Checché ne dica il presidente di Confindustria Bonomi, l’efficienza in campo economico non è per nulla legata all’iniziativa privata; semmai a quella pubblica, al suo esatto opposto dunque. Perché? Domanda legittima: perché l’imprenditore è vincolato (si fa per dire…) alle oscillazioni del mercato e dentro questa logica (socialmente illogica) deve far rientrare tutte le proprie compatibilità, ad iniziare dal livello produttivo della propria azienda.
Il settore pubblico invece non risponde agli azionisti ma alla popolazione (in senso lato) e alle istituzioni (in senso stretto) e quindi il suo legame principale non è con le regole del mercato capitalistico in prima istanza, nonostante ne sia pervaso e incluso a tutto tondo, poichè nel capitalismo tutte e tutti – volenti o nolenti – viviamo e sopravviviamo, ma con il rapporto tra ricchezza nazionale e benessere comune.
Pertanto una economia sviluppata su base pubblica rischia sempre meno rispetto al privato se contemplata in questi termini: ma siccome i padroni, primi fra tutti quelli di Confindustria, sono soliti dettare le regole di governo al governo e la conduzione della vita delle maestranze ai lavoratori stessi, quindi a tutti i loro dipendenti, tramite le scelte che fanno sulla base di calcoli che riguardano esclusivamente i dividendi aziendali, se ne conclude che tanto più il regime dei padroni riesce ad imporsi nell’ambito pubblico dell’economia, tanto minori risulteranno le possibilità di garantire a milioni di lavoratori tutta una serie di tutele che risultano essere incompatibili con la garanzia pressoché totale del profitto imprenditoriale.
Vanno operate delle scelte: Bonomi all’assemblea annuale di Confindustria ha parlato di “Sussidistan“, lanciando un anatema contro qualunque forma di sussidio, di sostegno da parte dello Stato tramite interventi politici diretti da parte di Roma o mediante le risorse che dovrebbero arrivare con il piano europeo di Recovery Fund e, in subordine, col tanto famigerato MES.
La faccia tosta è forse la caratteristica immorale migliore dei padroni; hanno fatto ricorso alle sovvenzioni di Stato per mezzo secolo, dal dopoguerra fino agli anni 2000; hanno giurato e spergiurato che non esistesse alcun “rischio di impresa” mentre portavano i libri in tribunale piangendo lacrime di coccodrillo dopo aver investito capitali frutto del sudore delle lavoratrici e dei lavoratori in spericolate acrobazie finanziarie e borsistiche.
Quando negli anni ’80 del secolo scorso si è passati dalla prevalenza del keynesismo al neo-conservatorismo politico (Margareth Tatcher nel Regno Unito, Ronald Reagan negli Stati Uniti d’America) ispirato alle teorie di von Hayek sulla nocività dell’intervento pubblico nell’economia privata (praticamente l’economia globale), la spinta verso quello che sarebbe divenuto l’attuale modello liberista del regime delle merci e del profitto è stata veramente forte e ha generato una fase di compressione dei diritti sociali, della giustizia sociale a tutto vantaggio delle cosiddette “compatibilità di sistema“.
Questo a tutto scapito dello stato sociale sino ad allora costruito con lotte decennali, con conquiste falsamente attribuite al regime fascista, come le pensioni, la cassa integrazione, la riduzione dell’orario di lavoro, il riconoscimento delle rappresentanze sindacali unitarie dei lavoratori all’interno delle fabbriche.
Nonostante il vampirismo padronale nei confronti delle sovvenzioni di Stato, unico momento in cui era “concesso” al pubblico di intervenire sul privato applicando a sé stesso un autolesionismo inevitabile, espressione del dominio di un pensiero unico che ha messo al centro del mondo moderno esclusivamente il capitalismo come funzione di espansione globale, interclassista e così benefica per le sorti dell’umanità, nonostante ciò, ancora oggi i padroni sciorinano giaculatorie insopportabili e aggiungono sempre un chicco di sfrontatezza a quelli inanellate in tanti decenni trascorsi.
L’ultima trovata di Bonomi è sull’IRPEF: nel sacro nome dell’aumento della produttività, dell’espansione della forza imprenditoriale sullo spietato tavolo della concorrenza ai tempi del Covid-19, l’imposta sul reddito delle persone fisiche – in questo caso quella sul reddito da lavoro – non la dovrebbero più versare i padroni (sia pure a titolo di “acconto“), ma i lavoratori stessi, quindi decurtarsi una parte del salario per assolvere al pagamento della tassa. I profitti non vanno toccati. Soprattutto se si tratta di pagare le tasse tante per quanti operai hai in fabbrica. L’onere delle trattenute in busta paga, che è a carico delle imprese, dovrebbe essre spazzato via. Letteralmente. Per fare posto ad una nuovo rapporto tra padrone e lavoratore anche in materia fiscale.
Sostiene Bonomi: «Perché passare alla tassazione diretta mensile solo per i 5 milioni di autonomi? Facciamo lo stesso per tutti i lavoratori dipendenti, sollevando le imprese dall’onere ingrato di continuare a svolgere la funzione di sostituti d’imposta addetti alla raccolta del gettito erariale e di essere esposti alle connesse responsabilità».
Ed aggiunge che sarebbe una bella prova da parte dello Stato, una prova di applicazione di una uguaglianza sostanziale tra lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti; dimenticando che i lavoratori autonomi si chiamano così perché sono – mi si permetta la crudele semplificazione – padroni di sé stessi (per certi versi…), mentre i lavoratori dipendenti sono – in quanto tali – alle dipendenze di un padrone che si incamera i profitti e distribuisce un salario comunque sempre inferiore alla vera ricchezza prodotta dai lavoratori nel monte ore in cui stanno in azienda.
Mettere sullo stesso piano lavoratori dipendenti e autonomi in un Paese in cui l’evasione fiscale è praticamente impossibile per i primi mentre è largamente diffusa tra i secondi (l’INPS e l’ISTAT parlano di circa 3 milioni di soggetti autonomi che evadono – non eludono, ma proprio evadono… – il fisco), è quanto di più ineguale ed ingiusto si possa fare.
Ma per Bonomi l’uguaglianza vale solo se legata alla variabile dipendente della tutela del massimo profitto con il minimo rischio possibile. Qui siamo oltre la ricerca delle sovvenzioni di Stato per salvare le scelte improvide create circa gli investimenti dei capitali da impresa in ardite circonvoluzioni di investimenti esteri, fatti di bolle speculative, di crolli in borsa verticali. Qui siamo ormai ad un livello ulteriore: fare ricorso nemmeno all’erario per sanare i debiti dei giocatori d’azzardo del profitto, ma direttamente arrivare alla defiscalizzazione attraverso un prelievo forzoso nelle tasche dei lavoratori facendolo passare per generosa diposizione degli stessi a rendersi eguali agli altri lavoratori: quelli autonomi.
Un modo per sfruttare ancora di più la forza lavoro, conservare maggiori profitti in un momento in cui la crisi pandemica aggredisce i settori più deboli del Paese che non hanno risparmi su cui contare per tirare avanti e che a milioni avrebbero dovuto fare ricorso a prestiti bancari e da usura se non fosse intervenuto il governo con il blocco dei licenziamenti e quella distribuzione a pioggia di soldi tanto osteggiata dal capo dei padroni.
La divisione di classe appare evidente dall’offensiva confindustriale nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori, dello Stato e persino di un governo che non è nemico degli imprenditori e che deve, però, fare fronte ad una situazione di emergenza sanitaria che condiziona non poche decine di migliaia di ricchi affaristi e grandi possidenti, ma che grava pesantemente sull’80% della popolazione che vive del proprio lavoro, tante volte precario, tante volte così intermittente da non consentire la pianificazione di alcun decente futuro.
L’arroganza di Confindustria dovrebb essere, da sola ma non solo, la cifra su cui valutare la ricostruzione di una sinistra di classe adeguata ai tempi, per una controffensiva operaia, di tutto il mondo del lavoro e del non lavoro, di tutti gli sfruttati, di chiunque viva senza poter mettere un centesimo di euro da parte.
Al fronte padronale va contrapposto un fronte sociale del lavoro, un fronte anticapitalista che rimetta in discussione le parole di qualunque Bonomi e le classifichi per ciò che sono: non la preoccupazione per le sorti dell’Italia intera, ma soltanto il grido d’allarme per il timore che i profitti incamerati col sudore altrui finiscano per servire a salvare tutte e tutti dalla frustrante situazione antisociale che avanza, dalla povertà che ne deriva, dal lungo cammino nella pandemia che è tutt’altro che finito…
MARCO SFERINI
1° ottobre 2020
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