Sottotraccia, nel cenno di crisi di governo o, per lo meno, di preannunciato stallo istituzionale in piena crisi pandemica, può esservi nelle ipotesi fatte da Matteo Renzi anche – ma sarebbe meglio dire soprattutto – quella di un nuovo esecutivo guidato magari da Mario Draghi, ridimensionando il ruolo dei pentastellati e introducendo nella nuova maggioranza pezzi di Forza Italia e di un vario centro sparpagliato tra Gruppo Misto e altre sigle sempre più inconoscibili dalla stragrande maggioranza degli italiani.
Che si tratti di fantapolitica o di mercato della politica, ebbene lo scopriremo solo sopravvivendo al Covid-19 e alle consuete malattie che possono affliggere (siete liberi di fare i dovuti scaramantici scongiuri, di formulare qualunque pensiero magico vi possa consolare).
Ma chi ha ascoltato ieri il discorso del leader di Italia Viva, sa che ogni parola è stata centellinata e dosata per mandare i messaggi che sono oggi ribaditi da Maria Elena Boschi su “La Stampa“: la salute politica di Conte importa fino ad un certo punto; poi si farcisce la proposizione con una bella dose di retorica che più o meno recita così: «Mi importa di più la salute delle persone, dei cittadini, nel rispetto di quelli che sono morti e di chi passerà il Natale da solo».
Renzi e Boschi giurano e stragiurano che non si tratta di voglia di rimpasto, di posti, di poltrone, anzi: sono pronti a lasciare libere quelle che attualmente occupano in seno al governo e nei sottosegretariati. Più limpida trasparenza di così tanto nelle intenzioni quanto nella crudissima realtà dei fatti, non si può!
Il dibattito parlamentare sull’approvazione della riforma del MES, una volta che si era capito che la tenuta della maggioranza era in qualche modo garantita da deputati e senatori in missione, da assenze calcolate e da pochi dissidenti garantiti per mostrare che una coscienza critica, tutto sommato, in Parlamento esiste ancora, si è trasformato in un dibattito ante litteram sulla stabilità prossima futura dell’esecutivo in merito al Recovery Fund.
L’impressione sempre più convincente è che le classi dirigenti del Paese stiano premendo, attraverso Forza Italia da un lato e Italia Viva dall’altro, nei rispettivi schieramenti, per creare un governo di unità nazionale che non necessariamente veda il coinvolgimento di tutte le forze politiche presenti in Parlamento e, forse, nemmeno di tutte quelle che attualmente sono nella maggioranza del Conte 2.
Non lo fanno per spirito di dedizione alle necessità della nazione, al bene comune, agli interessi collettivi: lo fanno perché vogliono che la gestione dell’ingentissima somma di capitali che sta per arrivare nel nostro Paese dall’Europa – sia sotto forma di fondo perduto, sia sotto forma di prestito – venga sottratta alle tentazioni di impiego sociale che potrebbero farsi largo nella disposizione dei fondi, distraendoli (per usare un linguaggio tipicamente bancario) da una loro assegnazione alla parte dirigente del settore produttivo, a quello delle grandi imprese che vogliono vedersi assegnare gli appalti più cospicui e non certo per fare più profitti a scapito della pandemia, no, diamine!
Che andate pensando! Semmai per sostenere il grande sforzo italiano di rimessa in moto dell’economia, fonte primaria e strutturale del benessere di tutti. Per farsi prendere allegramente in giro, va bene come falsa verità, come allegoria del capitalismo dedito al sociale, traditore della propria natura, patricida di sé stesso, masochistico autoflagellatore del proprio decrepito ma pur sempre vivo corpo.
Intanto, nessuno dei problemi emersi con la pandemia non solamente non trova una soluzione anche nel medio o lungo termine, ripensando ad esempio ad una nuova formulazione del Titolo V della Costituzione repubblicana, ma la ristrettezza patetica del dibattito parlamentare si concentra su piccoli affari di bottega, su corporativismi riemersi nell’acuirsi dello scontro concorrenziale tra le categorie produttive ed economiche del Paese: ceti medi e grandi gruppi che si battagliano su un campo dove alle posizioni di trincea si avvicendano quelle di impatto frontale, impari per numeri finanziari e quotazioni borsistiche, tesi a guadagnare terreno nella gestione dei fondi europei.
La partita che si gioca nella sopravvivenza di un bollito governo Conte 2 (un tempo si sarebbe detto «…è cotto!»), almeno in questa fase di trapasso dal vecchio al nuovo anno, ha i piedi dentro la prospettiva di un “new deal” da un lato e di un accaparramento dei quattrini da parte dei padroni che non intendono diminuire i loro profitti cumulati e nemmeno investire in ammodernamenti strutturali delle aziende con soldi propri, ma grazie al sempre benemerito aiuto di Stato (in questo caso di Unione Europea).
Il fatto che il governo non sia ancora caduto non è nemmeno un dilemma così arcano; non serve scomodare alcun divinatore di prodigi o indovino per accorgersi che in questa fase è difficile immaginare una soluzione, per così dire, “felice” alla eventuale sfiducia dell’esecutivo: il piano per un Draghi a Palazzo Chigi non è una strada lineare e priva di ostacoli. Gli scontenti degli schieramenti, da una parte e dall’altra, potrebbero diventare un ostacolo non semplice da aggirare, soprattutto per un Quirinale che, nonostante tutto, non porterebbe il Paese alle urne nel rigido inverno pandemico che ci attende, dove sono previsti più di 60.000 morti fino ad aprile se le misure di contenimento e i comportamenti dei cittadini non saranno efficaci nel fermare la diffusione del virus.
E comunque, pandemia o no, il carattere parlamentare della nostra Repubblica impone al Presidente Mattarella di ricercare una nuova alleanza maggioritaria in seno alle Camere prima di dichiararne lo scioglimento: sarebbe una gran magra novità, non fosse altro che lo stato di emergenza sanitaria gestito a colpi di decreti impedirebbe al governo sfiduciato di gestire una sorta di normale amministrazione, senza lanciarsi più in spericolati tentativi di reiterazione di pratiche che andrebbero a mortificare ennesimamente il ruolo del Parlamento.
Per gestire compiutamente la fine della seconda ondata da Covid-19 e prepararsi ad una eventuale terza ondata, occorre la continuità governativa, unitamente alla piena funzionalità delle assemblee legislative: basti solo pensare al complicato rapporto tra Stato e Regioni e al caos che ne deriverebbe se una crisi di governo fosse aperta in questa difficile fase sanitaria, sociale ed economica.
E’ soltanto questo che frena Italia Viva dal far cadere Conte che, oltretutto, sta perdendo anche il sostegno di LeU e del PD, o quanto meno lo sta vedendo scemare progressivamente. La tenuta della maggioranza è una virtù politica che non si autoalimenta se non attraverso la mediazione (costituzionalmente prevista) del Presidente del Consiglio. Se questa sua capacità empatico-programmatica e gestionale viene meno, alla fine non c’è collante che tenga per garantire qualche giorno di raminga vita ad un governo destinato a morire.
Nelle dinamiche istituzionali si muovono i riflessi delle tensioni sociali di un Paese esausto, provato dall’emergenza di salute pubblica, frastornato dalla dismissione del futuro da parte delle classi dirigenti, esangue per il pauperismo incalzante e la mancanza di una reattività sindacale, partitica e civile che si chiami, nel suo insieme, “sinistra“.
Di quella moderata e governativa non vale nemmeno parlare. Ma di quella che è praticamente scomparsa, che sbircia da un angolo remoto di una strada quello che avviene nella piazza della politica e della società, di quella sì che dovremmo discutere: per riaprire un fronte di proposte da unificare, da rendere programma alternativo a tutto quello che è proposto da forze che non possono rappresentare in nessun modo l’alternativa al liberismo.
La mancanza di questa tensione emotiva, politica e sociale è il vero dramma di un Paese abbandonato all’alternanza tra una opzione moderata di centro e una estrema di destra. Se il terzo non è dato, non è vera alternanza, ma solo tatticismo: in pratica, una partita truccata ancora prima di cominciare.
MARCO SFERINI
10 dicembre 2020
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