Più che il referendum potrebbero certamente le elezioni regionali essere il piede di porco con cui spalancare la porta delle elezioni politiche nella prossima primavera. Sembrano tempi molto lunghi, soprattutto se si fa riferimento ai tanti accadimenti che concernono il Covid-19 ed alle implicazioni che determina nello svolgimento quotidiano tanto della vita sociale quanto di quella più strettamente politica; invece i tempi sono apparentemente lontani ma relativamente lunghi.
Le destre puntano a rovesciare gli equilibri di governo mettendo sottosopra Toscana, Marche e Puglia. Troppo ampio il distacco tra De Luca e Caldoro; improbabile la vittoria della coalizione giallo-rosa in Liguria. Le regioni che possono cambiare la geopolitica italiana, alla fine, sono tre ma i colpi di scena possono essere molti di più. Potrebbe accadere che Sansa vinca contro Toti, che le Marche si salvino dall’avanza sovranista e che la Puglia resista, mentre la Toscana no. In quel caso la botta per il PD e per Zingaretti sarebbe enorme comunque, visto che la Liguria non sarebbe assegnata ad un presidente di regione democratico ma di area pentastellata.
Ma il colpo di frusta peggiore sarebbe la vittoria in una singola regione, escluse Liguria e Campania: prendendo la Toscana come ultimo bastione del pallido rimasuglio di centrosinistra, rappresentato dal PD e dai suoi alleati, e come punto di riferimento per calcolare una eventuale crisi di governo, è evidente che per una condizione del tutto geografica sarebbe impattante la sconfitta che la unisse alle Marche. Il fronte sovranista e di destra creerebbe una sorta di linea gotica nel centro Italia, partendo alla conquista del Sud.
Se invece la caduta della Toscana si legasse a quella della Puglia, sempre veleggiando sul mare agitato delle ipotesi, allora si aprirebbe probabilmente con più vigore e una marcia più sostenuta la direzione meridionale dello sfondamento leghista nel Mezzogiorno.
In questo marasma di maggioritario non c’è posto per le alternative serie di sinistra: lo sforzo enorme di tante compagne e tanti compagni nel proporre una terza via alla contrapposizione tra differenti dinamiche liberiste declinate ora in politiche apertamente nazionaliste, razziste e xenofobe e ora in politiche ipocritamente solidali sul piano civile e spietate su quello economico-sociale, può e deve puntare almeno alla rappresentanza nei rispettivi consigli regionali.
L’incertezza che il governo vive in merito al risultato che uscirà dalle urne è gravata dalla possibilità che la controriforma sul taglio del Parlamento possa determinare un quadro di instabilità generale qualora prevalesse proprio la posizione sostenuta dall’esecutivo.
Un paradosso nemmeno poi tanto tale, visto che la logica maggioritaria prevede una governabilità facilitata dallo stravolgimento dei dati reali sui rapporti di forza tra i vari partiti e potrebbe favorire proprio le destre in prossimo futuro, in un Parlamento depotenziato, ridotto di un terzo, disomogeneo in quanto a rappresentanza territoriale e coesione nazionale delle problematiche generali del Paese.
Costruire alleanze mediante il dialogo parlamentare è certamente più impegnativo dell’affidarsi ai sortilegi dei premi di maggioranza dati a chi ottiene più voti rispetto ad altri e, in virtù di ciò, penalizza proprio le forze che sono la garanzia della stabilità democratica del Parlamento, cioè le minoranze. Ormai da troppi decenni la politica italiana è avviluppata in questo perverso groviglio che esalta l’abbandono delle ideologie nel nome dell’utilità fintamente pragmatica di un voto che deve ostacolare piuttosto che promuovere.
Il risultato è la disarticolazione politica di blocchi tanto sociali quanti antisociali che si riflettono nel Paese e che trovano così una corresponsione davvero pratica, davvero che necessiti di un rapporto stretto tra cittadino-elettore e cittadino-deputato o senatore.
Ma sarebbe una falsa speranza quella di circoscrivere all’ambito solamente statale e nazionale la problematica della presunzione maggioritaria nella politica italiana: essa riguarda qualunque ambito istituzionale e qualunque territorio. Per questo le elezioni regionali non sono da meno nel privilegiare la disillusione positiva, quella che ti costringe ad abbandonare il campo per cui hai sempre giocato (e votato) e passare all’altra squadra con la (falsa) speranza che la dinamica centrale dell’alternanza sia migliore di quella dell’alternativa.
In nome di questi principi bislacchi e disordinati, la democrazia è stata sottratta al suo sostanziale compito di garanzia delle tutele pubbliche, di difesa dei bisogni collettivi e ha finito con l’interpretare la parte meramente formale dell’osservatrice su amministrazioni sempre più dominate dalla logica del privato in ogni settore gestionale delle istituzioni.
Il governo dovrebbe temere sé stesso se avesse davvero a cuore l’interesse pubblico, visto che sta facendo di tutto per razionalizzare e normalizzare un disincanto per la qualità del voto che scade nella semplicistica percezione della quantità come perno su cui incastonare ogni asse portante della nostra vita. Ciò che è maggiore prevale per diritti su ciò che è minore mantenendo la stessa quantità di doveri che aveva in precedenza.
La vera riforma istituzionale, che avrebbe impedito questo ipnotismo da pendolo dell’alternanza, avrebbe dovuto essere portata avanti ristabilendo le regole fondamentali per la vera rappresentanza popolare in seno al Parlamento e alle assemblee legislative regionali: una legge elettorale puramente proporzionale sarebbe stata sconvolgente tanto per l’ormai sedimentato costrutto dell’impalcatura maggioritaria quanto per l’abitudinarietà dei cittadini alla sottrazione di sempre maggiori spazi decisionali che li riguarderebbero direttamente.
La crisi di un variegato mondo del progressismo, che non si può più definire solamente di sinistra (tanto meno comunista), avrebbe conosciuto un ridimensionamento, impedendo così alle destre di spopolare nelle praterie di una demagogia di così bassa lega da essere persino indegna della Lega delle origini.
Ed oggi, chi non si riconosce né nei blocchi, che si compongono e si ricompongono a seconda dei sommovimenti economico-sociali globali e continentali, è costretto a scegliere tra il voto vero, quello che unisce coscienza, idee e progetto condivisi, stigmatizzato come voto inutile e il voto falso, di cui non si sente coscienza, di cui si condividono molto poco le idee e i progetti, ma che – in una società capovolta – diviene il “voto utile“.
Esistono molte forme di dittatura e anche questa lo è. Pur incorniciata per bene nella traballante democrazia che formalmente fa la sua figura e che praticamente è ridotta allo spettro di sé stessa.
MARCO SFERINI
2 settembre 2020