L’occupazione è anche una questione di qualità

Fondazione Di Vittorio-Cgil. Jobs Act, più professioni dequalificate nel terziario povero. +45 per cento: è la crescita dell’area del «disagio occupazionale» negli ultimi dieci anni in Italia: il precariato porta anche al lavoro temporaneo e al part-time involontario

Venerdì 8 dicembre Matteo Renzi ha inviato ai suoi affezionati una mail esilarante. La enews della settimana contiene un grafico – con tanto di simbolo del Pd – che rappresenta il tasso di occupazione in Italia. Sottotesto: da quando ci sono i governi del piddì l’«occupazione» cresce. Dal 2013 a oggi il tasso di occupazione è cresciuto dal 55,5% al 58,1%. Prima, ovvero dal dicembre 2008 al 2013 – quando al governo c’era Berlusconi – è diminuito dal 58,1% al 55,5%.

Sono passati nove anni e il tasso che misura l’incidenza statistica di chi ha una qualsiasi occupazione sul totale della popolazione (e non i posti di lavoro nuovi creati) è tornato al livello del 2008. Va precisato che si tratta del livello tra i più bassi dei paesi europei e Ocse: in Italia sono pochi a lavorare, si lavora poco, e sempre peggio e sempre meno pagati. Spacciato come la prova finale del «successo» delle politiche del Jobs Act il grafico attesta la stagnazione del mercato del lavoro. Sono passati quasi dieci anni e la situazione è rimasta la stessa. Anzi è peggiorata. Il lavoro è uno stagno dove si annega. Proprio un successone.

Si dirà: una crescita qualsiasi esiste – pur modesta – e non si può negare. Certo, ma questo è l’effetto di trascinamento prodotto dal boom di lavoro precario e a termine. Questa settimana l’Istat ha confermato che otto nuovi assunti su dieci sono precari. L’impatto sul tasso di occupazione è modestissimo, a dimostrazione che il nuovo precariato non produce posti di lavoro, ma una girandola vorticosa di contratti che vanno e vengono. Non si produce nuova occupazione, ma si riproduce il vecchio precariato. Invece di dimostrare il trionfo, il grafico della enews attesta invece che i 18 miliardi di euro di sgravi contributivi alle imprese, stanziati in tre anni, dopo l’approvazione del Jobs Act nel 2015 sono serviti alle imprese, non ai lavoratori. Un «epic fail» comunicativo, passato in secondo piano, come molte cose nella faticosa campagna elettorale in corso. Ma solo lì. Più seriamente, ieri una ricerca della Fondazione di Vittorio della Cgil, intitolata «Il disagio nel mondo del lavoro», ha aperto uno squarcio sulla qualità del lavoro precario prodotto dalla cura renziana.

Nel perimetro ristretto dell’occupazione tra il primo semestre 2016 e il primo del 2017 è cresciuta la quota di chi non ha trovato un’occupazione «stabile» (i lavoratori «temporanei involontari»; coloro che sono impegnati a tempo parziale (anche le partite Iva) perché non hanno trovato un lavoro a tempo pieno (sono definiti «part-timer involontari»). Il totale è da record: 4 milioni e 492 mila persone, 2 milioni 689 mila i primi, 1 milione 803 mila i secondi. In dieci anni la crescita è stata del 45,5%. Cifre convergenti con quelle dell’Inps e dell’Istat: oggi la crescita esiste, ed è quella del precariato generato dalla «riforma» Poletti dei contratti a termine che ha cancellato la «causale» già dal 2014 e dalla «riforma» Fornero che ha aumentato l’età pensionabile, imponendo agli over 55 di restare più a lungo al lavoro (precariamente).

Nei primi due anni del Jobs Act la frazione degli occupati stabili a tempo pieno è continuata a diminuire di 2,1 punti tra i 15 e i 24 anni e di 1,7 tra i 25 e i 34 anni, In dieci anni la poca occupazione esistente si è ridotta in tutte le classi di età. I bonus renziani alle imprese, a spese del bilancio pubblico, non sono serviti. Una volta finiti, il lavoro temporaneo involontario è aumentato tra i giovani di 15-24 anni (+4,3) e tra i 24-34enni (+2).

L’occupazione è anche una questione di qualità. Che non è di casa in questi anni. Peggiora la qualità in termini di qualifiche professionali. Ciò che cresce, infatti, è l’occupazione nei servizi poveri a bassa qualificazione (ristorazione, ospitalità, di cura), nel lavoro stagionale (agricoltura). E in cima aumenta l’occupazione ad alta qualificazione (dirigenti, professioni tecniche e intellettuali). In mezzo – l’infrastruttura della produzione garantita dalla forza lavoro qualificata- il crollo delle professioni a qualificazione media. Si chiama polarizzazione asimmetrica dell’occupazione. Sono almeno due le cause di questo fenomeno: il taglio decennale agli investimenti in ricerca, sviluppo, università e scuola. E poi la trasformazione del modello produttivo indotto dalle tecnologie dell’informazione e dall’automazione digitale dei «lavoretti».

ROBERTO CICCARELLI

da il manifesto.it

foto tratta da Pixabay

categorie
Economia e società

altri articoli