Il libro con le sue memorie di giurista non lo abbiamo fatto più, ma il titolo l’avevamo scelto: «Io dissento». Lo stesso di un curioso volume illustrato, uscito negli Stati uniti, che racconta la vita di Ruth Bader Ginsburg, la coraggiosa giudice della corte suprema Usa con la quale aveva più di un tratto in comune. Lorenza Carlassare però non aveva trovato un presidente della Repubblica disposto a nominarla giudice della Corte costituzionale. Cosa di cui si dispiaceva il giusto, considerandolo il riconoscimento della sua totale indipendenza: «Sono rimasta libera».
Alla libertà non ha mai rinunciato, anche quando le sue scelte spiazzavano la comunità di costituzionalisti della quale è stata per decenni un punto di riferimento. Ricordiamo un episodio per esserne stati testimoni. Una sera del giugno 2013 ricevette nella casa di Roma una telefonata di Franceschini che le chiedeva di far parte della commissione di saggi incaricati di studiare proposte di riforma.
Il presidente del Consiglio era Enrico Letta, il ministro delle riforme Quagliariello, la maggioranza già quella larghissima centrodestra-centro-Pd. Eravamo certi che avrebbe rifiutato, invece accettò. «Da anni dico che limitate modifiche alla Costituzione sono necessarie e utili – ci spiegò – adesso mi si offre una possibilità di far pesare le mie opinioni. Dire di no non è sempre la scelta più nobile».
Andò a finire che si dimise dalla commissione dopo un mese, appena il parlamento – gli interessi di Berlusconi pesavano ancora molto – gliene offrì la scusa. Anche quella volta aveva dimostrato quanto fosse ridicola l’accusa di conservatorismo che ciclicamente pioveva su di lei e sui costituzionalisti che difendono la Carta.
Spiazzante fu anche la sua scelta di dire di sì, pur tra molti dubbi, al taglio dei parlamentari nel referendum di due anni fa. A convincerla il fatto che quella riforma avrebbe reso inevitabile una nuova legge elettorale. Speranza, abbiamo visto, vana. Eppure ulteriore testimonianza di come Carlassare non abbia mai perso di vista il problema della rappresentanza.
Citava Vezio Crisafulli – che considerava «la figura dominante nella mia vita di studiosa» senza dimenticare Carlo Esposito e Livio Paladin – per il quale «lo Stato può dirsi veramente rappresentativo in quanto esso sia organizzato in modo da dar vita ad un collegamento stabile ed efficiente tra lo Stato medesimo e la collettività popolare». La necessità di cambiare le leggi elettorali che da trent’anni sacrificano la rappresentatività a una presunta governabilità era per Carlassare un urgente obbligo costituzionale.
A chi meccanicamente invocava «stabilità» rispondeva, sempre lontana dai conformismi e attenta alla sostanza dei problemi, che «nessuna stabilità sarà mai possibile fino a quando le fratture sociali resteranno così profonde. È un bene: non si possono ingessare le fratture prima di ricomporle. Le ingiustizie così acute della nostra società sono crepe sulle quali nessun governo per quanto numericamente forte deve sentirsi stabile».
La mancata rappresentanza parlamentare degli interessi delle minoranze non era questione formale. Carlassare citava episodi per i quali era arrabbiatissima. Quando vide Mario Monti andare a fare visita a Marchionne nel momento in cui l’amministratore della Fca stava facendo terra bruciata attorno al sindacato conflittuale, la Fiom, protestò: «Nessuno in parlamento che si sia alzato per criticarlo. Chiaro, per colpa della legge maggioritaria non c’è un solo rappresentante della sinistra schierato in difesa dei lavoratori».
Più che l’essere stata la prima donna titolare di cattedra di diritto costituzionale (nel 1978) le interessava ricordare che era rimasta troppo a lungo la sola. Ha insegnato per brevi periodi a Messina e Verona, poi a lungo a Ferrara e a Padova.
Le piaceva ritornare con la memoria soprattutto al periodo di Scienze politiche a Padova, anni Settanta, ai seminari nei quali cadeva il muro tra docente e studenti. Ma è stato agli ex allievi di Ferrara che ha consegnato, quasi quindici anni fa una specie di testamento. Bellissimo: «Io, in fondo, detesto il potere. Amo istintivamente lo stato di diritto e il costituzionalismo perché se è vero che il potere è necessario è comunque importante ostacolarlo e limitarlo».
Lorenza Carlassare nella vita ha sofferto, è stata vedova due volte, ma è rimasta una donna allegra e straordinariamente simpatica. La sera in cui aspettavamo il risultato del referendum contro la riforma Renzi, 2016, avevamo un appuntamento telefonico. Quando arrivò la certezza della vittoria del No la cercai senza riuscire all’inizio a trovarla. Ebbi paura che fosse troppo tardi, Lorenza aveva allora 85 anni. Ma poi richiamò. Era in casa di amici a festeggiare.
ANDREA FABOZZI
foto: screenshot da Patria Indipendente