L’Occidente o dell’imperialismo che divora sé stesso

Ci sono più indizi che fanno presagire l’entrata in crisi del modello occidentale: le guerre del contesto multipolare, il continuo sopravanzare della crisi ambientale e climatica e, ultimo, ma...

Ci sono più indizi che fanno presagire l’entrata in crisi del modello occidentale: le guerre del contesto multipolare, il continuo sopravanzare della crisi ambientale e climatica e, ultimo, ma di certo primo tra i punti emergenziali del momento, la riaffermazione alla Casa Bianca del trumpismo che, rispetto alla prima presidenza del magnate, ha comunque conosciuto in questo contesto una repentina attualizzazione e, quindi, sostanzialmente un peggioramento in toni ampiamente muscolari, esercizio della propaganda di governo e gestione propriamente personale del potere.

Mai come oggi, infatti, è piuttosto evidente, giorno dopo giorno, che la reazione putiniana all’estensione dell’imperialismo nordatlantico ad est, vera ragione della guerra scatenata in Ucraina dal febbraio del 2022, ha determinato una gran parte di contrappunti che sono stati utilizzati, segnatamente negli Stati Uniti d’America, dalla più retriva, reazionaria e bigotta opposizione al democraticismo bideniano, percepito da una vasta fetta di elettorato come debole mantenimento di uno status quo ormai insostenibile sulla scena di un unipolarismo sconfitto o, più semplicemente, sorpassato.

L’asse America – Europa è quindi al suo tramonto definitivo? Senza inciampare in previsioni che possono poi risultare fallaci, si può dire con sufficiente certezza che oggi, hic et nunc, quel rapporto tra Washington e gran parte dei governi degli Stati che fanno parte dell’Unione Europea si è tanto incrinato da risultare sempre più complesso un quadro definito in termini di relazioni per così dire “normali” quali sarebbero in tempo di pace. Se la guerra in Ucraina non continuasse, Bruxelles e Strasburgo dovrebbero vedersela con un Trump ancora più deciso a mettere nell’angolo l’odiato Vecchio Continente.

Nella narrazione del vicepresidente Vance questa sensazione di parassitismo delle vecchie potenze mondiali novecentesche appare in tutta la sua sprezzante acrimonia. Gli Stati Uniti, come esempio di nazione capace di globalizzare il mondo, sono stati spesso e volentieri frenati da questa palla al piede che si fa chiamare Unione Europea e che pretende di essere un attore della scena multipolare, mentre – a ben vedere – rischia, oggi più che mai, di cadere nell’irrilevanza, compressa tra gli imperi rinascenti ed emergenti: naturalmente gli USA, e poi Russia e Cina.

L’Europa che oggi entra in crisi nel suo essere stata uno storico partner politico, commerciale e militare della grande Repubblica stellata, si è nel passato affidata proprio alle guerre per determinare i suoi equilibri interni. Quasi tutti i tentativi del ristabilimento di un periodo di pace, almeno negli ultimi due secoli e mezzo, si sono succeduti a fasi in cui aspri conflitti erano il frutto di un militarismo che originava molto indietro ancora rispetto alla cosiddetta “età moderna” e, più ancora, di quella contemporanea. Ne è venuto fuori, invece di un piano di collaborazione reciproca, un confronto serrato tra vincitori e vinti.

La questione storica che ancora oggi viene dibattuta circa gli effetti del Trattato di Versailles, si può in qualche modo configurare come una premessa del secondo conflitto mondiale e, quindi, anzitutto un dato di fatto riguardante la debolezza delle democrazie liberali tanto in Italia quanto in Germania. I regimi autoritari sono nati lì dove il nazionalismo non aveva avuto uno sfogo rivoluzionario: l’Inghilterra secentesca e la Francia settecentesca sono passate, infatti, tra due rivoluzioni, tra guerre civili e confronti con il resto di un’Europa che vedeva come fumo negli occhi tanto il puritanesimo repubblicano di Oliver Cromwell quanto il giacobinismo di Maximilien Robespierre.

Mentre tutto questo accadeva nella civile Europa, conquistatrice del mondo, asservitrice di interi continenti e spietata, moderna espressione di Stati colonizzatori e razziatori dei beni di civiltà considerate inferiori tecnologicamente e quindi sottosviluppate, nonostante si fossero date organizzazioni statali simili a quelle del nostro Occidente, gli Stati Uniti d’America crescevano come potenza regionale e poi mondiale grazie all’eredità militare e culturale del Vecchio continente.

Si può azzardare, chiosando un po’ storiograficamente, che l’asse del vecchio mondo occidentale si è mantenuto tale, pur nelle enormi trasformazioni che ha subito (e fatto subire al resto del pianeta) nel corso degli ultimi secoli e che, una domanda che riguarda proprio queste mutazioni sopraggiunge nel momento in cui gli Stati Uniti d’America decidono, terminata la Seconda guerra mondiale, di entrare, con tutta una dinamica tipica dell’imperialismo moderno, nelle maglie più fitte dell’Europa della ricostruzione. Prima che calasse la Cortina di ferro dal Baltico al Mediterraneo, gli USA e l’URSS decisero che quel continente devastato sarebbe stato un banco di prova.

Ma prova di che cosa, realmente? Quale era la vera posta in gioco? Benché le due guerre mondiali avessero decretato la fine di una nuova egemonia politica ed economica dell’Europa nel resto del mondo, non va dimenticato che, almeno fino agli anni Settanta del Novecento, Stati come la Gran Bretagna, il Belgio, la Francia, la Spagna e persino l’Italia, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta, avevano conservato un vasto impero coloniale sparso tra Americhe, Africa, Asia ed Oceania. Indubbiamente, tra queste potenze, il Regno Unito è quello che fa la parte vera del leone (esattamente britannico).

Quindi, almeno in una funzione indiretta, l’Europa rimane per Washington e per Mosca un terreno di confronto utile per un riverbero delle loro potenzialità sull’intero pianeta. L’economista Philip Hoffman ha scritto nel suo “Why did Europe conquer the World?” che tra il 1492 e il 1914 quelli che furono gli imperi coloniali europei ricoprirono con i loro domini ben l’84% delle terre emerse e, comunque, la loro influenza si riversò in ogni continente. Nonostante fosse una civiltà indubbiamente progredita, l’Europa non ha significato per il mondo l’unico centro di sviluppo della conoscenza e l’unico luogo in cui la competizione per l’egemonia continentale (e globale) ha preso campo con l’avvento delle moderne armi da fuoco e con la riorganizzazione degli eserciti.

Tra tutte, senza ombra di dubbio, il plurimillenario impero cinese, nell’avvicendarsi delle dinastie che si sono susseguite in acerrime lotte di successione e di spartizione della vastità asiatica, è stato, al pari dell’Europa, un antico contendente del colonialismo che siamo abituati ad imparare a scuola e che, imprudentemente, ci viene talvolta mostrato come una sorta di esportazione della civiltà in territori ostili, dove nuovi barbari, dalle sembianze indiane, indigene e tribali si sono trovati a contatto un brutto giorno con tutto il portato di questa erudizione e di questo progresso.

L’Europa ha dominato il mondo per secoli, ma in questi ultimi duecentocinquant’anni ha, guerra dopo guerra, passaggio di fase dopo altro passaggio, perso la capacità di essere influente su scala globale. La nascita e lo sviluppo degli Stati Uniti d’America sono stati, oggettivamente, uno dei motivi di questo ridimensionamento prima e di messa all’angolo nella stretta attualità di oggi. Il problema sta forse nel fatto che, accanto alla grande civiltà, al sapere che si era compenetrato anche di tante altre culture (mediorientali, indoeuropee, asiatiche, cinesi e perfino nipponiche) e che proveniva da tremila anni di costruzione del mondo attorno al bacino del Mediterraneo, c’era il conflitto.

Ed il conflitto era la guerra come una quasi ragione di primaria importanza nella paradossale continuazione dello sviluppo complessivo. Senza la guerra, è ben triste doverlo scrivere e ammettere, l’Europa non sarebbe stata quello è stata nel corso dei millanta anni che ci hanno condotto oltre l’antichità e la medievalità. L’era moderna è il prodotto infelice e felice al tempo stesso di una serie di enormi contraddizioni, tutte umane ma non umanamente comprensibili dal punto di vista dell’etica e dell’autocoscienza, su cui si sono innestati gli assi portanti di una conformazione culturale comune che, tuttavia, non ha dato al continente una uguale unità dal punto di vista politico.

Se tralasciamo il federalismo imperiale romano che toccava tre dei cinque grandi agglomerati di terre emerse, da Carlo Magno in avanti ogni tentativo di unificare l’Europa per farne un centro propulsore del mondo tanto antico quanto moderno, non è riuscito a decollare per i timori tutti interni della prevalenza di un popolo, di un potere, di un governo, di uno status economico su uno o su altri. Franchi, ispanici, ungheresi, austriaci, tedeschi, inglesi, olandesi e danesi, con l’eccezione degli italiani che sono rimasti fino alla fine dell’Ottocento separati in casa, possono annoverare nelle loro epiche storie quanto meni degli slanci nella direzione appena citata.

Se dovessimo oggi, alla luce dei rigurgiti imperialisti di Trump, Putin e Xi Jinping, definire cosa ha fatto dell’Europa quel grande continente di un tempo, e che oggi non è palesemente più, potremmo dire che è stata non la tecnologia a renderla tale ma la cronica afferenza al conflitto quasi permanente. L’ossessione per la conquista di sempre maggiori spazi entro il contesto europeo da parte di questo o quello Stato era data anche dalla necessità di una sopravvivenza che era vicendevolmente minacciata ma, più ancora, era ispirata dalla volontà di dominio e di eredità di una Storia antica in cui alla base dei grandi imperi era una grande economia.

Non c’è dubbio sul fatto che lo sviluppo della grande industria permise la continuazione di una tradizione di conflittualità senza soluzione di continuità alcuna e che, dunque, determinò il grado di sviluppo conoscitivo in materia di tecniche meccaniche, di sempre nuovi ambiti della scienza che progredivano seppure per fare le guerre. La lotta fra le classi sociali si inserì, quindi, in un contesto di più generale asperità tra i poteri che politicamente intendevano rappresentare tanto il volere del sovrano quanto quello dei ceti bancari, finanziari e del primo capitalismo moderno che faceva capolino tra Seicento e Settecento sulla scena inglese, francese e tedesca.

Quando parliamo, quindi, di “civiltà occidentale“, possiamo indubbiamente fare riferimento a ciò che ci insegnano riguardo il grande portato culturale del Vecchio continente. Ma non dobbiamo mai dimenticare che ad accompagnarlo fu sempre un regime di conflittualità che non vide mai fine dalle sponde del Mediterraneo a quelle dei mari del nord: dal Manzanarre al Reno e oltre… fino agli Urali, fino alle porte dell’Asia, comprendendo in questo ginepraio di grandi stermini e conquiste, riconquiste e perdite uno degli imperi più longevi della Storia: la Sublime Porta ottomana.

Nel riferirci oggi alla crisi del “modello occidentale” è necessario tenere conto di una lunga storia di quello che consideriamo il nostro mondo, proclamato unico fra quelli possibili, spocchiosamente consapevole del fatto che pretende di dettare modelli di comportamento economico-finanziario su cui si debbono erigere le fondamenta di nuove civiltà moderne che non prescindano dai “valori” che vanta come esempio di progresso irrefrenabile. Un progresso che ci ha condotto, con l’affermazione globale del sistema capitalistico e dell’imperialismo, alla negazione proprio di quella civiltà che invece si vorrebbe esibire in quanto eccellenza del pianeta…

MARCO SFERINI

11 aprile 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

categorie
Marco Sferini

altri articoli