel mondo della boxe, coinvolto dall’impresario Cerri (Paolo Stoppa). Simone, scacciato dagli altri fratelli, tenta di riconquistare Nadia, che si prostituisce all’Idroscalo. Al suo rifiuto la uccide. Mentre a casa Parondi si festeggia l’ultima vittoria di Rocco, ritorna Simone che confessa il delitto. La madre, che aveva sempre visto nella giovane prostituta l’inizio delle disgrazie della famiglia, di fatto esulta, mentre Ciro vorrebbe denunciare l’omicidio. Gli altri capeggiati da Rocco, decidono di proteggere il fratello, ma Simone viene comunque arrestato. Ciro, mentre sta per entrare in fabbrica, espone al piccolo Luca le ragioni del suo rifiuto della vecchia morale familiare. Per lui, ora conta il lavoro e una nuova prospettiva di vita.
Uno dei più importanti film della cinematografia nazionale, e non solo, dall’ampio ritmo narrativo, in cui Visconti, attraverso la storia di una madre, dei suoi cinque figli, che danno il nome alle cinque parti del film, del mondo della boxe (il regista e la D’Amico frequentarono, per la preparazione, squallide palestre di piazza Vittorio a Roma), reinventò la propria città, vedendola attraverso gli occhi degli immigrati: immensa, ostile, nebbiosa. Ambientando, nei suoi spazi freddi e geometrici, l’esplosione di passioni inconciliabili e arcaiche.
Rocco e i suoi fratelli vanta la sua anima più profonda nel triangolo Simone-Nadia-Rocco, e quindi le pagine più tragiche del film sono quelle in cui son scena quei personaggi, ma Visconti, intellettuale e militante del Partito Comunista, prese posizione sulla politica del suo tempo, muovendo una riflessione sulla “questione meridionale” e una critica al “miracolo economico”. Mise a confronto, infatti, “una storia di miseria meridionale con la civiltà industriale del Nord, vista nei suoi due aspetti più forti: fabbrica e coscienza proletaria per alcuni, marginalità e autodistruzione per altri” (Mereghetti). Il regista decise di affidare il suo messaggio politico al personaggio di Ciro. Un messaggio di unità in cui il personaggio dell’immigrato del sud diventa un operaio del nord e combatte le proprio lotte nella fabbrica, con gli strumenti della politica e del sindacato.
Tale personaggio fu, pertanto, oggetto di riflessioni, tavole rotonde, scritti e dibattiti. Sulle pagine della rivista “Le vie nuove” intervenne anche il regista: “In quell’epoca il mio tentativo è stato quello di estrarre dalle radici stesse del metodo verghiano, le ragioni prime del dramma e rappresentare al culmine dello sfacelo un personaggio che chiaramente, quasi didascalicamente, non ho paura della parola, le mettesse in chiaro. Qui in Rocco, non a caso, questo personaggio è Ciro il fratello divenuto operaio che, non soltanto ha dimostrato una capacità non romantica, non effimera di inserirsi nella vita, ma che ha acquistato coscienza di diversi doveri discendenti da diversi diritti. Tutto sommato, e devo dire senza accorgermene, il finale di Rocco è riuscito un finale simbolico direi emblematico delle mie convinzioni meridionalistiche. Il fratello operaio parla con più piccolo della famiglia di una visione futura del suo paese, che raffigura quella idealmente unitaria del pensiero di Antonio Gramsci”.
Ma a far discutere furono soprattutto le scene di violenza, in particolare lo stupro e l’omicidio. Si accese lo scontro politico, intervenne la censura. Destra e DC soffiarono sul fuoco.
Il primo risultato di questa campagna d’odio nei confronti di Rocco e i suoi fratelli fu il mancato Leone d’Oro a Venezia. Nei ricordi e nelle testimonianze dei membri della Giuria, emergono con chiarezza le pressioni del Governo e della Democrazia Cristiana per evitare un simile riconoscimento ad un film considerato “osceno”. L’alloro massimo andò così a Le passage du Rhin (Il passaggio del Reno) di André Cayatte, mentre a Rocco e i suoi fratelli fu conferito il Leone d’Argento. Premio che Visconti rifiutò.
Quindi, prima di essere distribuito nelle sale, Rocco e i suoi fratelli dovette dovette subire alcuni tagli che portarono a scontri tra il produttore e il regista, a conferenze stampa notturne, a pronunciamenti di Pubblici Ministeri, a sentenze di magistrati. Alla fine vennero tagliati pochi metri di pellicola. Nello specifico furono accorciati o sfumati: lo scontro tra Rocco e Simone, il lancio delle mutandine di Nadia in faccia a Rocco e il successivo stupro della donna ad opera di Simone, alcune coltellate nella scena dell’omicidio. Rocco e i suoi fratelli, in questa versione accorciata, venne distribuito col divieto ai minori di 16 anni a partire dal 6 ottobre 1960 [per conoscere nel dettaglio le vicissitudini legate al film segnalo l’ottimo “Luchino Visconti. Rocco e i suoi fratelli” di Mauro Giori, edizioni Lindau].
L’uscita di Rocco e i suoi fratelli divise il pubblico tra estimatori e detrattori. Per Alberto Moravia Visconti aveva: “[…] girato il film con maestria; Rocco e i suoi fratelli è senza dubbio il suo miglior film dopo La terra trema. Forte, diretto e brutale benché a momenti un poco freddo, il film rispecchia fedelmente nelle sue compiacenze di crudeltà e nella sua minuzia descrittiva le due componenti del singolare talento del regista: quella decadentistica e quella sociale”. La destra, invece, si scatenò. Il Secolo d’Italia, organo del MSI, scrisse: “… è impossibile (veramente! Impossibile) pensare che un film del genere, un trito omaggio al cattivo gusto, uno zibaldone pieno di inibizioni sessuali, uno osanna alla più facile ‘negazione’ sociale sia immesso sugli schermi normali, sia proiettato pubblicamente e ottenga, pubblicamente, consensi”.
Si sviluppò un estenuante dibattito sulla presunte oscenità del film (curiosamente sull’omosessualità latente di alcune scene non venne detto o scritto nulla). Rocco e i suoi fratelli fini così in tribunale. Non solo. Ogni proiezione in case del popolo, sedi di partito, circoli privati veniva interrotta dalla Digos. Il film di Visconti era un “sorvegliato speciale”. Basti pensare che nel 1962, a due anni dalla sua uscita, Rocco venne addirittura citato in Parlamento. Il deputato DC Domenico Colasanto attaccò il PCI accusandolo di volere “la dittatura dello sconcio”. Rispose l’allora rappresentante del PCI e anni dopo Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano chiedendo se il riferimento fosse al film Rocco e i suoi fratelli. Per il collega democristiano, infatti, la pellicola era “un insulto a tutti i braccianti agricoli del Mezzogiorno costretti ad emigrare per procurarsi il pane”. Nel dibattito, inoltre, aggiunse “Se per lei lo stupro violento non è qualcosa di sconcio, onorevole Giorgio Napolitano, non so cosa risponderle”.
Il film, ancora censurato e con diverse manomissioni, venne trasmesso per la prima volta in televisione, dalla neonata Terza rete, solo il 5 marzo del 1980. Per vedere la versione integrale, quella che gli spettatori avevano visto alla Mostra di Venezia, si dovette aspettare il restauro nel 1992. La pellicola nel 2015 è stata restaurata in 4K, grazie al lavoro della Cineteca di Bologna.
Tornando agli scontri suscitati dal film, una simile discussione non deve sorprendere. In quegli anni il cinema rappresentava un autentico mezzo di comunicazione di massa. Incideva nella vita culturale del Paese. Nel 1960 nel nostro Paese erano attive 10393 sale. Gli italiani andavano al cinema più volte al mese e in quell’anno, solo per rimanere a film italiani, potevano scegliere tra Rocco e i suoi fratelli di Visconti, La dolce vita di Fellini, L’avventura di Antonioni, I delfini di Maselli.
Ma dopo quel dibattito, a tratti estenuante, Visconti annunciò il proposito di non voler più lavorare in Italia. Si trasferì a Parigi dove continuò l’attività teatrale, diresse tra l’altro Romy Schneider nel dramma “‘Tis Pity She’s a Whore” (“Peccato sia una sgualdrina”). Ma una risposta a quel moralismo bigotto, che aveva colpito anche “L’Arialda” di Testori e “Salomé” di Strauss, andava data. L’occasione si concretizzò grazie ad un’idea di Cesare Zavattini e dei produttore Carlo Ponti e Tonino Cervi (figlio dell’attore Gino) che proposero a quattro registi colpiti dalla censura, un film ad episodi in cui ironizzare sul moralismo e sui “pruriti” dei piccolo borghesi. I registi coinvolti, oltre a Visconti, furono: Mario Monicelli, Federico Fellini e Vittorio De Sica. Poesia. Il film prese spunto dalle novelle di Boccaccio per portarle nell’Italia del boom economico. Nacque Boccaccio ’70.
Nel primo episodio, Renzo e Luciana (quasi a riecheggiare il nome dei protagonisti de “I promessi sposi”), diretto da Monicelli e scritto dallo stesso regista insieme a Suso Cecchi D’Amico e Italo Calvino (per dire il livello dell’epoca), due giovani operai milanesi (Germano Gilioli e Marisa Solinas) si sposano segretamente nonostante una clausola contrattuale che vieta alla ragazza il matrimonio, pena il licenziamento. Durante una gita domenicale, il capufficio incontra e corteggia la Luciana e il marito è costretto a far finta di niente. Finché stanchi della situazione dichiarano il loro amore. Trovano un nuovo lavoro. Ma l’uomo lavora di notte e la donna di giorno. Nel secondo film Le tentazioni del dottor Antonio, diretto da Federico Fellini sceneggiato insieme a Ennio Flaiano e Tullio Pinelli, il dottor Antonio Mazzuolo (Peppino De Filippo) è un intransigente moralista che vive con madre e sorelle. Un giorno davanti alla loro casa viene montato un enorme cartellone per la pubblicità del latte (indimenticabile il tema “Bevete più latte” di Nino Rota) raffigurante una donna provocante. L’uomo si prodiga inutilmente per la sua rimozione e sogna che la donna (Anita Ekberg) scenda dal cartellone per condurlo nel suo mondo. Antonio finisce per impazzire. Nell’episodio di De Sica su idea di Cesare Zavattini intitolato La riffa, una notte d’amore con la prosperosa Zoe (Sophia Loren) è il primo premio della lotteria clandestina di una fiera. A vincere è il sacrestano.
Il cortometraggio di Visconti, il terzo anche se l’ordine può cambiare, riprese invece il soggetto Marcia nuziale, incentrato sulla crisi del matrimonio borghese, che il cineasta e Suso Cecchi D’Amico avevano scritto nei primi anni cinquanta. Bocciato dalla censura nel 1953, venne rielaborato per Boccaccio ’70. Nel cast Romy Schneider, pseudonimo di Rosemarie Magdalena Albach-Retty (Vienna, 23 settembre 1938 – Parigi, 29 maggio 1982), che il regista aveva già diretto a teatro, e Tomás Quintín Rodríguez (L’Avana, 3 marzo 1933 – Miami, 22 marzo 2017) noto ai più come Tomas Milian che, prima di diventare “er Monnezza”, era stato un attore impegnato diretto, tra gli altri, da Francesco Maselli ad Alberto Lattuada. Ispirato alla novella “Au bord du lit” di Guy de Maupassant, l’episodio venne intitolato Il lavoro.
Il Conte milanese Ottavio (Tomas Milian) è coinvolto in uno scandalo di squillo d’alto bordo. L’uomo e i suoi avvocati (Romolo Valli e Paolo Stoppa) temono, soprattutto, le reazioni della ricca moglie Pupe (Romy Schneider) il cui padre ha bloccato loro il conto in Svizzera. La donna, tuttavia, non fa scenate di gelosia, ma, presa dal capriccio di guadagnarsi da vivere, pretende di essere pagata dal marito per le prestazioni coniugali. La cosa nasce come un gioco bizzarro, ma alla fine Pupe si rende conto che il suo “lavoro” consiste davvero nella prostituzione matrimoniale.
Visconti rilesse il racconto di Guy de Maupassant alla luce della definizione marxista del matrimonio nella società borghese come l’equivalente di una prostituzione legalizzata. Ne Il lavoro, inoltre, alla ricchezza degli ambienti (il salone, la camera da letto) si contrappone la pochezza delle persone: “I servi, impegnati nella grottesca caccia ai gatti di casa. Gli avvocati, mostrati come ‘operai salariati della borghesia’, avidi e ipocriti custodi delle apparenze. Il ‘giovin signore’ inetto e mediocremente dissoluto. La signora ‘bene’ in preda ad angosce esistenziali di moda; a velleità poetiche che rivelano una poliglotta ignoranza; al desiderio di guadagnarsi da vivere, inteso non come necessità, ma come capriccio” (Bencivnenni). Solo per quest’ultima, chiamata Pupe come Irma von Windisch Graetz la mancata moglie del regista, Visconti mostrò un po’ di simpatia, concedendole nel finale un barlume di coscienza. Il miglior episodio insieme a quello di Fellini.
Quando venne contattato per Boccaccio ’70 Visconti stava lavorando ad un nuovo lungometraggio. Un lavoro che in qualche modo “anticipò” nell’episodio da lui diretto, lasciando un indizio. In una scena de Il lavoro, infatti, tra le mani distratte del personaggio interpretato da Tomas Milian, si scorge la copia in tedesco di un libro. I diritti di quel libro erano stati acquistati nel 1958 dal produttore Goffredo Lombardo con l’idea di farne un film. Per la regia vennero scritturati prima Mario Soldati, poi Ettore Giannini, che elaborò una sceneggiatura, ma divergenze narrative portarono il produttore a contattare Luchino Visconti. Quel libro era “Il Gattorpardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Un romanzo storico, ambientato in Sicilia al momento del passaggio dal regime borbonico ai rivolgimenti politico-sociali dell’unificazione italiana, incentrato sulla figura del principe Fabrizio di Salina (ispirato al principe Giulio Fabrizio Tomasi, bisnonno dell’autore) e sulle sue reazioni di fronte all’incalzare dei tempi, dalla rovina dell’aristocrazia al sorgere della classe borghese.
L’uscita del romanzo, pubblicato postumo nel 1958 (l’autore era morto l’anno prima), fu uno dei massimi successi e casi letterari del dopoguerra, ma suscitò subito perplessità e polemiche a sinistra. Sciascia, Alicata, Moravia e altri lo etichettarono come un libro di “destra”, si sviluppò un non banale dibattito sul Risorgimento come “rivoluzione senza rivoluzione”, a partire dalla definizione utilizzata da Antonio Gramsci nei “Quaderni del carcere”; discussione già sviluppata ai tempi di Senso. Ma l’imprevista vittoria del premio Strega unito all’interesse dell’Unione Sovietica, che aveva deciso di tradurlo in russo, spinse il PCI a cambiare strategia e ad appoggiare, con discrezione, la candidatura di Luchino Visconti per l’adattamento del libro.
Il regista, appena letto il romanzo, vide una singolare ambivalenza nei riguardi del passato e colse nella nostalgia cinica e amara dell’autore, una paradossale potenzialità progressista, ossia una critica al trasformismo politico della classe dirigente. Il cineasta non ritenne, infatti, in contraddizione le acquisizioni della storiografia democratica (Gobetti, Salvemini, Gramsci) sul Risorgimento come “rivoluzione mancata” con il pessimismo del principe di Salina. Il regista scoprì così di essere in perfetta sintonia con Tomasi di Lampedusa e nella trasposizione cinematografica accentuò la polemica sul riassorbimento delle idealità risorgimentali, tentando una sintesi fra il realismo storico e le sfumature proustiane presenti nel romanzo. Non casualmente lo stesso regista, a proposito del film, indicò come propria aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il “Mastro Don Gesualdo” di Giovanni Verga e la “Recherche” di Marcel Proust.
Per il ruolo del protagonista Visconti pensò prima a Laurence Olivier, poi al Nikolaj Čerkasov (indimenticabile diretto da Ėjzenštejn), ma la scelta cadde su Burt Lancaster per il quale il lavoro a fianco del regista italiano portò ad “una profonda trasformazione interiore, anche sul piano personale”.
Nel cast anche Alain Delon, Claudia Cardinale, all’apice della carriera, Paolo Stoppa, Pierre Clémenti, Rina Morelli, Mario Girotti (futuro Terence Hill), Giuliano Gemma, Romolo Valli e Ottavia Piccolo che esordì così sul grande schermo nel ruolo di una delle figlie del principe di Salina.
Per realizzare il film ci vollero quindici mesi di lavoro, dal dicembre del 1961 al marzo del 1963, con un investimento ben superiore alle possibilità della Titanus. Il regista riuscì ad ottenere nuovi fondi solo grazie alla presenza di Lancaster e ad un conseguente accordo economico con la 20th Century Fox. L’anteprima de Il Gattopardo si tenne al cinema Barberini di Roma il 27 marzo 1963.
1860. La notizia dello sbarco dei garibaldini a Marsala interrompe la recita del rosario in casa del principe don Fabrizio di Salina (Burt Lancaster, doppiato da Corrado Gaipa). Suo nipote Tancredi Falconeri (Alain Delon, doppiato da Carlo Sabatini), non per convinzione ma per controllare il corso degli eventi, si arruola volontario (tra i garibaldini anche Giuliano Gemma e Mario Girotti). Anche il principe sposa il partito dell’opportunismo del nipote, credendo cosi di mettersi al riparo da ogni cambiamento. Di opposto avviso il prete di famiglia: il gesuita padre Pirrone (Romolo Valli). Nonostante la rivoluzione, i Salina si recano come ogni anno in villeggiatura nel feudo di Donnafugata. Qui è in corso il plebiscito per l’annessione allo Stato sabaudo, e il principe vota pubblicamente a favore. I risultati della votazione simulano un’adesione unanime; a dispetto di chi, come don Ciccio Tumeo (Serge Reggiani), aveva confermato la propria fedeltà al vecchio regime. Capo locale del nuovo corso è il sindaco don Calogero Sedàra (Paolo Stoppa), un “uomo nuovo” arricchitosi con i suoi traffici. Invitato a pranzo dal principe, il rozzo Sedàra sorprende tutti i convitati con la bellezza di sua figlia Angelica (Claudia Cardinale). Don Fabrizio favorisce così il fidanzamento del nipote, nobile ma spiantato, con la ricca e sensuale ereditiera: nonostante che anche sua figlia Concetta (Lucilla Morlacchi) sia innamorata di Tancredi. Mentre questi comincia la scalata sociale nello Stato sabaudo, don Fabrizio declina il seggio di senatore offertogli dal funzionario piemontese Chevalley (Leslie French), poiché è del tutto scettico sulle possibilità di cambiamento della Sicilia. Durante un ballo, in cui a Palermo l’aristocrazia festeggia la scongiurata rivoluzione, il principe si rende conto del proprio isolamento e dell’inevitabile declino del proprio mondo, e mentre Tancredi e don Calogero festeggiano alla notizia della fucilazione degli ultimi garibaldini ribelli, don Fabrizio di Salina si rassegna melanconicamente alla morte.
Il Gattopardo, forse il film più conosciuto di Luchino Visconti, sceneggiato insieme a Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa suscitò, come il romanzo, un grande dibattito a sinistra. Da una parte chi vi leggeva un “cedimento” all’ideologia borghese e chi, come Togliatti, vedeva una forte analogia tra le istanze risorgimentali riassorbite e gli ideali della Resistenza mortificati nel dopoguerra. Un messaggio che il regista volle sottolineare nel finale con la fucilazione dei garibaldini e il sollievo del “mondo nuovo” rappresentato da Tancredi e Sedàra.
Perfetta la ricostruzione storica con le scenografie di Mario Garbuglia e i costumi di Piero Tosi, perfette le scene di massa e magnifica la fotografia curata da Giuseppe Rotunno. Indimenticabili, non a caso, molte sequenze: la lotta dei garibaldini, il debutto in società di Angelica, la lacrima di don Farizio. Ma ad essere giustamente celebre è, soprattutto, la lunga sequenza del ballo finale, da antologia del cinema, quasi un film nel film arricchito da una partitura inedita di un “valzer brillante” di Giuseppe Verdi realizzata da Nino Rota (trovata, secondo la “leggenda”, dal montatore Mario Serandrei in un vecchio mobile di legno), in cui Visconti fece coincidere il più alto momento spettacolare con le più sottili notazioni psicologiche ponendo a contrasto la coreografica esibizione degli aristocratici e la solitaria intuizione di morte del protagonista e del suo mondo (da segnalare sullo stesso tema il film Jalsaghar del regista indiano Satyajit Ray, che descrive il declino di una famiglia aristocratica indiana che cade nelle reti di un astuto faccendiere).
Il Gattopardo si aggiudicò il David di Donatello, vinse la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1963, ottenne un grande successo di pubblico, uno dei film italiani più visti di sempre, ma lo scarso successo negli USA, dove il film uscì “mutilato” senza l’approvazione del regista (nonostante l’interessamento di Lancaster), portò sul fallimento la Titanus che non riuscì a rientrare degli oltre 3 miliardi investiti.
La copia oggi in circolazione, recentemente restaurata, dura 185 minuti ed è quella che vinse a Cannes. Mentre quella proiettata in anteprima al Cinema Barberini di Roma durava 197 minuti e, secondo le ricerche di Alberto Anile, Maria Gabriella Giannice pubblicate nel volume “Operazione Gattopardo”, conteneva almeno cinque scene in più che mostravano: gli incubi del principe Fabrizio nella locanda di Bisaquino, un confronto tra Sedàra e i contadini, un dialogo tra Conte Cavriaghi (Mario Girotti) e Angelica nelle soffitte, un colloquio tra Sedàra e Tancredi nel salotto e un ulteriore scambio di battute tra il principe e il colonnello Pallavicino (Ivo Garrani). Frammenti che oggi risultano persi.
Amanto da Martin Scorsese, che lo definì “un grande inno sinfonico alla Sicilia, al suo paesaggio, alla sua bellezza e alla sua violenza. È una delle più grandi esperienze visive della storia del cinema”, Il Gattopardo centrò uno degli obiettivi del regista, cambiare sottilmente e indelebilmente la percezione del romanzo a partire dalla celeberrima e sempre attuale “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Dopo il film Visconti riprese l’attività teatrale portando in scena, tra gli altri, “La traviata”, “Il tredicesimo albero”, entrambi presentati a Spoleto. Poi “Le nozze di Figaro”, quindi “Il trovatore”, presentato a Mosca e a Londra.
Il regista tornò al cinema nel 1965 in una produzione “minore” rispetto a Rocco e i suoi fratelli e a Il Gattopardo, e, benché le offerte anche da produttori statunitensi non mancassero, realizzò un film con Franco Cristaldi (che aveva prodotto Le notti bianche), soffermandosi una volta di più sul tema della memoria e dei ricordi. Delle “rimembranze” per dirla alla Leopardi. Proprio dall’incipit di uno dei canti del poeta di Recanati, “Le ricordanze”, venne il titolo del film: Vaghe stelle dell’Orsa, cui il cineasta aggiunse tre puntini di sospensione. Il soggetto, in parte ispirato sia a “Elettra” di Sofocle, sia a “Forse che sì forse che no” di Gabriele d’Annunzio, venne scritto dal regista con i “soliti” Suso Cecchi D’Amico e Enrico Medioli.
Nel cast, che ruotava attorno a Claudia Cardinale al terzo film con Visconti, anche l’attore e nobile Jean Sorel, nome d’arte di Jean Bernard Antoine de Chieusses de Combaud-Roquebrune (Marsiglia, 25 settembre 1934); Michael Craig (Pune, 27 gennaio 1928) attivo tra teatro, cinema e televisione; Renzo Ricci (Firenze, 27 settembre 1899 – Milano, 20 ottobre 1978) attore nonché doppiatore in tre film della voce del Cristo in Don Camillo; Marie Bell (Bègles, 23 dicembre 1900 – Neuilly-sur-Seine, 14 agosto 1985) interprete francese diretta, tra gli altri, da Jacques Feyder, Abel Gance, Julien Duvivier, da ricordare anche per essere stata decorata per il ruolo avuto nella Resistenza Francese. Vaghe stelle dell’Orsa… venne presentato in anteprima alla Mostra di Venezia.
I coniugi Dawson, Andrew e Sandra (Michael Craig e Claudia Cardinale) lasciano Ginevra per un breve soggiorno a Volterra, città natale di lei. Occasione del ritorno di Sandra è la donazione del giardino di famiglia al Comune, come parco pubblico intitolato alla memoria del padre, uno studioso ebreo morto in un campo di concentramento. Sandra resta turbata dal ritrovarsi nell’antico palazzo; dal rivedere la madre (Marie Bell), ricoverata in una clinica per malattie mentali; e dall’arrivo del fratello Gianni (Jean Sorel). L’incontro li riporta alle segrete all’infanzia, quando erano coalizzati contro la madre e il suo secondo marito, Gilardini (Renzo Ricci), sospettati di aver provocato la deportazione del padre. Gianni ha enfatizzato morbosamente il ricordo del loro legame in un manoscritto di memorie intitolato “Vaghe stelle dell’Orsa”. Andrew, sconcertato dai misteri che vede affiorare dal passato, riunisce la famiglia a pranzo per un chiarimento. Qui Gilardini reagisce all’ostilità di Sandra, accusando i fratelli di un rapporto incestuoso. Gianni non replica nulla, e Andrew lo aggredisce. Quindi parte, invitando la moglie a dimenticare il passato e a raggiungerlo. Gianni invece, distrutto il romanzo per compiacere la sorella, la scongiura di restare con lui, minacciando di suicidarsi. Ma Sandra si sottrae a lui con disprezzo, decisa ad accogliere l’invito del marito. Mentre Sandra assiste alla cerimonia commemorativa del padre, Gianni si uccide.
Su un remoto sfondo dei delitti nazisti, Visconti affrontò il tema dell’incesto con la storia di due fratelli alla ricerca torbida e tenera di passioni e memorie perdute nell’infanzia. Vaghe stelle dell’Orsa… trova, pertanto, le sue note migliori nell’ambiguo intreccio psicologico e nella “contrapposizione tra il presente e il passato, il vecchio e il nuovo: espressa visivamente dal contrasto fra la luminosa e asettica Ginevra e la spettrale e inquietante Volterra” (Di Giammatteo).
Un film relativamente a basso costo, girato prevalentemente in interni e in bianco e nero, in cui il regista, per la prima volta, fece ricorso allo zoom, utilizzato per sottolineare velocemente alcuni passaggi, senza dilungarsi in descrizioni, e per non rispondere alle domande sul delitto, sull’incesto.
La giuria di Venezia, presieduta da Luigi Chiarini, conferì a Vaghe stelle dell’Orsa… il Leone d’Oro, quasi a riparare i torti, cinematografici e non, subiti dai superiori La terra trema, Senso e Rocco e i suoi fratelli. Il film venne distribuito a partire dal 16 settembre 1965.
Nei mesi successivi Visconti si divise nuovamente tra teatro e lirica. Portò in scena “Il giardino dei ciliegi”, l’ultima opera di Anton Čechov, “Don Carlo”, ispirato ai violenti contrasti della cultura spagnola e “Falstaff” ancora tratto da Verdi.
Nell’autunno del 1966 il regista venne contattato da Dino De Laurentis per la realizzazione di un nuovo film ad episodi, tutti interpretati dalla moglie Silvana Mangano, tutti incentrati sulla figura della donna-strega. Gli altri registi coinvolti furono Mauro Bolognini, Vittorio De Sica, Pier Paolo Pasolini e Franco Rossi. Il film, intitolato Le streghe, uscì il 22 febbraio 1967.
L’episodio di Visconti venne scritto da Giuseppe Patroni Griffi e Cesare Zavattini. Nel cast, oltre alla protagonista, alcune “vecchie” conoscenze del cineasta, Annie Girardot, Massimo Girotti, Clara Calamai, cui si unirono Francisco Rabal, Véronique Vendell, Elsa Albani. Piccola parte, infine, per Marilù Tolo, futura compagna di Dario Argento.
I titoli di testa disegnati e animati da Pino Zac aprono il film che vede, come primo episodio, quello del “nobile” regista intitolato La strega bruciata viva.
L’attrice Gloria (Silvana Mangano) arriva nello chalet austriaco di Kitzbühel, ospite dell’amica Valeria (Annie Girardot), che festeggia il suo anniversario di matrimonio con Paolo (Francisco Rabal). Gloria comincia a esibirsi in un gioco di società, ma è colta da malore. Nel soccorrerla, gli invitati si accorgono dei suoi posticci: la retina dei capelli, le ciglia di visone, i tiranti del viso. Durante la notte: Valeria tenta invano di tornare con il marito, da cui dorme separata da tempo; alcuni ospiti amoreggiano con i domestici; Gloria gioca con la rivalità di due corteggiatori, il marito dell’amica e uno sportivo (Massimo Girotti). Ma sviene di nuovo, e Valeria comprende che è incinta. Gloria comunica telefonicamente la notizia al marito, il quale, pur di non disdire i contratti cinematografici stipulati, si oppone alla gravidanza. Lei tenta inutilmente di contraddirlo. Al mattino, gli addetti della produzione vengono a prelevarla in elicottero: e lei si lascia condurre via, come un magnifico automa, in mezzo ai flash dei fotografi.
Nel secondo episodio, Senso Civico diretto da Mauro Bolognini, una signora (Silvana Mangano) soccorre un pedone (Alberto Sordi) solo per non arrivare tardi ad un appuntamento. Nel terzo cortometraggio intitolato La Terra vista dalla Luna, forse il più celebre del film, realizzato da Pier Paolo Pasolini e musicato da Ennio Morricone, in un futuro imprecisato e surreale Ciancicato Miao (Totò al penultimo film) rimasto vedovo, si mette col figlio Baciu Miao (Ninetto Davoli, accreditato come Nenetto Davoli) alla ricerca di una nuova moglie. La troverà nella sordomuta Assurdina (Silvana Mangano), ma la donna morirà al Colosseo, tra turisti improbali (Laura Betti “baffuta” e Luigi Leoni), a causa di una idea dello stesso Ciancicato in cerca dei soldi per una nuova casa. Nel quarto episodio, intitolato La siciliana e girato da Franco Rossi, Nunzia (Silvana Mangano) scatena il padre (Pietro Tordi) contro i suoi presunti pretendenti. Nel quinto e ultimo segmento, Una sera come le altre, diretto da Vittorio De Sica, Giovanna (Silvana Mangano) rimprovera al marito di origine americane (Clint Eastwood, al primo film dopo la “Trilogia del dollaro”) di essere diventato pigro e di aver perso l’entusiasmo dei primi tempi. Per “vendicarsi” usa l’immaginazione.
Gli episodi, dalla lunghezza diversa (di pochi minuti quelli di Bolognini e Rossi), dovevano raccontare il ruolo della donna nella società moderna, ma alla fine risultano poco incisivi. La Roma di Pasolini è, come sempre, affascinante e in questo caso surreale (a partire dai capelli color rame di Totò e Davoli), ma “il migliore è Visconti, poco comico e molto serio, angosciante nel ritratto di una diva in una realtà claustrofobica” (Mereghetti), nonostante il suo spezzone venne ridotto arbitrariamente dal produttore.
Tuttavia, sempre per De Laurentis, Visconti realizzò anche la pellicola successiva: un adattamento per il grande schermo del romanzo di Albert Camus “L’Étrange” (“Lo straniero”). Il regista aveva amato il libro fin dalla sua uscita nel 1942, aveva cominciato a lavorare ad una sua trasposizione nel 1962, all’indomani dell’indipendenza algerina, ma si era convinto a farne un film solo collegando le nuove forme di contestazioni giovanili, che portarono al ’68, con le aspirazioni di libertà che la sua generazione aveva visto dell'”assurdo” dello scrittore francese.
La realizzazione del film non fu tuttavia semplice. La vedova di Camus impedì a Visconti qualsiasi libertà interpretativa nell’adattamento del romanzo. A questo si aggiunse l’indisponibilità di Alain Delon ad interpretare il ruolo del protagonista, poi andato a Marcello Mastroianni (… alla faccia del “ripiego”). Infine si sommò la delusione nei vedere i luoghi ormai modificati dal tempo. L’entusiasmo iniziale del regista era ormai scemato, ma gli impegni contrattuali con De Laurentis andavano rispettatati, cosicché il regista, insieme a Suso Cecchi D’Amico, George Couchon, Emmanuel Roblès, si limitò ad una semplice illustrazione del libro. Lo straniero uscì nelle sale il 14 ottobre 1967.
1939. Mersault (Marcello Mastroianni), un modesto impiegato francese ad Algeri, si reca all’ospizio in cui era ricoverata la madre, per assistere al suo funerale. La cerimonia lo lascia indifferente. Con lo stesso senso di estraneità egli allaccia poco dopo una relazione con una ex collega, Maria (Anna Karina) e stringe amicizia con un mediocre malvivente, Raimondo (Georges Geret). Questi si compromette malmenando la sua amante araba, e Mersault testimonia a suo favore. La domenica, Mersault, Maria e Raimondo vanno in una casa di amici, al mare. Alcuni arabi li seguono per vendicarsi su Raimondo e lo feriscono in una colluttazione. Raimondo è armato; per evitare il peggio Mersault gli sottrae la pistola. Ma poi si trova lui stesso di fronte a uno degli arabi, che lo affronta con un coltello. Gli spara e quindi, senza ragione apparente, scarica il caricatore sul corpo esamine. Al processo, in cui sfilano tutti i personaggi della vicenda, Mersault è messo sotto accusa: non tanto per il delitto, quanto per la sua condotta di vita e la sua insensibilità verso la madre. Rinuncia a difendersi e rifiuta i conforti religiosi. Consapevole dell’assurdità di tutto, si prepara all’esecuzione capitale.
Lo straniero di Visconti, ignorato da pubblico e critica quasi fosse una inutile parentesi nella carriera del regista, non riuscì ad illustrare la filosofia dell'”uomo in rivolta” e si limitò, cosa comunque non banale, a trascrivere ciò che era esplicitamente detto nel romanzo: le dichiarazioni di “disamore” a Maria, le arringhe degli avvocati, la diatriba con il prete. Diverse rimangono comunque le scene eccellenti.
La vita del regista, nel frattempo, era ad una svolta. Nel 1964, sul set di Vaghe stelle dell’Orsa…, gli era stato presentato un modello e attore austriaco. Il cineasta, rimastone colpito, lo aveva scelto per una piccola parte ne La strega bruciata viva. Il suo nome era Helmut Berger, nome d’arte di Helmut Steinberger, un giovane destinato ad assumere un ruolo di primo piano nella vita e nel cinema di Visconti.
LA TERZA PARTE USCIRÀ IL 27 DICEMBRE
redazionale
Bibliografia
“Luchino Visconti” di Alessandro Bencivenni – Castoro
“Luchino Visconti. Rocco e i suoi fratelli” di Mauro Giori – Lindau
“Operazione Gattopardo” di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice – Feltrinelli
“Federico Fellini” di Mario Verdone – Castoro
“Vittorio De Sica” di Franco Pecori – Castoro
“Pier Paolo Pasolini” di Serafino Murri – Castoro
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza Screenshot dei film Rocco e i suoi fratelli e Il Gattopardo; foto 1 da salerno.italiani.it; foto 2 da www.homolaicus.com; foto 3 Screenshot del film Furore di vivere; foto 4 Screenshot del film I soliti ignoti; foto 5 foto da www.ilmessaggero.it; foto 6 da www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it; foto 7, 8, 9, 10, 11, 12 Screenshot del film Rocco e i suoi fratelli; foto 13, 14, 15 Screenshot del film Boccaccio ’70; foto 16, 26 da it.wikipedia.com; foto 17, 18, 19, 20, 21 Screenshot del film Il Gattopardo; foto 23, 23 Screenshot del film Vaghe stella dell’Orsa…; foto 24, 25 Screenshot del film Le streghe; foto 27, 28 Screenshot del film Lo straniero.
Le immagini sono di proprietà dei legittimi proprietari e sono riportate in questo articolo solo a titolo illustrativo.