La crisi generata dalla pandemia ha avuto «effetti differenziati in base al sesso», e nell’occupazione femminile «siamo rovinosamente scivolati indietro», con «numeri drammatici» che pesano soprattutto sulle lavoratrici con figli.
Lo afferma la sottosegretaria al Ministero dell’Economia, Maria Cecilia Guerra, che nei prossimi giorni presenterà in Parlamento il «Bilancio di genere» 2021 che si riferisce all’esercizio finanziario 2020 dello Stato. L’elaborazione dei dati ha evidenziato per la prima volta un calo dell’occupazione femminile dal 2013 scesa dopo sette anni al 49%. «Avevamo faticosamente superato la soglia psicologica del 50% nel tasso di occupazione femminile e con la pandemia siamo rovinosamente scivolati indietro» ha spiegato la sottosegretaria. A pagare di più sono le donne con figli in età prescolare.
Il tasso di occupazione delle madri è del 53,3%, mentre quello di chi non ha figli il 72,7%. È stato registrato un peggioramento di quasi l’1% rispetto al 2019, l’anno precedente l’inizio del capitalismo pandemico. Per le donne di età tra 25 e 34 anni questo rapporto si è ridotto al 57,5%. Il dato sull’occupazione femminile è tanto più grave se viene letto in confronto con la media europea che si attesta al 62,7%, con un divario di genere pari al 10,1%.
Le più penalizzate sono le donne che vivono nel Sud del paese: il loro tasso di occupazione precaria sprofonda al 32,5%. Si rafforza il divario tra tasso di occupazione femminile e maschile che arriva a 18,2%. «I dati – sostiene Guerra – evidenziano una discriminazione nella discriminazione: l’aggravarsi della situazione delle madri, soprattutto quelle più giovani, dimostra, come se ve ne fosse ancora bisogno, che al di là della retorica del sostegno alla maternità. Nel nostro paese figli e lavoro continuano a essere largamente inconciliabili».
Durante la pandemia 1,9 milioni di donne sono costrette al part-time involontario se vogliono lavorare, contro 849 mila uomini nelle stesse condizioni La disuguaglianza è cresciuta anche nello smart working. Nel 2020 è cresciuta in maniera macroscopica la quota delle donne che sono state costrette a ricorrere a questa modalità del lavoro a distanza: il 16,9%, con un aumento di 15,3 punti percentuali rispetto all’1,3% del 2019.
Più contenuto, ma comunque rilevante, il ricorso a quello che è chiamato anche «lavoro agile» da parte degli uomini. In questo caso si è passati dall’1,5% del 2019 al 12,8 per cento. Dunque non solo sono pagate di meno, non solo lavorano di meno, ma quando lavorano e sono pagate le donne svolgono di più lo smart working che si aggiunge al lavoro domestico nella divisione sociale del lavoro capitalistico. Lo stesso problema è stato osservato tra chi non studia, né lavora, né studia (Neet): nel 2020 il tasso è passato dal 27,9 al 29,3%. Nell’Ue è il 18%.
La disparità della distribuzione dei carichi familiari all’interno delle mura domestiche emergono dai dati Inps sui beneficiari dei congedi Covid: i 300 mila minori interessati sono stati presi in carico per il 79% dalle madri e per il 21% dai padri.
Questo dato va letto insieme a quello dei congedi parentali dove si assiste a un miglioramento della quota di padri beneficiari che, nel periodo 2011-2020, è cresciuta dal 10,8 al 22,3 per cento. «Il carico di lavoro domestico e di cura – ha commentato la sottosegretaria Guerra – grava per il 62,8% sulle spalle delle donne nonostante la quota gestita dagli uomini sia cresciuta di 9,1 punti in dieci anni». Analisi interessanti, da due anni si attende inutilmente almeno un’inversione di tendenza.
MARIO PIERRO
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