L’Ottobre, i cent’anni tra utopia e potere

E’ possibile che Micromega dedichi il suo “Almanacco di Storia” a “Cent’anni dall’Ottobre, Cent’anni di eresie” ricercando nelle pieghe del dissenso che ha percorso, in varie forme, il secolo...

E’ possibile che Micromega dedichi il suo “Almanacco di Storia” a “Cent’anni dall’Ottobre, Cent’anni di eresie” ricercando nelle pieghe del dissenso che ha percorso, in varie forme, il secolo scorso rispetto al tronco principale del tentativo statuale di marxismo inverato rappresentato dalla Rivoluzione d’Ottobre e dai suoi successivi sviluppi statuali?

Pare proprio di sì: il numero è in edicola sfidando, forse, la valutazione dei comuni benpensanti di perder tempo nell’occuparsi di questioni ormai superate e sepolte.

Allora è il caso di ricercare oggi, nel centenario dell’Ottobre, di rivisitare storicamente (e sul piano della teoria politica) come hanno fatto gli autori impegnati in questo testo le correnti libertarie durante e dopo immediatamente quel rivolgimento storico, le cosiddette “eresie” consiliari che costituiscono l’esperienza di Gramsci come dirigente comunista nelle lotte operaie a Torino e che all’epoca dei bolscevichi apparivano perfettamente ortodosse, la Catalogna del POUM, le rivolte in Polonia e Ungheria durante l’indimenticabile ’56, l’influenza di “Socialisme ou barbarie” sul maggio francese, la Primavera di Praga e l’opposizione ai carri armati non limitata alle strade di quella città ma arrivata in Occidente come elemento di una vera e propria coscienza critica capace di scuotere lo stesso più grande partito comunista d’Occidente, con il grido di “Praga è sola” lanciato da Lucio Magri sulle colonne del “Manifesto” ancora rivista.

In questo numero di Micromega non si richiama soltanto il dissenso solo apparentemente polveroso (ma profetico) del congresso del 1903, tra Bruxelles e Londra, quando Rosa Luxemburg contestava Lenin sul tema fondamentale della natura del partito e il “centralismo democratico” non era considerato sinonimo di monolitismo.

Si presentano, in quelle pagine appena uscite adesso Novembre 2017, nuovi tentativi di realizzazione dell’utopia più grande che ha scosso la storia: si parla di Portogallo e di Bolivia, per esempio, in termini di attualità.

Con questa operazione Micromega, nel suo piccolo di una rivista cultura, rilancia così un tema enorme: quello del passaggio dall’utopia al potere nell’unica forma fin qui conosciuta nel moderno (e in Occidente) dell’inveramento statuale.
Perché il tema è ancora questo, dopo il fallimento di tutte le ipotesi formulate nel dopo caduta dell’Impero.

E’ fallita l’ipotesi della sovranazionalità europea basata sull’allargamento pacifico del mercato, sono in crisi evidenti i due poli sui quali si pensava di fondare la governabilità, quello socialdemocratico in via di estinzione, quello liberale che sta evolvendosi in una sorta di nemesi dell’autoritarismo. Addirittura si sta regredendo dallo stesso sistema westfaliano, quello degli “Stati – Nazione”, laddove la cessione di sovranità tanto auspicata non si verifica più verso “l’alto” della dimensione sovranazionale, ma verso il basso del regionalismo e delle “piccole patrie”.

Questo avviene mentre salgono di nuovo alla ribalta moderni “Salvatori della patria” e la gestione del potere attraverso la “democrazia del pubblico” sembra proprio assomigliare a quella del “Capo che parla alle masse” teorizzata da Le Bon.

Un arretramento storico che stride con le prospettive dell’innovazione tecnologica e della velocità della globalizzazione.

La sola possibilità allora per non cedere è quella di rilanciare l’idea dell’utopia.

Un’idea che passa necessariamente attraverso il recupero di un senso della storia e la ricostruzione di un pensiero politico rivolto verso un’ipotesi di futuro da progettare nell’ascesa di principi – guida capaci di accompagnare il cammino dell’umanità nel senso rivoluzionario della fuoriuscita dallo sfruttamento e nella visione dell’uguaglianza.

Una missione impossibile? Forse, ma l’utopia rimane il solo orizzonte possibile per non ridurci a spettatori delle nostre vite.

Attraversiamo una fase nella quale paiono prevalere tecnologia ed economia legate assieme esclusivamente dalla ricerca di scopi pratico – utilitaristici.

Il potere è così esercitato da élite capaci soltanto di misurarsi con il presente e di utilizzare la capacità dell’apparire attraverso i mezzi della comunicazione entrati ormai a far parte della struttura stessa della produzione economica e, di conseguenza, sociale.

Tutto ciò si brucia e si consuma nell’attimo in cui si realizza e si acquisisce, allontanando il pensiero dalla possibilità di svilupparsi almeno oltre l’ombra del suo stesso presentarsi.

E’ l’abbandono del divenire e non si presentano elementi di riflessione adeguati attorno ai grandi fenomeni della cosiddetta modernità: intrecciati all’eterna logica dello sfruttamento si situano le grandi migrazioni di massa, la distruzione dell’ambiente naturale, il modificarsi nelle relazioni di genere, la difformità – sul piano planetario – del presentarsi della questione demografica.

Emerge un relativismo di tipo nuovo che non soltanto si oppone al trascendente, ma riduce tutti gli atti umani al contingente dell’oggi celebrando l’esercizio della sopraffazione da parte di gruppi ristretti che esercitano semplicemente un dominio sugli altri incontrollato nel tempo e nello spazio.

Il richiamo a una nuova schiavitù.

Non si tratta però, per contrastare questo stato di cose, di ricorrere a prospettive di carattere metafisico, ma di recuperare il concreto del confronto con le contraddizioni reali che agiscono e pesano sulla condizione umana.

Un senso della storia, nell’insieme delle complessità che ne accompagnano il cammino cercando di indicare il male profondo che ne pervade lo sviluppo.

Un male profondo, un’ingiustizia dolorosa e permanente, che non può essere evocato soltanto per esorcizzarlo attraverso l’indicazione di un “bene” ipotetico e unilaterale, di parte, nell’apparente impossibilità di una moderna teodicea e di una nuova “filosofia della Liberazione”.

Il XXI secolo rispetto al XX pare aver abbandonato la lezione riguardante la necessità di indicare un futuro diverso a quello costruito sull’identità del male che ci attraversa: il male della diseguaglianza, il male dell’abbandono dell’idea della storia come percorso del riscatto sociale.

E’ sicuro che il cammino della storia non può evitare di segnare contraddizioni, rivolgimenti, arresti: un fiume che reca con sé detriti che ne deviano il corso.

E’ tragicamente sbagliato nel tentare di analizzare il presente dimenticarsi di ricordare le tracce del passato.

Eppure è a quel fiume che dobbiamo affidarci: lo sbocco non sarà mai quello di un mare tranquillamente disteso nella serenità dell’oblio.

Sempre ci sarà la fatica della rincorsa e della ricerca: quella della visione di un’utopia da ricercare, di una “Città del Sole” da ritrovare nel nostro immaginario collettivo.

E’ questo che ci manca, oggi, nella tragedia del divenire quotidiano.

Le colossali disparità che ci attorniano, la guerra intesa quale eterno fattore dell’arretramento storico, le ingiustizie che feriscono la nostra fragile coscienza debbono farci riflettere. Si tratta di notare con grande crudezza la scoperta di una ferita ancora eternamente aperta.

Forse la volontà può nascere e/o ri-nascere dalla lettura di una realtà che induca a un realistico pessimismo tale al punto da farci recuperare la necessità e l’urgenza di una “costruzione utopica”.

FRANCO ASTENGO

foto tratta da Wikimedia Commons

categorie
Comunismo e comunisti

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