PRIMA PARTE
Per le dittature il cinema è sempre stato un importante strumento di propaganda. L’Italia fascista non fece eccezione. Benito Mussolini, infatti, investì molto sulla settima arte. Da una parte potenziò la struttura, basti pensare all’Istituto Luce fondato nel 1924, alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia inaugurata con appoggio del regime nel 1932 e a Cinecittà il complesso di studi costruito tra il 1936 e il 1937; dall’altra il Duce fece delle pellicole un veicolo per le “idee” fasciste.
Se si esclude il Calligrafismo, tendenza sviluppatasi nella prima metà degli anni Quaranta che in estrema sintesi vedeva la trasposizione cinematografica di opere letterarie (da segnalare le pellicole di Mario Soldati), i quasi ottocento film prodotti in quegli anni o enfatizzavano i “valori” e le “conquiste” del regime, su tutti Vecchia guardia (1934) di Alessandro Blasetti, o descrivevano un’Italia felice e benestante simboleggiata da un oggetto che diede il nome a quella tendenza, il cosiddetto cinema dei “Telefoni bianchi”.
Nel Ventennio si affermarono, inoltre, importanti registi quali Augusto Genina (Addio giovinezza!, Miss Europa, Lo squadrone bianco), Mario Caserini (Gli uomini, che mascalzoni…, Darò un milione, I grandi magazzini) oltre ai già citati Blasetti (La corona di ferro, La cena delle beffe) e Soldati (Piccolo mondo antico), nonché attori e attrici destinati a rimanere nella storia come Gino Cervi, Vittorio De Sica e Alida Valli.
Tutte le pellicole di quegli anni, che fossero tratte da opere letterarie o film di propaganda, commedie o drammi sentimentali, film avventurosi o in costume, avevano in comune una forte impronta nazionalista. Ma ci fu un uomo che, fin dalla sua prima opera, ruppe con quel tipo di cinema. Era un nobile. Per la precisione Duca di Grazzano, Conte di Lonate Pozzolo, Signore di Corgeno, Consignore di Somma, Consignore di Crenna, Consignore di Agnadello, Patrizio Milanese, ma aveva scoperto il comunismo e l’antifascismo in Francia come assistente di Jean Renoir. Il suo nome era Luchino Visconti.
Il padre Giuseppe Visconti di Modrone (Milano, 10 novembre 1879 – Milano, 16 dicembre 1941), era Duca di Grazzano e Conte di Modrone, ma soprattutto era un uomo poliedrico. Fu, infatti, Presidente dell’Inter, amico di Gabriele D’Annunzio, amico, più o meno intimo, della Regina Elena, finanziatore del Teatro La Scala e del Teatro Manzoni, attivo nell’industria tessile, nonché inventore di profumi ed essenze, tra queste la celebre acqua di Selva, che commercializzò con la ditta da lui fondata, la Gi.Vi.Emme, dalle iniziali del suo nome. Ma prima di aprire un’azienda propria, Giuseppe Visconti aveva collaborato con la ditta di Carlo Erba, la prima industria farmaceutica italiana oggi assorbita del gruppo Johnson & Johnson, che era proprietà di una sua discendente, Carla Erba (1880 – Cortina d’Ampezzo, 16 gennaio 1939). I due fatalmente si sposarono, andando ad unire due delle famiglie più importanti della Milano dell’epoca.
Dal loro matrimonio nacquero Guido (Milano, 9 dicembre 1901 – El Alamein, 14 ottobre 1942), Anna (Milano, 12 Maggio 1903 – Grazzano Visconti, 3 Aprile 1977), Luigi (Milano, 10 giugno 1905 – Gariga, 30 novembre 1967). Il quartogenito fu Luchino, nato a Milano il 2 novembre del 1906 (… già controcorrente), cui venne dato lo stesso nome di un nobile e condottiero, suo antenato, che aveva dato lustro nel Trecento alla casata dei Visconti. Negli anni successivi la famiglia si allargò ulteriormente con la nascita di Edoardo (Milano, 28 Settembre 1908 – Milano, 4 ottobre 1980), Ida Pace (Milano, 19 gennaio 1916 – 6 agosto 2008) e Uberta (Milano, 6 Aprile 1918 – Roma, 30 Luglio 2003).
L’adolescenza di Luchino fu felice e irrequieta. Frequentò prima il Liceo classico Berchet di Milano, dove venne bocciato, poi il Liceo classico Dante Alighieri. Scappò più volte di casa e da scuola. Insomma, non era certo un grande studente, ma era un accanito lettore. Nel 1926 venne arruolato, con tutti gli agi del figlio di una nobile famiglia, nella scuola cavalleria di Pinerolo. Si congedò col grado di sottufficiale, ma la passione per i cavalli, nata da bambino nella stalla di famiglia, fece si che il giovane Visconti fondò una propria scuderia che ottenne ottimi risultati, arrivando a vincere nel Gran Premio di Milano San Siro.
Ma le sue grandi passioni erano la musica, l’opera e il teatro. Passioni ereditate da papà Giuseppe e mamma Carla. La famiglia Visconti di Modrone, infatti, finanziava La Scala. Il loro salotto nel sontuoso palazzo di via Cerva a Milano, ospitava con frequenza Puccini, Toscanini, Ricordi. Anche la celebre Villa Erba sul lago di Como, la residenza estiva della famiglia, era solita accogliere numerosi artisti. Luchino prese lezioni di violoncello dal compositore Lorenzo de Paolis, e, imitando il padre, scriveva e metteva in scena spettacoli privati con amici.
Con quella cultura e con quella formazione il futuro regista iniziò a viaggiare. Meta preferita: Parigi. Nella capitale francese conobbe, tra gli altri, André Gide, Harry Bernstein e, soprattutto, Jean Cocteau. Tornato a Milano Luchino Visconti iniziò ad interessarsi timidamente al cinema. Realizzò, infatti, un film amatoriale che raccontava il dramma di un ragazzo diviso tra l’amore per un’adolescente, una prostituta e una donna ideale. Quest’ultima fu interpretata da Nicoletta Arrivabene Valenti Gonzaga, per tutti Niki. Una nobildonna che aveva sposato Edoardo, il fratello minore di Luchino. Il regista se ne innamorò.
Ma i conflitti sentimentali per Luchino erano appena iniziati. In una famiglia nobile, quale era quella dei Visconti, era quasi d’obbligo sposarsi, intrecciando così i rami di altre famiglie non meno nobili. Questo valeva soprattutto per i figli maschi. Guido era sposato Franca Viviani della Robbia (si è scritto anche di una sua relazione con l’attrice Elsa De Giorgi), Luigi era spostato con Maddalena Arrivabene Valenti Gonzaga (donna che anni dopo partecipò alla Resistenza), sorella di Niki sposata, appunto, con Edoardo. Luchino non solo non era sposato, anche se ci andò vicino nel 1935 con Irma von Windisch Graetz, detta Pupe, erede di una nobile famiglia austriaca, ma aveva sempre più frequentemente relazioni omosessuali.
Tornò quindi nell’amata Parigi. Per Luchino il cinema stava diventando sempre più importante, “un’urgenza espressiva” (Bencivenni), e la Francia, che stava scoprendo il Realismo poetico, basti pensare all’opera di Jean Vigo morto nel 1934, era il luogo ideale per fare film. Visconti scrisse numerosi soggetti e contattò il produttore Gabriel Pascal per proporgli un adattamento del racconto di Flaubert, “Novembre. Fragments d’un style quelconque” (uscito in Italia solo nel 1945 col titolo “Novembre”). Non se ne fece nulla.
Sempre in Francia divenne amico di Coco Chanel e con lei iniziò a frequentare i circoli intellettuali più stimolanti della sinistra francese. Nel 1936, grazie alla stilista, conobbe sia il fotografo della rivista “Vogue” Horst P. Horst, sia il regista Jean Renoir. Col primo Visconti iniziò un discusso e complesso rapporto, incluso un chiacchierato viaggio in Tunisia; col secondo debuttò nel mondo della settima arte. Divenne, infatti, benché non accreditato, costumista e assistente alla regia per Une partie de campagne (Una gita in campagna, 1936), capolavoro tratto da Guy de Maupassant incentrato sulle ipocrisie umane (film che ebbe non pochi problemi con la censura e uscì “mutilato” solo nel 1946) e per Les Bas-fonds (Verso la vita, 1936) un dramma sull’emarginazione con Jean Gabin, ispirato a Maksim Gor’kij.
Ma la collaborazione di Luchino Visconti con Jean Renoir ebbe anche importanti risvolti politici. Il regista francese e il suo entourage erano vicini al PCF e al Fronte popolare. Così il regista, che proveniva da una famiglia di nobili, che aveva auto il nonno Guido Visconti di Modrone e due zii paterni Uberto Visconti di Modrone e Guido Carlo Visconti di Modrone senatori del regno, che “vantava” un cugino, Marcello Visconti di Modrone (figlio di Uberto), fascista nonché Podestà di Milano dal 1929 al 1935, divenne comunista e antifascista.
Rientrato in Italia Visconti disegnò costumi e scene per alcuni allestimenti teatrali (“Carità mondana”, “Il dolce aloe”, “Il viaggio”), quindi, nel 1938, volò negli USA per visitare gli studi di Hollywood.
Molto scosso dalla morte della madre avvenuta nel 1939, continuò, tuttavia, a lavorare al fianco di Jean Renoir che lo aveva coinvolto nella realizzazione del film Tosca da girarsi a Roma. Ma il Fascismo era imperante e la guerra alle porte. Allo scoppio del conflitto il regista francese fu costretto a rimpatriare e la pellicola fu portata a termine dal suo assistente Carl Koch, che essendo tedesco non aveva problemi di sorta, coadiuvato da Visconti.
Stabilitosi definitivamente nella capitale nel 1939 il cineasta, grazie a Koch, conobbe e frequentò Giuseppe De Santis, Gianni e Dario Puccini, poi, grazie a questi ultimi, entrò in contatto con altri intellettuali antifascisti: Mario Alicata, Umberto Barbaro e Pietro Ingrao. Andando così a rafforzare le convinzioni politiche formatesi in Francia al fianco di Renoir. Si avvicinò al Partito Comunista.
Il gruppo faceva riferimento alla rivista “Cinema” che, benché fosse controllata dal regime fascista e diretta in quegli anni da Vittorio Mussolini, offriva spiragli di velato dissenso culturale. Per il periodico Visconti scrisse un articolo intitolato “Cadaveri” in cui denunciò lo stato “fossilizzato” del cinema italiano, cinema che per Visconti doveva, invece, raccontare storie di “uomini vivi” e veri. Per questo il cineasta acquistò o opzionò, tra il 1940 e il 1941, i diritti di alcune opere di Giovanni Verga, il maggior esponente della corrente letteraria del Verismo, tra queste “I Malavoglia”, “Jeli il pastore” e “L’amante di Gramigna”. Partendo proprio da quest’ultima novella Visconti, insieme ad Alicata, De Santis e Gianni Puccini, scrisse una sceneggiatura che raccontava la storia di un contadino divenuto brigante per necessità. Il testo fu bloccato dal Ministro della cultura popolare del Regno d’Italia Alessandro Pavolini che scrisse, di suo pugno, “Basta con i banditi!” sulla bozza del copione.
Visconti si concentrò così, su suggerimento dell’amico Renoir, su un libro scritto dallo statunitense James Cain. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1934, non era ancora edito in Italia. Luchino lo lesse così nell’edizione francese intitolata “Le facteur sonne toujours deux fois”, nell’originale “The Postman Always Rings Twice” (“Il postino suona sempre due volte”, libro che uscì nel nostro Paese solo nel 1946). Sempre in francese vide anche la prima trasposizione del romanzo, Le dernier tournant (1939) di Pierre Chenal.
Insieme ad Alicata, De Santis e Gianni Puccini, Luchino Visconti scrisse un libero adattamento del libro di Cain, spostando la storia di delitto e di passione, torbida, sensuale, esasperata, da San Francisco al Po. La sceneggiatura intitolata Palude ottenne il visto dalla censura. Al gruppo di lavoro si unirono, più o meno attivamente, anche Alberto Moravia, Antonio Pietrangeli, Pietro Ingrao, Libero Solaroli e Mario Serandrei. Alle istanze politico e sociali che il gruppo condivideva, si unì un’inclinazione al melodramma propria di Visconti, appresa tra lirica e teatro, subito vista con vista con “sospetto” dagli altri antifascisti. Ma il nuovo ambiente di militanti e di intellettuali segnò per Visconti lo stacco definitivo con le origini sociali della famiglia. Ad accentuare questo elemento, dopo la madre, morì anche il padre Giuseppe (1941) e il fratello Guido, caduto per il regime nella battaglia di El Alamein (1942).
Il film cambiò nome da Palude divenne Ossessione e per finanziarlo Visconti fu costretto a vendere i gioielli della madre. Le riprese iniziarono il 15 giugno del 1942. Nel cast Massimo Girotti (Mogliano, 18 maggio 1918 – Roma, 5 gennaio 2003) atleta divenuto attore che aveva recitato, tra gli altri, ne La corona di ferro (1941) di Alessandro Blasetti; Dhia Cristiani (Dovadola, 27 giugno 1921 – Roma, 17 luglio 1977) attrice e doppiatrice spesso diretta da Mario Camerini; Michele Riccardini (Perugia, 2 ottobre 1910 – Merate, 24 luglio 1978) caratterista molto apprezzato all’epoca; Vittorio Duse (Loreto, 21 marzo 1916 – Roma, 2 giugno 2005) al primo ruolo di rilievo; Juan Pisón Pagoaga y Landa (Mutriku, 27 gennaio 1894 – Mutriku, 18 febbraio 1968) corpulento attore spagnolo, per meglio dire basco; Elio Marcuzzo (Treviso, 27 luglio 1917 – Breda di Piave, 28 luglio 1945) giovane attore che aveva debuttato al fianco di Alberto Sordi nel film Il feroce Saladino (1937) diretto da Mario Bonnard.
Il principale ruolo femminile venne, infine, affidato alla giovane Anna Magnani. La donna, dopo alcune scene, fu, tuttavia, costretta a rinunciare poiché in attesa del figlio Luca, frutto della relazione con l’attore Massimo Serato (nascerà il 23 ottobre dello stesso anno). L’attrice fu sostituita da Clara Calamai (Prato, 7 settembre 1909 – Rimini, 21 settembre 1998) tra i volti più noti del cinema dell’epoca basti pensare a Ettore Fieramosca (1938) e La cena delle beffe (1942) diretta da Alessandro Blasetti (quest’ultima interpretazione divenuta famosa per i pochi fotogrammi a seno nudo) ed, infine, inquietante assassina in Profondo rosso (1975) di Dario Argento. Ossessione uscì a Roma il 16 maggio del 1943.
Un vagabondo, Gino Costa (Massimo Girotti), si ferma in un casolare lungo il Po che ospita uno spaccio gestito dall’anziano Giuseppe Bragana (Juan De Landa) insieme alla giovane moglie Giovanna (Clara Calamai). La donna si innamora del giovane, lo trattiene con un pretesto e ne diviene l’amante. Il marito non sospetta di nulla e arriva ad offrire a Gino un lavoro. Quest’ultimo è mosso dal rimorso, ma propone a Giovanna di fuggire insieme. Al suo rifiuto, parte da solo alla volta di Ancona. In treno conosce un girovago detto Lo Spagnolo (Elio Marcuzzo) e si unisce a lui. Gino cambia vita e inizia a lavorare in una fiera, ma quando ad Ancona giungono anche Giovanna e il Bragana, impegnato in un concorso lirico amatoriale, scoppia nuovamente la passione. I due amanti decidono così di uccidere Giuseppe fingendo un incidente stradale. Il piano riesce, ma insospettisce la polizia. Dopo il delitto, inoltre, i rapporti tra Gino e Giovanna divengono tesi. Poiché il Bragana possedeva un’assicurazione sulla vita, l’uomo crede di essere stato usato dalla donna per interesse e allaccia una relazione con la ballerina-prostituta Anita (Dhia Cristiani). Solo quando Giovanna gli rivela di essere incinta, si riconcilia con lei. La polizia è, tuttavia, sulle loro tracce. Tentano la fuga, ma hanno un incidente. Giovanna muore e Gino viene arrestato.
Ossessione rappresentò una rottura con la cinematografia del regime fatta di sorrisi patinati, “telefoni bianchi”, retorica trionfalistica. La pellicola mostrò, infatti, canottiere sporche, rapporti sociali e familiari inediti e scandalosi, ambienti degradati e torbidi. Nel suo film d’esordio Visconti tratteggiò “un mondo squallido e senza speranza, raccontato con un insolito pessimismo e freddezza di toni” (Mereghetti), una pellicola che non si inseriva nel genere poliziesco del romanzo di Cain, ma attingeva a piene mani dal Realismo poetico francese, a partire dal protagonista miserabile e sconfitto.
La prima opera di Visconti fu pertanto un film politico e antifascista. Nella pellicola non vi è alcun riferimento diretto ne al regime ne alla guerra, ma viene sottolineata l’attesa del nuovo e la critica del vecchio ordine. Non solo. Il mondo descritto, la vita di provincia, alcuni meschini personaggi quali Don Remigio (Michele Riccardini), l’agente di polizia (Vittorio Duse, poi Don Tommasino ne Il padrino – Parte III), l’uomo che a Ferrara informa Gino dove trovare delle prostitute, rappresentano la mentalità del Fascismo. La incarnano. Come lo stesso Bragana maschilista, paternalista, razzista, egoista, caratteristiche che, oltre a “giustificare” il suo omicidio, erano quelle tipiche dell’uomo medio su cui si fondava l’Italia fascista.
Positive, al contrario, le figure di Gino che incarna la libertà e quella de “Lo spagnolo” altrettanto libero. Nelle intenzioni originali quest’ultimo doveva essere un proletario che aveva combattuto contro i franchisti e tornava in Italia per propagandare idee antifasciste, ma alla fine divenne un girovago omosessuale dai tratti anarchici che, più che un’amicizia, con Gino avvia una relazione. Per Visconti, l’omosessualità, seppur non esplicitata nel film, come elemento contestatore, come valore liberatorio e positivo.
Il ruolo venne interpretato, come scritto, da Elio Marcuzzo che era sia antifascista, sia omosessuale. Amico di Giuseppe De Santis, Gianni Puccini e Pietro Ingrao, recitò in 14 film per poi ritirarsi, dopo l’8 settembre 1943 e la nascita della Repubblica Sociale Italiana, a Cavriè, frazione di San Biagio di Callalta in provincia di Treviso, dove era sfollata la famiglia. Da uomo di sinistra non accettò, infatti, di lavorare per gli studi cinematografici della RSI. Ma nel dopo guerra venne fermato, insieme al fratello minore Armando, da un gruppo di partigiani della Brigata Garibaldi travestiti da “repubblichini”. Il gruppo era guidato da Gino Simionato, “Falco”. Ai due fratelli Marcuzzo venne mossa l’accusa di essere dei collaborazionisti, avevano semplicemente aiutato un funzionario comunale a tradurre due lettere dal tedesco una dall’inglese, e per questo portati nella famigerata cartiera di Mignagola. Vennero impiccati e, come dimostrò la perizia medica, sepolti ancora vivi. Elio Marcuzzo, forse colpito anche perché omosessuale, aveva ventotto anni e un giorno. Simionato e altri furono processati per questo e per i delitti della Strage della cartiera di Mignagola, ma con la sentenza emessa il 24 giugno 1954 il Giudice istruttore Favara sentenziò il “non doversi procedere a carico degli imputati indicati […] in ordine ai reati loro rubricati, perché estinti per effetto amnistia”. Nel 1998 Pietro Ingrao, in merito all’esecuzione dell’attore, sottolineò: “Un terribile equivoco, una storia per me amarissima e triste. Elio condivideva le nostre speranze e il nostro odio per il fascismo”. Una brutta e triste pagina che non può essere utilizzata per riscrivere la storia, ma non può nemmeno essere dimenticata.
Tornando al cinema Ossessione venne distribuito con l’approvazione di Mussolini, ma il film provocò l’indignazione dell'”italiano medio” e soprattutto quella dei prefetti, per la descrizione del Paese, e dei vescovi, per la passione carnale tra Gino e Giovanna, che boicottarono l’opera in tutto il Pasese. Il film venne sequestrato e mutilato. Rimontato arbitrariamente. La prima opera di Luchino Visconti, nella versione integrale, è tornata alla luce solo in anni recenti, grazie all’infaticabile opera della Cineteca di Bologna.
Anche negli Stati Uniti, sebbene per ragioni commerciali, il film non ebbe vita semplice. La Metro-Goldwyn-Mayer che aveva prodotto nel 1945 The Postman Always Rings Twice (Il postino suona sempre due volte) con John Garfield e Lana Turner, preoccupata dello scomodo confronto, riuscì ad impedire che il film del regista italiano uscisse nelle sale americane. La versione integrale giunse negli USA solo nel 1976.
Nonostante censure e boicottaggi Ossessione aveva comunque fatto la Storia. Il montatore Mario Serandrei, visionato il materiale, sentì il bisogno di coniare un nuovo aggettivo per definirlo. In uno storico biglietto scrisse a Visconti: “Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l’appellativo di neo-realistico”. Gli fece eco il regista e critico Antonio Pietrangeli, padre del cantautore Paolo, che sulla rivista “Revue du cinéma” il 13 maggio 1948 scrisse, riferito al personaggio interpretato da Massimo Girotti: “Non ha ancora un nome. Vogliamo battezzare noi stessi il Gino di Ossessione? Chiamiamolo, se volete, il neorealismo italiano”. Altri film avevano introdotto temi nuovi nel cinema del Paese, Quattro passi fra le nuvole (1942) Alessandro Blasetti (regista per tutte le stagioni…) e I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica, ma fu con Ossessione che si aprì definitivamente la stagione del Neorealismo. La più grande stagione del cinema italiano.
Ma l’Italia era ancora quella fascista. Quel gruppo di giovani comunisti era sempre più sotto controllo. Mario Alicata venne arrestato nel dicembre del 1942 (poco dopo la fine delle riprese di Ossessione), Pietro Ingrao viveva in clandestinità sulle montagne della Sila. Gli altri, tuttavia, non si scoraggiarono e continuarono a lottare. Il regista entrò in contatto con gruppi partigiani, nascose nella sua villa romana, che condivideva con l’attrice María Denis, militari alleati in fuga e diversi perseguitati politici. Tra questi il comunista Sisinnio “Paolo” Mocci “assunto” come maggiordomo. Ma il cerchio si stava stringendo. Il 28 febbraio 1943 uno squadrone nazista si presentò alla porta della villa. C’erano tutti. Per evitare di coinvolgere gli altri, Mocci si consegnò ai tedeschi. Venne trucidato alle Fosse Ardeatine.
Luchino Visconti, che a seguito dell’8 settembre 1943 si era dato alla latitanza, dopo aver tentato di fuggire insieme alla sorella Uberta, al cognato Renzo Avanzo e all’attore Massimo Girotti, tornò a Roma con un’identità finta fornitagli da PCI, Alfredo Guidi. Venne comunque arrestato. Era l’aprile del 1944. Fu imprigionato per dodici giorni nella Pensione Jaccarino, famigerata per le sevizie degli aguzzini fascisti guidati da Pietro Koch. Venne condannato a morte. Si salvò solo grazie all’intervento di María Denis che accettò le lusinghe del torturatore fascista. Cosa accadde realmente non lo sapremo mai, quel che è certo è che Luchino Visconti ebbe la vita salva e trovò rifugio nel monastero di San Gregorio al Celio fino all’arrivo degli alleati, che ruppe la relazione con l’attrice e che quest’ultima nel dopoguerra fu accusata di collaborazionismo. Pare, infine, che a favore del regista si mobilitò anche la prima pilota automobilista italiana Maria Antonietta Avanzo, amata dal regime, ma antifascista (salvò anche numerosi ebrei dal tristemente famoso rastrellamento del Ghetto), nonché sorella del cognato di Visconti e zia di Roberto Rossellini.
Dopo la Liberazione di Roma, avvenuta tra il 4 e il 5 giugno 1944, Luchino Visconti filmò per conto dell’esercito il processo a Pietro Caruso, Questore di Roma sotto l’occupazione tedesca, e al suo segretario Roberto Occhetto. Fu il primo processo nella capitale dopo la Liberazione. Il regista intervenne anche come testimone dell’accusa, raccontando le torture psicologiche e fisiche subite dagli aguzzini fascisti. La pena chiesta dall’accusa rappresentata da Mario Berlinguer, padre del futuro Segretario del PCI, fu quella della pena capitale. Il regista, che assistette anche al linciaggio dell’ex direttore di Regina Coeli Donato Carretta, riprese anche la fucilazione di Caruso, del delatore Federico Scarpato e di Pietro Koch.
Molte di quelle drammatiche immagini furono, insieme ad altre, montante nel documentario Giorni di gloria (1945) curato da Mario Serandrei e Giuseppe De Santis. Film che rievoca le lotte partigiane, i rastrellamenti, la Liberazione di Roma, l’apertura delle fosse Ardeatine (immagini filmate da Marcello Pagliero), la Liberazione di Milano, l’arresto del Generale Rodolfo Graziani e “i giorni di gloria”. Il primo e forse più importante film di montaggio sulla Resistenza italiana, realizzato anche grazie a materiale requisito dagli alleati e a riprese fatte in clandestinità delle brigate partigiane. Il commento di Umberto Calosso e Umberto Barbaro a volte è un po’ retorico, ma la pellicola, prodotta dall’ANPI, rappresenta ancora oggi un documento unico.
Una pagina di storia d’Italia e personale che segnò molto Luchino Visconti. Nel dopo guerra, partendo dalla sua esperienza di carcerato condannato a morte dai fascisti, scrisse un soggetto insieme a Mario Chiari, Rinaldo Ricci e Franco Ferri sul Trattamento della Pensione Oltremare (altro luogo di tortura della banda di Koch). Il regista pensò anche ad un film, Furore, sulla lotta partigiana, ma i due progetti non videro mai la luce.
Stava, invece, per nascere la Repubblica Italiana e Visconti si schierò pubblicamente in suo sostegno nel Referendum del 2 giugno 1946. Consolidò, parallelamente, pur senza mai iscriversi, il rapporto col PCI anche grazie all’amicizia col deputato comunista Antonello Trombadori.
In questo periodo il regista si dedicò maggiormente al teatro. Diresse in tre anni undici allestimenti andando, come già accaduto nel cinema, ad innovare il repertorio italiano. Portò, infatti, sulla scena testi di autori contemporanei quali Tennessee Williams, Sartre, Hemingway, Cocteau, Caldwell, Anouilh, Achard. Proprio l'”Adamo” di quest’ultimo venne bloccato dalla censura poiché mostrava la vita di un omosessuale. Quindi rilesse “Il matrimonio di Figaro” di Beaumarchais bloccato in epoca fascista.
Durante questa importante attività teatrale conobbe e iniziò a frequentare la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico, pseudonimo di Giovanna Cecchi D’Amico (Roma, 21 luglio 1914 – Roma, 31 luglio 2010), figlia del critico cinematografico Emilio Cecchi già a capo della casa di produzione Cines che sviluppò, in particolare, la corrente del Calligrafismo; e G. R. Aldo, vero nome Aldo Rossano Graziati (Scorzè, 1 gennaio 1905 – Albarea di Pianiga, 14 novembre 1953), spesso chiamato Aldò, alla francese, per sottolineare la sua lunga esperienza come Direttore della fotografia in Francia, soprattutto al fianco di Marcel L’Herbier. I due divennero fondamentali per la carriera del regista.
Una carriera che proseguì con in mente l’opera di Giovanni Verga, la sua Sicilia, quei romanzi a fondo sociale che il cineasta voleva unire al pensiero di Antonio Gramsci. Per il teatro pensò ad una rappresentazione della “Cavalleria rusticana”, mai realizzata, per il cinema un documentario in tre parti sulla condizione dei lavoratori dell’isola. Il primo film avrebbe raccontato la lotta di un pescatore e della sua famiglia contro i grossisti del pesce; il secondo la storia di un gruppo di minatori che forma una cooperativa per gestire una miniera abbandonata; il terzo film si sarebbe, invece, concentrato sull’occupazione di terre incolte da parte dei braccianti. La trilogia si sarebbe conclusa con la vittoria dei contadini, sostenuti dai pescatori e dai minatori. La scena finale, una galoppata lungo le terre strappate ai latifondisti, diede il titolo alla trilogia: La terra trema sotto l’impeto dei cavalli al galoppo.
Nel novembre del 1947 Visconti partì per la Sicilia, per Aci Trezza, con una troupe di esordienti. Come assistenti alla regia contattò due giovani attori che aveva diretto a teatro in una rappresentazione di “Delitto e castigo”. Il primo, Achille Millo, rifiutò consigliando un amico con ambizioni registiche. Il secondo accettò con entusiasmo. Uno era napoletano, l’altro fiorentino. Il primo si chiamava Francesco Rosi, il secondo Franco Zeffirelli.
La sceneggiatura venne scritta da Visconti a quattro mani con Antonio Pietrangeli. Il soggetto venne avvallato dal Partito Comunista Italiano, anche grazie all’interessamento di Trombadori, che finanziò il progetto attraverso la società Ar.Te.As diretta da Alfredo Guarini, con 6 milioni di lire. Troppo pochi, anche perché l’opera del regista stava diventando sempre meno un documentario e sempre più un film a soggetto. Il PCI non fornì ulteriori fondi, i soldi ben presto finirono e Visconti fu costretto, una volta di più, a sopperire di tasca propria. Il film si salvò solo grazie all’intervento del produttore siciliano Salvo D’Angelo (Catania, 6 agosto 1909 – Torino, 26 ottobre 1962) a capo della cattolica Universalia Film, che ottenne in cambio i diritti della pellicola, incluso il materiale già girato, su scala nazionale e internazionale. Il progetto, tuttavia, dovette limitarsi al primo episodio, quello del mare, in cui si accentuò il legame con “I Malavoglia”. Nacque così La terra trema.
Una didascalia nella premessa del film informa che “Tutti gli attori sono stati scelti tra gli abitanti del paese: pescatori, ragazze, braccianti, muratori, grossisti di pesce. Essi non conoscono lingua diversa dal siciliano per esprimere ribellioni, dolori, speranze. La lingua italiana non è, in Sicilia, la lingua dei poveri”.
Ad Aci Trezza, centro peschereccio nei pressi di Catania, il giovane ‘Ntoni Valastro (Antonio Arcidiacono), stanco dei soprusi dei grossisti del pesce, invita gli altri pescatori a ribellarsi. Scoppiano tumulti, alcuni lavoratori vengono arrestati, ma alla fine sono gli stessi grossisti a farli rilasciare, non potendo fare a meno del loro lavoro. Rimasto isolato ‘Ntoni non si arrende e convince la famiglia, nonostante molte resistenze (i genitori sono interpretati da Sebastiano Valastro e Maria Micale), a mettersi in proprio e ad ipotecare la casa per comprare una barca. Un’eccezionale pesca di acciughe sembra dargli ragione, ma una tempesta fa naufragare i suoi sogni di indipendenza economica. ‘Toni è così costretto a vendere sottocosto le acciughe ai grossisti e a perdere, non potendo rispettare l’ipoteca, la casa. Il dissesto economico porta la famiglia Valastro alla disgregazione. ‘Ntoni inizia a bere, la sua ragazza Nedda (Rosa Costanzo) lo lascia, il fratello Cola (Giuseppe Arcidiacono) diventa un contrabbandiere, la sorella maggiore Mara (Nelluccia Giammona) vede sfumare il suo matrimonio con un muratore, quella minore Lucia (Agnese Giammona) viene “disonorata” dal maresciallo della Finanza Don Salvatore, il nonno (Giovanni Greco) muore. Come se non bastasse ‘Ntoni è odiato sia dai grossisti, per il tentativo di ribellione, sia dagli altri pescatori che gioiscono del suo sogno sfumato. Alla fine il protagonista per vivere è costretto a riprendere il mare, con i fratelli più piccoli, sulle barche degli odiati grossisti. Sconfitto, ma non vinto. Ha ormai la consapevolezza che solo una lotta comune, una presa di coscienza collettiva, potrà mutare le condizioni di vita di tutto il paese.
Un film rivoluzionario. Visconti rilesse Verga con un’ottica comunista, dove la lotta contro il “fato” diventa quella degli sfruttati contro gli sfruttatori. “I Malavoglia”, infatti, servì al regista solo da canovaccio per registrare un mondo, una società, un conflitto economico che era reale. Reali erano i dialoghi e le reazioni degli abitanti di Aci Rezza, esaltata dalla fotografia di G. R. Aldo, che vivevano sulla loro pelle quella condizione. Reale era la lingua, il dialetto, non visto in maniera grottesca e caricaturale, ma come voce di quell’umanità proletaria che si ribellava.
La terra trema, col sottotitolo “Episodio del mare”, fu proiettato per la prima volta al Festival di Venezia il 2 settembre 1948, dove vinse il Premio internazionale “per i suoi valori stilistici e corali”, attirando da una parte gli insulti dei benpensanti infastiditi da quella realtà popolare e dalla presenza in laguna dei proletari di Aci Trezza che Visconti portò con se, dall’altra le critiche per l’uso totale del dialetto, le poche parole in italiano sono quelle del narratore Mario Pisu (fratello di Raffaele). Tra queste anche quelle mosse da Leonardo Sciascia che, pur riconoscendo La terra trema come opera fondamentale, criticò la “lingua”. La produzione tagliò così 1300 metri di pellicola (oltre 45 minuti) e la fece doppiare in italiano. Ma il film non ebbe comunque distribuzione. Tramontò definitivamente anche l’ipotesi di realizzare la trilogia sugli sfruttati.
Nonostante ciò il secondo lungometraggio di Luchino Visconti divenne fonte di ispirazione per numerosi registi. Michelangelo Antonioni scrisse: “Per noi, per il cinema italiano (e non solo italiano), è importante che Visconti si sia recato in Sicilia, abbia osservato, visto e inventato. Soprattutto questo: inventato. La terra trema va considerato come una complessa invenzione poetica”. Per Francesco Maselli semplicemente “il più grande film della storia del cinema”. Glauber Rocha, in Brasile, si ispirò all’opera di Visconti per il suo Barravento.
La terra trema fu una grande opera neorealista, per Carlo Levi “il risultato espressivo più completo” di quella stagione cinematografiche. Ma a Visconti le etichette, le semplificazioni, le categorie in cui si voleva “chiudere” la sua arte, stavano strette. Cosa che esplicitò dopo l’allestimento di “Rosalinda” o “Come vi piace” di William Shakespeare. Un allestimento fantastico e sontuoso, le scene e i costumi erano curati Salvador Dali, che ricevette critiche e accuse di mancato realismo. A queste il regista rispose ironizzando contro i “neorealisti più realisti del re”. In un articolo su “La Rinascita” (n. 12 dicembre 1948), infatti, scrisse: “Corre voce che mettendo in scena Rosalinda (o Come vi piace) di Shakespeare, io abbia abbandonato il neorealismo… Mi perdonino coloro che hanno simpatia per questa terminologia imprecisa: che cosa vuol dire “neorealismo”? Nel cinema questo termine è servito a definire le idee che ispirano la recente “scuola italiana”. Ha raccolto uomini, artisti che credevano che la poesia nascesse dalla realtà. Era un punto di partenza. Mi sembra che cominci a diventare una assurda etichetta che ci si è attaccata come un tatuaggio e che invece di designare un metodo, un momento, diventa una limitazione totale, una regola”.
Negli anni successivi Luchino Visconti continuò con successo l’attività teatrale, portando in scena Alfieri, Shakespeare, Miller, Tennessee Williams, ma la carriera cinematografica subì una battuta d’arresto. L’insuccesso commerciale de La terra trema, infatti, fece incontrare al regista molte difficoltà nel realizzare nuovi film. Alcuni ipotizzati, Cronache di poveri amanti e La carrozza del Santissimo Sacramento, vennero girati, con altre sceneggiature, da Carlo Lizzani e Jean Renoir.
Il ritorno dietro la macchina da presa avvenne per un breve documentario. Nel 1951 i produttori e registi Riccardo Ghione e Marco Ferreri, sulla scia del dibattito sul giornalismo cinematografico, avevano dato vita ad una “rivista filmata” intitolata “Documento mensile”. Una sorta di “terza pagina” filmata cui vennero chiamati a collaborare uomini della cultura, cineasti, poeti, scrittori. Aderirono all’iniziativa, tra gli altri, Michelangelo Antonioni, Alberto Moravia, Carlo Levi, Leonardo Sinisgalli, Renato Guttuso.
Il primo numero di questo “cinegiornale” conteneva un corto di Vittorio De Sica, seguito da uno diretto da Moravia, intitolato Colpa del sole, in cui eros e violenza scalfiscono l’indifferenza di una donna enigmatica. Il secondo “Documento mensile”, oltre ad un film di Carlo Levi (Il prurito), prevedeva un’opera di Visconti. Per realizzarla il regista, che si avvalse delle parole dello scrittore Vasco Pratolini e della musica del compositore Franco Mannino, prese spunto da un fatto di cronaca. Il 18 febbraio del 1950, nel quartiere romano di Primavalle, una ragazzina di 12 anni Annarella Bracci era stata violentata e uccisa. Il corto intitolato Appunti su un fatto di cronaca cercò i presupposti di quel delitto, rimasto senza colpevoli, nell’abbandono e nella disgregazione sociale del quartiere.
Ma la censura, dopo aver approvato il progetto “Documento mensile”, ne bloccò la distribuzione. Quelle opere innovative finirono in qualche sperduto magazzino. Appunti su un fatto di cronaca fu proiettato per la prima volta a Parigi nel gennaio del 1953, per poi essere perduto. Solo negli anni Novanta ne venne ritrovata una copia alla Cinémathèque royale di Bruxelles, anche se degli otto minuti originali, ne rimanevano solo cinque.
Nello stesso periodo il produttore Salvo D’Angelo, colui che aveva già finanziato La terra trema, propose a Visconti un film con Anna Magnani, su idea di Cesare Zavattini, una delle figure più rilevanti del Neorealismo. Il soggetto non lo convinceva, ma il regista accettò ugualmente perché stimolato da tre aspetti: tornare a realizzare un lungometraggio per ristabilire un contatto col pubblico; lavorare finalmente con Anna Magnani; aver la possibilità di rielaborare lo scritto di Zavattini. La sceneggiatura venne così (ri)scritta dal cineasta con Suso Cecchi D’Amico e Francesco Rosi. Il neorealismo divenne solo uno spunto iniziale per giungere a un “melodramma satirico” sui falsi miti del cinema. Era Bellissima.
Nel cast il ruolo principale fu, ovviamente, di Anna Magnani (Roma, 7 marzo 1908 – Roma, 26 settembre 1973), mentre per il secondo ruolo da protagonista, un piccolo truffatore disegnato da Suso Cecchi D’Amico, venne ingaggiato, per la cifra record di 15 milioni di lire, un giovane attore tra i più quotati dell’epoca. All’anagrafe risultava chiamarsi Walter Michele Armando Annicchiarico (Verona, 8 marzo 1924 – Milano, 20 dicembre 1991), ma per tutti rimarrà Walter Chiari. Gli altri interpreti furono debuttanti, come l’operaio Gastone Renzelli, vecchi caratteristi, quali Tecla Scarano, o interpreti di se stessi come il presentatore Corrado e il regista Alessandro Blasetti.
Le musiche, ispirate a temi de “L’elisir d’amore” di Donizetti, vennero curate da Franco Mannino. Il montaggio ancora da Mauro Serandrei. La prima di Bellissima si tenne a Milano il 28 dicembre del 1951.
Il conduttore radiofonico Corrado (se stesso) annuncia che il regista Alessandro Blasetti (se stesso) è alla ricerca di una bambina per un film. La notizia attira a Cinecittà una folla di madri, tra cui la popolana Maddalena Cecconi (Anna Magnani) con la figlia Maria (Tina Apicella). La donna vede in questa selezione un’occasione di riscatto sociale. Compie così tutti i sacrifici possibili per pagare alla figlia la maestra di recitazione (Tecla Scarano), il fotografo (Arturo Bragaglia), la maestra di ballo, la sarta, il parrucchiere. Litiga anche con il marito Spartaco (Gastone Renzelli), che si oppone a queste ambizioni. La donna arriva anche ad affidare tutti i suoi risparmi a un piccolo truffatore Alberto Annovazzi (Walter Chiari, chiamato così in omaggio ad un giocatore del Milan) nella speranza che possa favorire la figlia. L’uomo con i soldi si compra una Lambretta (che Chiari imparò a guidare sul set), ma alla fine la bambina viene ammessa al provino. Maddalena, che assiste di nascosto alla proiezione, vede la figlia impaurita in lacrime mentre i registi e i produttori si sbellicano dalle risate. Indignata e umiliata capisce che le sue ambizioni sono sbagliate e, quando la figlia viene effettivamente prescelta, rifiuta di firmare il contratto e si riconcilia con il marito. Mentre la bellissima Maria, sempre triste, assente, sballottata come un oggetto, traumatizzata dai contrasti fra i genitori, dorme finalmente serena.
Un film “disperante e grottesco” sul falso mito del cinema e dello spettacolo più in generale. Visconti, ridisegnando il soggetto di Zavattini, tratteggiò un ambiente di falliti e impostori, di venditori di illusioni e sconfitti. Basti pensare ai ritratti caricaturali della maestra di recitazione e di quella di ballo, all’uso del tema del “Ciarlatano” per accompagnare le immagini con Blasetti, che si infuriò molto, al ruolo interpretato da Liliana Mancini, attrice che sembrava essere destinata ad una carriera radiosa dopo aver recitato in Sotto il sole di Roma (1948), ma che finì, nella realtà e nel film, a fare la montatrice (è la ragazza che consente a Maddalena/Magnani di vedere il provino della figlia).
Bellissima partì dal Neorealismo per arrivarne alla sua negazione. Col quella corrente il film condivise gli aspetti “tecnici” (l’uso austero della macchina da presa, l’improvvisazione degli attori, l’audio in presa diretta), ma negò la contrapposizione ideologica tra “le virtù della realtà e i peccati dell’artificio” dove la lotta di ‘Toni è sostituita dal sogno di Maddalena.
Una delle più grandi interpretazioni di Anna Magnani, cui Visconti lasciò grande libertà limitandosi ad esaltare quegli straordinari monologhi, tra genuinità e improvvisazione. Per il curatore della fotografia Oberdan Troiani, la Magnani, non era un’attrice era semplicemente “La Magnani”. Indimenticabile la scena della contrastata seduzione, tra la protagonista e il personaggio di Walter Chiari, sulla riva al Tevere (realizzata dopo 23 Ciak, cosa che fece infuriare l’attore) e quel “vociare”, quasi indistinto, delle madri che proiettano le loro frustrazioni e le loro ambizioni sulle figlie.
Dopo Bellissima Visconti si concentrò sull’attività teatrale e, dopo aver portato in scena Goldoni (“La locandiera”) e, per la prima volta in Italia, Anton Ĉechov (“Tre sorelle”, “Il tabacco fa male”), polemizzò frontalmente con il Governo De Gasperi per il mancato impegno teso alla creazione in Italia di un vero teatro popolare.
Il regista tornò al cinema poco tempo dopo. Venne, infatti, coinvolto dal produttore Alfredo Guarini in un film ad episodi, un’iniziativa benefica a totale sostegno della Casa di Riposo degli Artisti Cinematografici Italiani. Il film nacque da un’idea di Zavattini tesa a smitizzare la figura della diva. Vennero pertanto chiamate alcune grandi attrici a raccontare episodi della vita privata e altrettanti grandi registi a dirigerle. Il 22 ottobre del 1953 uscì Siamo donne.
Il primo episodio, 4 attrici, una speranza (diretto dallo stesso Guarini) è la cronaca di un concorso per aspiranti attrici (Emma Danieli, Anna Amendola, Luciana Gilli, Madeleine Fischer) di cui vengono descritte le ansie, le speranze e le delusioni. Il secondo film, per la regia di Gianni Franciolini, vede come protagonista Alida Valli che, invitata alla festa di fidanzamento della sua cameriera, tenta di sedurre il giovane per poi pentirsi della cattiveria e lasciare in tempo il ricevimento. Nel terzo corto Ingrid Bergman diretta dal marito Roberto Rossellini, sequestra un pollo alla vicina di casa. Simpatica e spiritosa. Nel quarto, curato da Luigi Zampa, Isa Miranda racconta di aver sbagliato a rinunciare ad avere figli per amore della carriera. Il quinto episodio e ultimo episodio fu diretto da Luchino Visconti e interpretato, non poteva essere altrimenti, da Anna Magnani. Il cineasta con la collaborazione di Suso Cecchi D’Amico per la sceneggiatura e di Francesco Maselli come aiuto regista, non fece fatica a trovare aneddoti ed episodi della vita di Annarella.
Roma 1943. Mentre si reca a teatro per una rappresentazione, Anna Magnani ha un diverbio col tassista che pretende una lira di supplemento per il cagnolino dell’attrice. La donna non ci sta, chiede l’esensione della “tassa” essendo il suo un cane di piccola taglia e arriva a rivolgersi perfino ai Carabinieri. Alla fine riesce ad averla vinta perché il suo è “un cane da grembo”, ma anziché pagare una sola lira, paga i continui giri in taxi, una multa per l’animale e una per essere arrivata in ritardo a teatro.
Un film diseguale, in episodi alcuni non si va oltre lo stereotipo, in cui spicca il corto diretto da Visconti con una una vulcanica Anna Magnani capace, con la sua esuberante spontaneità, di rompere il mondo “delle divise, delle gerarchie, dei regolamenti: caro agli schemi del fascismo” (Bencivenni). Ma Siamo donne ebbe comunque il merito, al di là dell’iniziativa benefica, di mostrare e dare testimonianza delle diverse tendenze del Neorealismo. Una stagione cinematografica che volgeva al termine. Luchino Visconti, con i successivi film, la chiuse definitivamente.
Dopo Bellissima il regista era passato alla Lux e aveva iniziato a scrivere, con l’inseparabile Suso Cecchi D’Amico, alcuni nuovi soggetti. Tra questi Marcia nuziale, un film a episodi sulla crisi del matrimonio cattolico, ispirato alla novella “Au bord du lit” di Guy de Maupassant, in cui una signora “bene” esige dal marito il pagamento delle sue prestazioni coniugali. Ovviamente un simile soggetto fu bocciato dalla censura e la Lux chiese idee alternative. Il cineasta e la sceneggiatrice ne confezionarono ben cinque. Tra queste vi era l’adattamento di breve racconto di Camillo Boito, da poco pubblicato all’interno del volume “Il maestro di setticlavio (Novelle veneziane)” curato da Giorgio Bassani. Il racconto si intitolava “Senso” (poi riletto da Tinto Brass in Senso ’45). La Lux accettò il progetto, invitando a collaborare per la sceneggiatura lo stesso Bassani, e affiancando al regista due sceneggiatori di fiducia: Carlo Alianello e Giorgio Prosperi. Una grande produzione internazionale che vantava la collaborazione di Paul Bowles e Tennessee Williams per i dialoghi in inglese.
Visconti prese spunto dalla novella di Boito per costruire un grande affresco storico capace di “narrare una storia di abiezioni e di viltà, costruire uno spettacolo bello in sé, esprimere un giudizio su un gruppo sociale, il medesimo cui egli appartiene, e un’epoca storica, il Risorgimento” (Di Giammatteo). Per farlo divenne centrale la scelta degli ambienti, il regista scelse quelli reali, i costumi che vennero curati da Piero Tosi (Sesto Fiorentino, 10 aprile 1927 – Roma, 10 agosto 2019) e il cast.
Per gli interpreti principali Visconti pensò a Marlon Brando e Ingrid Bergman. Il primo, come ricordò la D’Amico, venne escluso dalla Lux che non lo riteneva sufficientemente conosciuto in Italia. L’attrice, invece, rifiutò personalmente. I maligni diedero la colpa al marito Roberto Rossellini, più semplicemente pare che la Bergman non fosse interessata al soggetto. Il ruolo maschile venne così affidato a Farley Granger (San Jose, 1 luglio 1925 – New York, 27 marzo 2011) interprete di Rope (Nodo alla gola, 1948) e Strangers on a Train (L’altro uomo, 1951) diretto da Alfred Hitchcock, ma soprattutto popolarissimo tra le giovani americane. Il ruolo femminile, infine, venne scelto un po’ per caso. Grazie al caso. Cercando a Venezia i luoghi del film, nel giugno del 1953 Visconti si imbatté sul set di Mario Soldati che stava girando La mano dello straniero. La protagonista era Alida Valli. Il regista di Ossessione la ingaggiò senza dubbio alcuno. Per la donna Visconti era “l’uomo che non ho potuto amare”.
Nel cast anche Massimo Girotti, già protagonista di Ossessione, in un ruolo che rivendicò per se anche Walter Chiari; Heinz Moog (Francoforte sul Meno, 28 giugno 1908 – Vienna, 9 maggio 1989) attore tedesco che aveva anche recitato per Georg Wilhelm Pabst; Rina Morelli, pseudonimo di Elvira Morelli (Napoli, 6 dicembre 1908 – Roma, 17 luglio 1976) attrice di cinema e di teatro dove, insieme al marito Paolo Stoppa, era stata più volte diretta da Visconti; Marcella Mariani (Roma, 8 febbraio 1936 – Monte Terminillo, 13 febbraio 1955) Miss Italia nel 1953, attrice promettente che perse la vita in un incidente aereo l’anno seguente l’uscita del film.
Per Visconti la nuova pellicola, che intrecciava storia e melodramma, teatro e guerra, doveva intitolarsi come una delle battaglie combattute. Nacque Custoza. L’opera, la prima a colori del regista, vantava come sempre la splendida fotografia di G. R. Aldo, ma l’uomo, all’anagrafe Aldo Graziati, morì durante le riprese a seguito di un incidente automobilistico tra Padova e Venezia. Una grave perdita per Visconti, umana e professionale. Il ruolo di Direttore della fotografia venne così assunto da Robert Krasker (Perth, 21 agosto 1913 – Londra, 16 agosto 1981), Premio Oscar nel 1951 per The Third Man (Il terzo uomo) di Orson Welles, con Alida Valli. Per la musica il regista affiancò a Giuseppe Verdi, la settima sinfonia di Anton Bruckner diretta da Franco Ferrara, andando così ad ampliare ulteriormente la prospettiva storica e cultura dell’opera di Boito.
Come aiuto regista ancora una volta Rosi e Zeffirelli. Quest’ultimo raccontò che Visconti, assistendo nel 1952 ad un’edizione del “Trovatore” alla Scala, si trovò in prospettiva laterale ed esclamò: “Ecco. Ora so come deve essere il mio film!”. Sullo sfondo il melodramma, al centro il Risorgimento, a lato una società che ne fu semplice spettatrice.
La censura, mai tenera nei confronti di Visconti, non si fece attendere. Prima ancora di visionare il materiale impose il cambio di titolo. Custoza fu considerato disfattista, esplicito richiamo una battaglia vinta dagli austriaci, lesiva pertanto dell’onore delle forze armate. Il titolo venne cambiato in Senso.
Primavera 1866. Una rappresentazione del “Trovatore” a La Fenice di Venezia dà lo spunto per una manifestazione irredentista durante la quale il marchese patriota Ussoni (Massimo Girotti) sfida il tenente austriaco Franz Mahler (Farley Granger). Per salvare Ussoni sua cugina Livia Serpieri (Alida Valli), anche lei di sentimenti liberali, benché moglie del conte Serpieri (Heinz Moog) un fedele suddito imperiale, avvicina il tenente. Nonostante questo Ussoni viene esiliato, ma l’incontro è fatale: Livia si innamora di Mahler e ne diviene l’amante. Quando il militare la lascia, la donna incurante dello scandalo lo cerca per tutta Venezia. Spiata dal marito si reca ad un appuntamento segreto sperando di ritrovare l’amato, ma trova il cugino che le consegna i fondi per l’insurrezione. Allo scoppio della guerra i Serpieri si trasferiscono ad Aldeno. Una notte Livia viene raggiunta dall’amato Franz che, per sfuggire agli obblighi militare, le chiede dei fondi per corrompere un medico e farsi riformare. La donna, innamorata, gli consegna i soldi dei patrioti. Scoppia la battaglia di Custoza. Ussoni giunge al fronte, ma viene coinvolto nella ritirata. Livia, inconsapevole, teme una vittoria italiana che la separerebbe dall’amato. Confidando tutto alla sua governante Laura (Rina Morelli), lo raggiunge a Verona dopo un viaggio lungo e faticoso. Livia trova Franz in compagnia di una prostituta di nome Clara (Marcella Mariani) e viene respinta con sarcasmo e disprezzo. Per vendicardi, lo denuncia come disertore al Comando austriaco. Franz viene fucilato, di notte, nella città dove gli austriaci festeggiano la vittoria.
In Senso Visconti utilizzò la tormentata storia d’amore dei protagonisti, per riflettere sulla Storia e sulla crisi della società nobiliare che vi agisce a fianco, senza partecipare. Un ritratto impietoso di chi non seppe, Ussoni, o non volle, Livia e Franz, tenere il passo della Storia. Il Risorgimento quindi visto come “rivoluzione mancata” secondo la tesi di Gramsci, tesi che il regista sposava appieno. Elemento che fece di Senso un’opera unica rispetto ad altri film ambientati nella stessa epoca, ma attraversati solo da una retorica risorgimentale tutta incentrata sul patriottismo.
Anche per questo il film ebbe più di un problema con la censura. Dopo aver imposto il cambio di titolo, infatti, la Commissione di revisione cinematografica mutilò la pellicola. Vennero modificate le scene d’amore tra Livia e Franz. Nel testo che approvò la distribuzione ai maggiori di 16 anni si legge: “Rullo 4: Livia è ancora a letto, dopo consumato il convegno amoroso, Franz le sta vicino. La bacia sulla spalla. Livia si pettina con la spazzola i capelli, sempre stando a letto. (Eliminare tutta la scena). – Rullo 8: Nella villa di Livia ad Aldeno. Franz si è introdotto furtivamente nella villa. Bacio prolungato di Franz a Livia (ridurre la scena del bacio). – Rullo 8: Dopo la scena precedente, altro bacio prolungato di Franz a Livia, mentre stanno in piedi vicino al divano (ridurre la scena del bacio)”.
Ridotti i baci la censura si concentrò sulla parte “militare” di Senso. Vennero colpite sia le scene che mostravano il rifiuto dello Stato Maggiore italiano di fare entrare nella lotta i patrioti civili, “perché ne temeva gli impulsi democratici: scene che […] chiarivano il significato politico della vicenda e gli impliciti cenni al riassorbimento della lotta partigiana dopo la Resistenza” (Bencivenni), sia alcune scene della battaglia di Custoza.
Non solo. Anche il finale venne cambiato. Prima di essere distribuito nelle sale, infatti, Senso non si chiudeva con la fucilazione di Franz, ma con le immagini di un giovane soldato austriaco che con le lacrime agli occhi gridava “Viva l’Austria!”. Sequenza da considerarsi purtroppo perduta. Visconti fu così costretto a girare velocemente l’attuale finale, realizzato a Roma dal regista col direttore della fotografia Giuseppe Rotunno.
Un simile accanimento venne guidato da un giovane deputato democristiano. Faceva parte della corrente di destra della DC guidata da Mario Scelba e nel 1950 era balzato agli onori della cronaca per aver redarguito in un ristorante romano una donna colpevole di aver mostrato spalle e décolleté (per anni si scrisse di uno schiaffo). Con gli anni quel deputato fece “carriera” fino a diventare il nono Presidente della Repubblica Italiana. Il suo nome era Oscar Luigi Scalfaro.
Tornando al film nonostante i tagli imposti le autorità democristiane fecero di tutto per boicottare Senso al punto di fare pressione sulla giuria del Festival di Venezia per evitare ogni riconoscimento alle pellicola di Visconti.
Ma l’arte è più forte della censura e dei boicottaggi. Le scene di battaglia sono bellissime, volutamente prive di pathos e di primi piani, poiché ritraggono una guerra inutile, condotta da una classe egemone che Visconti giudicò per bocca di Franz: “Cos’è la guerra in definitiva se non un comodo metodo per obbligare gli uomini a pensare e ad agire nel modo più conveniente a chi li comanda?”.
Senso accese, inoltre, un inteso dibattito sulle pagine del periodico “Cinema Nuovo”. Da una parte le posizioni espresse dal critico Luigi Chiarini che, pur sottolineando l’altissimo livello dell’opera, sentenziò che la pellicola rappresentava “un’aperta contraddizione col Neorealismo”. Dall’altra l’opinione del collega Guido Aristarco secondo cui il cinema italiano stava passando dal Neorealismo, inteso come registrazione della realtà, al realismo inteso come interpretazione critica di essa. Nell’aprile del 1955 su “Cinema Nuovo” venne pubblicata anche la nota di un giovane cinefilo. In quella lettera alla redazione il giovane sottolineò di condividere l’anali gramsciana del Risorgimento come “rivoluzione mancata”, di vedere in Senso un “erede e innovatore del Neorealismo” nonché un “modello per una cultura svincolata dai vizi del provincialismo e del bozzettismo”. Quel giovane era Vittorio Taviani.
Senso inaugurò una nuova stagione artistica per Visconti. Dopo essere stato regista cinematografico e teatrale, divenne anche regista di opere liriche. Fin dalla fine degli anni Quaranta aveva ricevuto proposte in tal senso, ma motivi diversi, lo avevano costretto a rinunciare. L’atmosfera rievocata nel film e l’adesione a “L’Antiparnaso”, un’associazione per il rinnovamento del melodramma, lo spinsero al contrario ad allestire cinque spettacoli con la grande Maria Callas che, sebbene accolti con diffidenza da una parte della critica, entrarono nella leggenda: “La Vestale”, “La sonnambula”, “La traviata”, “Anna Bolena”, “Ifigenia in Tauride”. Opere che segnarono una svolta nella concezione stessa del melodramma. Parallelamente Visconti continuò anche un’intesa attività teatrale, da segnalare il successo internazionale ottenuto da “La locandiera” a Parigi.
Ma anche il cinema italiano aveva bisogno di un rinnovamento. Nella seconda metà degli anni Cinquanta la Settima arte nel nostro Paese stava attraversando un momento di profonda crisi, produttiva e artistica. Visconti volle rispondere con nuove proposte. Da un lato con una società di produzione capace di mettere sullo stesso piano produttore, regista, sceneggiatore, interpreti principali; dall’altra svincolandosi dagli ormai obsoleti schemi neorealisti. Il produttore Franco Cristaldi (Torino, 3 ottobre 1924 – Monaco, 1 luglio 1992), uno che non seguì mai le logiche di mercato, mise a disposizione la sua Cristaldi Film; Emilio Cecchi, papà di Suso, suggerì l’adattamento di un racconto di Fëdor Dostoevskij, “Belye Noči”, una storia tra realtà e sogno. Visconti e la sceneggiatrice trasferirono la vicenda da San Pietroburgo a Livorno, magnificamente ricostruita, nebbiosa e surreale, nel Teatro 5 di Cinecittà da Mario Chiari e Mario Garbuglia. Al resto pensò l’attore protagonista, Marcello Mastroianni. Nel cast anche Maria Schell, Jean Marais e Clara Calamai. Il 15 settembre del 1957 uscì Le notti bianche.
Una notte Mario (Marcello Mastroianni), un giovane impiegato che vaga per la città, allontana alcuni teppisti che stanno importunando la giovane Natalia (Maria Schell, che doppiò se stessa in italiano). L’uomo ottiene un appuntamento per la notte seguente, si illude di una facile conquista, ma la ragazza gli confida l’amore per un inquilino (Jean Marais) che abitava con lei e con sua nonna, e di come attenda in quelle notti che lui tenga fede, dopo un anno di assenza, alla promessa di ritornare. Natalia chiede chiede a Mario di consegnare a quell’uomo una lettera. Mario promette; ma poi deluso e irritato, getta il biglietto nel canale. Al mattino, cerca di dimenticare la ragazza; la sera, di evitarla. Ma, infine, si incontrano e vanno insieme a danzare. Tra i due si crea una maggiore intimità; ma, all’ora stabilita, Natalia corre al suo appuntamento. Stizzito, Mario fa per accompagnarsi con una prostituta (Clara Calamai) ed è coinvolto in una rissa di portuali. Rincontra poi la ragazze sola e le confessa di aver distrutto la lettera e di essere innamorato di lei. La donna sembra disposta a ricambiarlo, ma proprio allora appare l’inquilino. Natalia corre da lui. Mario, affranto ma privo di rancore, torna alla sua iniziale solitudine.
Costato quattrocento milioni di lire, Le notti bianche trasformò il significato del testo di Dostoevskij, dal dramma dell’amore sfortunato in quello dell’assurdità e dell’illusione dell’amore stesso. Dove la donna è sognatrice, l’uomo, un grandissimo Mastroianni in una delle sue più belle interpretazioni, è “un piccolo-borghese che cerca di evadere da una solitudine meschina attraverso la purezza del sentimento” (Volpi/Mereghetti).
Ma l’obiettivo dichiarato di Visconti era soprattutto un altro: “Ho realizzato Le notti bianche perché sono convinto della necessità di battere una strada ben diversa da quella che il cinema italiano sta oggi percorrendo. Mi è sembrato cioè che il Neorealismo italiano fosse diventato in questi ultimi tempi una formula trasformata in condanna. Con Le notti bianche ho voluto dimostrare che certi confini erano valicabili, senza per questo rinnegare niente […] Anche attraverso la scenografia ho voluto raggiungere non un’atmosfera di irrealtà, ma una realtà ricreata, mediata, rielaborata. Ho voluto, cioè, operare un netto distacco dalla realtà documentaria, precisa, proponendomi una decisa rottura con il carattere abituale del cinema italiano di oggi (“Cinema Nuovo” n. 114-115, settembre 1957)”.
Luchino Visconti, che aveva aperto la stagione del Neorealismo, si proponeva ora di chiuderla, spalancando le porte ad un nuovo cinema italiano.
LA TERZA PARTE USCIRÀ IL 27 DICEMBRE
redazionale
Bibliografia
“Luchino Visconti” di Alessandro Bencivenni – Castoro
“Jean Renoir” di Carlo Felice Venegoni – Castoro
“Francesco Maselli” di Stefania Parigi – Castoro
“Guida al film” a cura di Guido Aristarco – Frabbri Editori
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: Immagini tratte da: immagine in evidenza Screenshot dei film Ossessione e Senso; foto 1, 5, 6, 8, 9, 10, 38 Screenshot del film riportato in didascalia; foto 2, 4, 18, 21, 22, 23, 37 da it.wikipedia.com; foto 3, 30, 43, 45 da www.pinterest.it; foto 7 da gr.pinterest.com; foto 11, 12, 13, 14, 15, 16 Screenshot del film Ossessione; foto 17 da www.mausoleofosseardeatine.it; foto 19, 20 Screenshot del film Giorni di gloria; foto 24, 25, 26, 27, 28 Screenshot del film La terra trema; foto 29 Screenshot del film Appunti su un fatto di cronaca; foto 31, 32, 33, 34 Screenshot del film Bellissima; foto 35, 36 Screenshot del film Siamo donne; foto 39 da mubi.com; foto 40, 41, 42, 44 Screenshot del Senso; foto 46 Screenshot del film La fortuna di essere donna; foto 47, 48 Screenshot del film Le notti bianche.
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