“Lotta continua” nel 1975, dopo il suo primo congresso nazionale, stampò, tra le altre “tesi”, queste relative alla interpretazione del concetto di Stato e alla sua declinazione sociale. Ve le proponiamo come lettura interessante per comprendere un punto di vista che ha la sua validità anche oggi.
La concezione revisionista dello Stato
Lo stato è il prodotto della divisione della società in classi e lo strumento per mantenere il dominio di una classe sulle altre.
Nel corso dello sviluppo capitalistico lo stato borghese ha progressivamente ampliato le proprie basi ed esteso l’area del proprio intervento: con la costruzione di un apparato di consenso, attraverso l’avvento della democrazia parlamentare prima, e l’istituzionalizzazione del potere sindacale poi; con il passaggio da un modello di stato liberale e liberoscambista (che non è mai esistito, allo stato «puro») a forme sempre più estese di capitalismo di stato: il protezionismo, il controllo centrale della moneta e del credito, il sostegno della domanda, la regolamentazione della dinamica salariale, fino alle più moderne forme di sostegno della ricerca, degli investimenti e della produzione.
Fin dalle sue prime manifestazioni, il revisionismo si è presentato come tendenza a privilegiare queste forme della attività dello stato, facendo passare in secondo piano, o addirittura cancellando, quello che invece ne è l’aspetto essenziale e ineliminabile, cioè la coercizione e il potere delle armi. Nasce così la teoria della «neutralità» dello stato; essa presenta lo stato non come strumento del dominio di una classe sulle altre, ma come terreno neutro di scontro tra le classi, dalla cui conquista dipende, in ultima analisi, la questione del potere. Nella sua primitiva formulazione il revisionismo tende a vedere nei meccanismi della democrazia borghese lo strumento di questa conquista, attraverso il conseguimento della maggioranza parlamentare. Mano a mano che la macchina dello stato si fa più complessa e che la democrazia parlamentare tende a divenirne un aspetto marginale, il revisionismo tende a trasferire nella sfera delle funzioni economiche dello stato il terreno principale di questo confronto: una teoria che in Italia, nelle sue varie formulazioni, dal «piano del lavoro» al « nuovo modello di sviluppo», è riconducibile ad un unico schema: quello togliattiano delle «riforme di struttura».
La rottura della macchina dello Stato
Ma, regolarmente, la storia della lotta di classe si incarica di ricordare che la natura ultima dello stato è quella di un apparato repressivo armato al servizio del dominio borghese e che l’ampliamento delle funzioni, dell’area di intervento e della stessa base di consenso dello stato borghese non comporta l’eliminazione, o anche solo la modificazione, della sua natura originaria, ma anzi ne esalta il carattere repressivo: così, le funzioni economiche dello stato sono cresciute soprattutto intorno a una corsa senza precedenti agli armamenti: l’ampliamento della sua «base di consenso» ha significato una articolazione e uno sviluppo sempre più capillare degli strumenti di manipolazione, controllo poliziesco, spionaggio; il suo intervento nel campo assistenziale e dei servizi sociali ha comportato un ampliamento senza pari del suo potere di corruzione; e, infine, allo sviluppo delle sue funzioni imprenditoriali corrisponde il trasferimento della concorrenza capitalistica, dal terreno del mercato a quello della lottizzazione del potere, che ha visto uno sviluppo senza precedenti dello spionaggio e del ricatto come strumenti di lotta politica; lo scandalo del Watergate negli USA ha un valore esemplare nel definire le caratteristiche fondamentali del «nuovo modello di stato capitalistico» che domina la nostra epoca.
La natura ultima dello stato borghese è quella di essere un apparato di repressione; lo sviluppo del capitalismo e le trasformazioni che esso induce nello stato borghese comportano un potenziamento e non una riduzione degli strumenti di questa repressione; il passaggio del potere dalla borghesia al proletariato non può avvenire pacificamente e gradualmente attraverso la «conquista dello stato» ma può realizzarsi solo attraverso una rottura violenta che spezzi la macchina dello stato.
Attuale è la lezione che Marx traeva dalla Comune, arricchendo l’impostazione stessa del «Manifesto del Partito Comunista», e Lenin dalla rivoluzione del febbraio 17 in Russia, secondo cui «dopo ogni rivoluzione, che segna un passo in avanti nella lotta di classe, risulta in maniera sempre più evidente il carattere puramente repressivo del potere dello stato» (Marx); secondo cui, quindi, la dittatura della borghesia va rovesciata, spezzandone lo strumento principale, lo stato borghese, e instaurando «l’organizzazione del proletariato come classe dominante». La dittatura del proletariato è momento necessario, segna un passaggio determinante «dallo Stato come forza particolare, destinata a reprimere una classe determinata, alla repressione degli oppressori ad opera della forza generale della maggioranza del popolo» (Lenin); d’altro canto, essa è momento transitorio, rivolto a creare le condizioni del superamento stesso dello stato, come strumento in ogni caso di repressione. Per questo, la rottura rappresentata dalla dittatura del proletariato non riguarda solo la classe che detiene il potere, non è cioè un «cambio della guardia» entro uno strumento di dominio che rimane identico, ma riguarda la forma stessa di questo dominio.
La sostituzione dell’esercito col popolo in armi, l’abolizione del privilegio dei funzionari (il cui stipendio dev’essere pari al salario operaio), la loro eleggibilità e revocabilità assoluta, in un processo che pone le basi dell’abolizione della burocrazia come funzione speciale di una determinata categoria di persone, e quindi pone le basi dell’esercizio totale e quotidiano del potere da parte delle masse: queste sono le indicazioni embrionali di Lenin, volte a ribadire l’impossibilità che l’«espropriazione degli espropriatori» avvenga attraverso la vecchia macchina dello stato, od una sua graduale modifica. In modo diverso, l’esperienza cilena e — più ancora — quella portoghese ci mostrano come un mutamento radicale di regime possa essere un potente fattore di accelerazione della lotta di classe, ma anche di disarticolazione dell’apparato statale; mostrano infine come la possibilità che questa disarticolazione cresca all’interno delle forze armate — organo decisivo della dittatura di classe borghese sia un elemento strategicamente fondamentale.
Lo Stato italiano: la continuità con il fascismo
Quali sono le caratteristiche dello stato italiano?
Innanzitutto il suo rapporto di continuità con lo stato fascista. La guerra di resistenza e la liberazione non hanno spezzato il precedente apparato statale, fascista, così come l’avvento del fascismo non aveva spezzato, ma, anzi, si era sviluppato, sul tronco del precedente apparato dello stato liberale.
I guasti dell’apparato statale fascista prodotti dalla sconfitta militare e quelli provocati dalla guerra di liberazione furono rapidamente colmati dagli «alleati», cioè dall’imperialismo anglo-americano. L’epurazione dei corpi dello stato dagli individui e dalle forze del passato regime non sfiorò che la superficie di essi e solo per breve tempo, per rovesciarsi ben presto nel suo contrario, cioè nell’epurazione sistematica e programmata di tutti gli elementi portati al suo interno dalla vittoria delle forze popolari, oppure nel loro isolamento dalle masse, equivalente di fatto a una cooptazione nel regime.
La dipendenza dagli USA
In secondo luogo la stretta dipendenza dall’imperialismo USA. La restaurazione dello stato italiano avviene nel clima della guerra fredda all’interno della quale l’Italia rappresenta una duplice frontiera: perché è uno dei paesi confinanti con il blocco sovietico nella parte più «delicata» dello scacchiere europeo; e perché è il paese capitalistico dove la lotta operaia, la lotta antimperialisti e la lotta armata sono più forti e sono egemonizzate dal PCI, che è il più forte partito comunista dell’occidente, con legami ancora strettissimi con l’URSS.
La vita politica della repubblica è fin dall’inizio dominata dall’esigenza dell’imperialismo USA di farne un baluardo anticomunista, ed a questa esigenza si uniformano ben presto non solo le forze politiche di governo, e i corpi dello stato, ma anche lo stesso sviluppo dell’apparato economico produttivo. Si forma così un inscindibile intreccio, che non verrà spezzato né allentato nemmeno nella fase della distensione, e che è il pilastro maggiore su cui da sempre si reggono le fortune della Democrazia Cristiana.
Il regime democristiano
In terzo luogo la forma specifica che ha assunto il nuovo regime statale, in una identificazione sempre più stretta con la Democrazia Cristiana.
La Democrazia Cristiana governa l’Italia da 30 anni ininterrottamente, caso pressoché unico in un paese capitalistico a democrazia parlamentare. Le basi iniziali del suo potere sono costituite dalla continuità con lo
stato fascista: la DC infatti era l’unica forza in possesso dei quadri capaci di turarne le falle; dall’appoggio del Vaticano e dell’apparato ecclesiastico; dall’appoggio incondizionato della grande industria e dell’imperialismo USA; dal controllo politico ed elettorale di ampie masse cattoliche soprattutto contadine, grazie anche all’apparato economico rurale ereditato dal fascismo.
A partire da questa base la Democrazia Cristiana ha realizzato, in brevissimo tempo, la conquista e il potenziamento dei principali corpi dello stato (Forze Armate, polizia, pubblica amministrazione, magistratura) e dei principali gangli della società civile, e cioè: il sistema creditizio, cioè le banche, che in Italia, data la assoluta prevalenza delle piccole unità produttive incapaci di autofinanziamento, permette un controllo pressoché totale di tutto il tessuto economico dell’industria, del commercio e dell’agricoltura; l’industria pubblica, che già sotto il fascismo era in Italia una delle più estese del mondo capitalistico, e che sotto il regime democristiano ha attraversato una ulteriore eccezionale fase di espansione; i canali della spesa pubblica, centrale e locale, che, tra l’impulso dato ai lavori pubblici e la ordinaria amministrazione degli enti di stato e del parastato ha costituito la principale e dinamica fonte di sviluppo per l’occupazione, permettendo alla DC di accaparrarsi il monopolio delle assunzioni e di promuovere una eccezionale dilatazione del «ceto medio» impiegatizio sotto il suo diretto controllo; tutti i principali « servizi sociali », dagli ospedali all’edilizia popolare, alla previdenza sociale, trasformandoli anch’essi in fonti di potere, di occupazione e di corruzione direttamente gestite dal partito; le associazioni professionali, le corporazioni e i sindacati corporativi del pubblico impiego, base principale del reclutamento del proprio personale politico le prime, punto di appoggio per la costruzione del sindacalismo bianco dopo la scissione i secondi; la scuola, in tutti i suoi gradi, da quella materna all’università, con un monopolio quasi esclusivo della prima, senza contare l’estensione degli istituti clericali sovvenzionati dallo stato a tutti i livelli; infine, gli strumenti dell’informazione di massa, dal cinema, alla RAI-TV, all’editoria fino alla stampa. quotidiana.
La DC è sempre stata un partito interclassista e dalla salvaguardia di questo carattere ha tratto la sua forza. Ma dal controllo iniziale di vaste masse contadine e cattoliche le basi dell’interclassismo democristiano si sono progressivamente trasferite al suo apparato di corruzione.
La progressiva identificazione della DC con lo stato, del suo personale politico con il personale dello stato e la estensione del suo potere ben al di là di esso, rappresentano le fondamenta del regime che ha governato l’Italia nel dopoguerra. Questo fatto da un lato ha concentrato nella DC la rappresentanza quasi esclusiva degli interessi capitalistici e borghesi; ma dall’altro ha creato le condizioni perché le divisioni e le contraddizioni che la crisi e la lotta di classe producono nel fronte borghese si riflettano in modo diretto, senza mediazioni e senza possibilità di ricambio, sulla Democrazia Cristiana.
Se da un lato è cresciuta la crisi e la disaggregazione di quel blocco sociale su cui la DC aveva fondato il proprio consenso, d’altro lato si è accelerato un processo di instabilità istituzionale: entrambi questi elementi sono aggravati in maniera decisiva dalla capacità cosciente dell’offensiva operaia di esprimersi e di sviluppare la propria egemonia in tutti i campi.
Sta qui la ragione ultima della crisi democristiana, che ha ormai assunto un andamento irreversibile; ma sta qui anche la ragione per cui la crisi della DC è destinata a trascinare con sé anche la crisi dello stato.
Il capitalismo di Stato
In quarto luogo, quella che abbiamo visto essere uno degli strumenti maggiori di sviluppo del potere democristiano: l’eccezionale estensione, in Italia, del capitalismo di stato, nel suo triplice aspetto di capitale finanziario, di impresa pubblica, di spesa pubblica: in particolare quest’ultima ha da tempo superato la funzione, che fu propria di tutta una fase dello sviluppo capitalistico cominciato negli anni 30, di semplice sostegno della domanda per garantire gli sbocchi alla produzione. L’Italia, seppure in forme «arretrate» e tecnologicamente meno sofisticate, è uno dei paesi capitalistici dove lo stato interviene in misura maggiore per sostenere e regolamentare gli investimenti, la produzione e lo stesso profitto, il quale assume sempre più l’aspetto di una quota-parte del bilancio complessivo statale, invece che quello di un reddito conquistato sul mercato. Questo fa sì che il rapporto tra governo e controllo dell’economia sia eccezionalmente stretto, senza paragone con gli altri paesi capitalistici.
Per questo in Italia il problema del governo coinvolge una quota di potere decisamente superiore che nel resto dell’occidente capitalistico sviluppato. Se ciò ha finora contribuito a rendere impossibile un ricambio di governo, questo stesso fatto fa sì che, ove un ricambio si rendesse necessario, per l’approfondimento della crisi democristiana, esso sarebbe assai critico per le sorti del potere borghese e ben difficilmente potrebbe rappresentare un fattore di stabilizzazione.
L’apparato repressivo
In quinto luogo l’eccezionale estensione che ha in Italia l’apparato militare e repressivo dello stato. Alle tre armi delle Forze Armate (esercito, marina, aviazione) si aggiungono tre corpi di polizia ufficiali (carabinieri, polizia e guardia di finanza) e tre corpi militarizzati, con funzioni analoghe (guardie forestali, guardie carcerarie, capitaneria di porto). I servizi segreti sono almeno sette, per non parlare di quelli che sono talmente segreti che nemmeno si conoscono, anche perché, come molti altri corpi di polizia, stanno a metà tra il pubblico e il privato. L’elefantiasi dell’apparato militare italiano si spiega soprattutto con il suo ruolo nella repressione interna, rispetto alla quale è perfettamente attrezzato ed «efficiente».
Le forme istituzionali
Infine lo stato italiano ha una forma costituzionale, rispetto alle altre forme di democrazia borghese esistenti, estremamente più esposta alla instabilità politica. Certamente la crescente instabilità politica italiana affonda le sue radici nei processi sociali e nella lotta di classe, e non potrebbe venir superata in nessun modo attraverso un’opera di «ingegneria istituzionale». Ma non è un caso che tutti i progetti reazionari gestiti dalla DC abbiano messo al centro del loro programma una modificazione della costituzione, dei meccanismi istituzionali e soprattutto della legge elettorale: basta ricordare il filo nero che collega la legge truffa alle speranze riposte nel ruolo del presidente della repubblica, fino alle più recenti proposte di regolamentazione del diritto di sciopero e di riforma istituzionale avanzate da Piccoli e Fanfani.
Gli stessi margini di indipendenza della magistratura hanno favorito lo scatenamento al suo interno di importanti contraddizioni, di fronte allo sviluppo impetuoso della lotta di classe. Se questo ha significato rendere la magistratura dei gradi più bassi un terreno infido per il potere, su cui si può e si deve esercitare la egemonia operaia, si è accelerata al tempo stesso la fascistizzazione dei supremi vertici, che si esprime nella repressione sistematica di ogni dissenso all’interno dell’istituzione, per tentare di sconfiggere le spinte centrifughe, e nella preparazione di riforme apertamente autoritarie, eversive degli attuali equilibri istituzionali.
LOTTA CONTINUA
Materiale per la formazione politica / 3
1975