L’esperienza della marcia in Ucraina, che si è svolta sabato scorso a Leopoli, alla quale ho partecipato non è stata solo il tentativo di portare in quel Paese martoriato la parola pace. È stata l’occasione di una riflessione più profonda sulla difficoltà di affermare un principio: quello della superiorità della logica della pace su quella della guerra, l’unica che sembra in queste ore guadagnare sempre più terreno.
A Leopoli non è stato facile. Come si fa a spiegare a un aggredito che per combattere il suo aggressore non è con la logica delle armi che l’Europa può aiutare l’Ucraina? Non soltanto perché regalare armi significa gettare benzina sul fuoco, ma soprattutto perché non è con la guerra che la guerra si può fermare. Concetto difficile da digerire per un aggredito che certo preferirebbe cannoni e non fiori da infilare negli obici.
E concetto difficile da spiegare anche a quegli italiani che hanno sottoscritto l’invio di armi, apparentemente la cosa più logica da fare e che risponde a una reazione di pancia: ti mando i proiettili così ti potrai difendere. Ma abbandonarsi a questa logica significa rinunciare ad altro e ignorare le lezioni della Storia recente, dai Balcani all’Afghanistan. Una Storia nella quale non abbiamo sempre chiamato le cose con il loro nome e ci siamo, nel caso afghano, abbandonati a figure retoriche come “Enduring Freedom” o “Operazione Nibbio”, anziché usare il termine che ora usiamo per l’Ucraina: invasione, parola in Russia vietata come lo era – anche se non con un diktat – per noi. Con la sola differenza che chi l’avesse usata non si sarebbe preso 15 anni di carcere.
Sul piano formale e sostanziale l’Afghanistan fu un’invasione. Con l’obiettivo di difendere la sicurezza nazionale e di cambiare un regime. La ammantammo degli stessi principi con cui un’invasione precedente, quella sovietica del 1979, aveva ammantato la sua: diritti delle donne, distribuzione della ricchezza, istruzione, sviluppo. I sovietici se ne andarono dopo dieci anni con oltre 14mila soldati e circa 800mila mujahedin uccisi e con un bilancio di vittime civili tra gli 800mila e i 2 milioni.
Noi ce ne andammo il 15 agosto scorso con un bilancio di oltre 200mila morti: 4mila soldati Usa e alleati, 70mila soldati afghani, 52mila guerriglieri e – tra Afghanistan e Pakistan – almeno 70mila vittime civili, una cifra probabilmente per difetto. Lasciammo inoltre un Paese, è bene ricordarlo, dove sette afghani su dieci vivevano ancora sotto la soglia di povertà proprio a causa del conflitto. Il costo totale di vent’anni di War on terror (Afghanistan, Iraq, Siria) è stato valutato in 900mila morti e 8 trilioni di dollari. Logica (e risultati) della guerra.
Il paradosso è che su questi anni di guerra la riflessione è stata ed è completamente assente e sembra non se ne sia tratta nessuna lezione. Rispondemmo alle crisi investendo in armi e lasciando che i conflitti si propagassero come metastasi. Chi chiamava allora le cose col loro nome e cercava di dimostrare quanto nefasta fosse la logica della guerra, restava una voce nel deserto, sbeffeggiata come si fa ora con chi alza la bandiera della pace.
Il problema è che i governi del pianeta hanno abbandonato la ricerca di strumenti per contenere le guerre ed evitare i conflitti. Non esiste una diplomazia preventiva e l’unico vero strumento che avevamo, l’Onu, è stato svuotato e annichilito, confinato al massimo nel ruolo umanitario di infermiere. L’Europa infine, incapace di darsi una Costituzione condivisa, è andata al seguito di decisioni altrui rinunciando a parlare con una voce sola e in grado tutt’al più di imporre sanzioni ma mai soluzioni. Non lo ha fatto in Iraq né in Afghanistan e non riesce a farlo ora nella guerra ucraina.
Il rischio di scivolare nell’ennesima “guerra giusta” è così vicino che bisogna tentare il tutto per tutto per dichiarare le guerre sempre e comunque illegittime anche se ciò non significa affatto negare agli aggrediti il diritto di difendersi dagli aggressori. Non è questo il punto. Il punto è la necessità di uscire per sempre dalla logica della guerra: una strada in salita fatta di accordi, negoziati, messa al bando di armi distruttive (atomica in primis) ristabilendo la credibilità di forze di interposizione internazionali. Passi che richiedono una riforma dell’Onu, la fine del diritto di veto, l’allargamento del Consiglio di sicurezza. Una strada di saggezza che l’Italia aveva imboccato e che ha poi accantonato.
Senza partire dal ripudio delle guerre, senza costruire gli strumenti per prevenirle e senza esaminare con onestà gli errori del passato, resta solo un’autostrada dove al casello si paga col 2% della nostra ricchezza l’ennesima corsa agli armamenti: l’asfalto per il prossimo conflitto.
EMANUELE GIORDANA
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