«Sei sempre quello della pietra e della fionda, uomo del mio tempo». Salvatore Quasimodo, reminiscenze scolastiche e riletture di questi giorni, per ricordarsi che la guerra esiste, che nel mondo sono attivi più di un centinaio di conflitti che si prolungano ormai da anni e anni. Alcuni sono quasi secolari, come quello tra palestinesi e israeliani, oppure tra curdi, turchi, siriani e iracheni.
La guerra è l’omicidio plurimo, di massa, indiscriminato, che selvaggiamente colpisce senza distinzione di sorta, proprio come cantava Fabrizio De André in “Girotondo“, non proprio con la rassegnata indignazione del poeta siciliano, semmai con la speranza che, una volta fatto prima il deserto di “gente, bestie e fiori“, comunque sarebbe ritornata la vita sulla terra e un nuovo mondo avrebbe conosciuto un’alba diversa da tutte le altre.
Mentre la guerra imperversa e totalizza le vite di tutti, direttamente in Ucraina e indirettamente nel resto d’Europa, facendosi ovviamente meno sentire in quanto ad impatto a mano a mano che concentricamente ci si allontana dall’epicentro del conflitto, il dibattito della politica italiana sulla formazione del governo la lambisce incautamente, la rende partecipe della nascita dell’esecutivo più a destra di sempre che, già di per sé, è un elemento di grande preoccupazione per le sorti del Paese.
Ma il capolino che la guerra fa oggi nelle relazioni interpartitiche della coalizione delle destre sovraniste e liberiste, non è quello della disamina accurata delle linee di politica estera che terrà l’Italia (sarebbe meglio dire che “manterrà” e che, anzi, rafforzerà…) in materia di cieca adesione alle direttive della NATO e di Washington; oggi il conflitto tra Est e Ovest, tra Russia e Occidente va ben oltre l’ormai conclamata fedeltà di Meloni (e persino Salvini) verso l’Europa e le “stars and stripes” d’oltreoceano.
Il coro di sorpresa un po’ generale sul filoputinismo di Berlusconi, che sta facendo barcollare, ma non crollare, il patto del quasi-governo della leader di Fratelli d’Italia, è tanto ipocrita quanto vasto e fintamente divisivo nell’opinione politico-pubblica italiana.
In un certo qual modo si è finto di sopravvalutare il carattere unitario di una coalizione che si è opportunisticamente messa insieme, rinverdendo certamente la tradizionale capacità aggregante della destra nei momenti elettorali, ma che in realtà aveva già marcato le differenze evidenti tra le tre principali forze che la compongono.
Non si tratta tanto di differenze di carattare ideale, programmatico: se si confrontano i programmi, le storie soprattutto e i profili dei tre leader, nei mutati rapporti di forza attuali, è del tutto evidente che il berlusconismo è tramontato nella sua forma primordinale, nella sua primogenitura del centrodestra.
Tanto che, oggi, si parla sempre più di “destra” e sempre meno di “centro“. Quel luogo geopolitico e parlamentare dove per antonomasia si decidevano le sorti di un bipolarismo bislacco e tutt’altro che stabile nella logica dell’alternanza, si ritrova affollatissimo nella concorrenziale contesa della rappresentanza tanto del ceto medio quanto di quello imprenditoriale.
Renzi, Calenda, Lupi, Bonino, Toti, Brugnaro, Bonaccini e una larga fetta del PD stesso gravitano permanentemente in quell’area cercando di riportarla ora sulle posizioni più liberiste e conservatrici della destra, ora su quelle più moderate e fintamente progressiste di quella che non è più sinistra da tempo e per dimostrazione assolutamente empirica nei tanti governi tecnici e politici che sono succeduti e di cui i democratici hanno fatto parte a pienissimo titolo.
Berlusconi, dunque, quando parla di riallacciamento dei rapporti con Vladimir Putin, di venti bottiglie di vodka e di lambrusco, oppure quando ricostruisce la storia dello scoppio della guerra in Ucraina, non è altro da sé stesso e non dovrebbe sorprendere: perché, in fondo, si muove in un solco di coerenza che non ha mai abbandonato. Sono semmai i suoi alleati attuali che disconoscono vecchie amicizie e rapporti con una Russia che sosteneva gli esperimenti sovranisti in Italia non disconstandosi poi molto dal trumpismo neonazi-onalista.
Indubitabilmente, di tutto questo risentirà la compagine governativa meloniana: la casella del ministero degli esteri, che doveva essere attribuita ad Antonio Tajani, potrebbe essere assegnata nemmeno ad un altro esponente di Forza Italia, ma ad un tecnico (un ambasciatore, un diplomatico di lungo corso) oppure ad un esponente di FdI o Lega.
Perché, tra gli interrogativi un po’ retorici pusillanimi di queste ore, ci sono quelli che domandano come possa l’assemblea degli eletti del partito di Berlusconi applaudire il suo indiscusso, indefesso capo e proprietario eterno.
Ad attribuire patenti di democrazia piena a partiti fondati su fortune personali e su personalismi fortunatissimi, si finisce poi, dopo quasi trent’anni di berlusconismo, a chiedersi come mai delle elementarità più elementari. Pur ridotta ad un pregevole 8%, insperato fino a poche ore prima dello spoglio delle schede, Forza Italia è Berlusconi, così come la Lega Nord era Bossi e la Lega attuale è Salvini e, di più ancora, Fratelli d’Italia d’ora in avanti sarà ancora di più soltanto Meloni.
Il personalismo esasperante della politica italiana miete i suoi amarissimi frutti e genera nei cronisti strabuzzamenti oculari che male celano una verginissima ingenuità morale e politica, chiedendosi come sia possibile che Berlusconi parli così e che i suoi possano condividerne il verbo.
Però, niente paura: il Cavaliere nero di Arcore è uomo che afferma e smentisce nell’arco di ventiquattro ore. Più preciso delle spedizioni dei pacchi che si ordinano su Internet, più veloce di una transazione bancaria pagata extra. Ed infatti, già nella serata stessa del giorno in cui è uscito il secondo audio scandaloso su una ricostruzione non del tutto immaginifica e stramba della cronologia di avvento della guerra, Berlusconi diffidava chiunque dal dubitare del suo fiero atlantismo.
Il cerchio si chiude così, anche in questo delicatissimo passaggio istituzionale, con la ritrovata unità di una destra che persegue degli obiettivi geometricamente eccentrici: dentro la circonferenza della dimostrazione di un interesse pressoché totale verso i bisogni sociali e popolari, per contrastare i disagi crescenti dovuti alla crisi multistrato internazionale, europea e molto italiana, stanno tutti i particolari di una politica piccola, fatta solo per garantire la prosperità del singolo a scapito di quella collettiva.
Del resto, da che centrodestra è centrodestra, quindi dal momento in cui Forza Italia divenne il partito federatore tra Lega Nord e Alleanza Nazionale, il collante già allora conservatore (e pure reazionario) che tenne insieme Bossi e Fini fu l’eccentricità antipolitica di un Cavaliere capace di mettere avanti le ragioni del padronato, delle imprese e della grande industria nazionale.
La costruzione monetario-affaristica di una Europa tutta finanza e niente stato-sociale ha, in fin dei conti, sostenuto ogni progetto governativo, nella traballante alternanza italiana dei poli opposti, per stabilizzarsi nei primi anni dall’introduzione della moneta unica e nel raffronto con il resto del mondo capitalisticamente globalizzato.
Sconfitta la coalizione de “I progressisti” (allora capitanata ad Achille Occhetto, segretario del Partito Democratico della Sinistra, nato dalle ceneri del PCI), i tentativi di fermare l’avanzata delle destre vennero fatti escludendo qualunque possibilità di affidarsi a ragioni e progetti ancorati solo a sinistra: si doveva unire tutto il fronte anti-berlusconiano.
L’Ulivo prima, l’Unione poi, sono stati gli unici momenti di interruzione di una era nuova per l’Italia, di un cambiamento radicale davvero socio-antropologico: il modello americano dell’affermazione del singolo, attraverso le capacità individuali sull’onda di un arrivismo a buon mercato, aveva trovato nel berlusconismo la sua direttrice primaria e indubbiamente di grande successo.
L’Italia, folgorata dall’imprenditore che aveva costruito Milano 2, creato i network televisivi, comperato la vecchia Standa, il Milan, dato vita a nuovi supermercati, assicurazioni e banche, assimilato testate giornalistiche e settimanali nazional-popolari di larghissima diffusione come “Tv Sorrisi e Canzoni“, non poteva non credere di vivere lo stesso splendore, la stessa età dell’oro.
Fu un disastro per la tenuta sociale del Paese, fu una fortuna per chi scelse di collocarsi, da ex democristiano, ex socialista, ex un po’ di tutto, nel campo larghissimo del berlusconismo. E da allora molto poco è cambiato nella concezione proprietaria di un partito, nei rapporti tra il suo fondatore e il resto del mondo. Putin e Russia compresi.
La varietà con cui si sono succeduti invece gli equilibri politici, espressione distorta dalle leggi elettorali della volontà popolare, ha intrappolato un po’ tutte le forze politiche: compresa la creatura di Berlusconi, compreso lui stesso dentro la selva di processi e di contraddizioni che non poteva non alimentare essendo lui stesso la quintessenza del conflitto di interesse nella moderna, disgraziata politica italiana.
Il grande stupore di oggi circa le sue dichiarazioni sulla guerra in Ucraina, sui suoi rapporti con Putin e sul ruolo dell’Italia nel contesto internazionale, più che meraviglia, dovrebbero destare quello stupore a sinistra di aver ancora a che fare con una destra che non darà corso ad un governo di innovazione e di cambiamento come hanno sperato gli italiani che hanno ingrossato le fila del consenso a Fratelli d’Italia.
La metempsicosi elettorale del voto che emigra dall’infatuazione per il salvinismo a quella per il melonismo conferma il trasformismo italico, lascia in penombra Berlusconi e le sue rivendicazioni e giganteggia davanti al molto poco rappresentato antisocialmente dal PD e dai suoi alleati. Come un tempo, si sorride alle battute del Cavaliere ma, tutto intorno, c’è solo un gran, solitario, inespressivo, misticamente melanconico deserto sociale, civile e morale…
MARCO SFERINI
20 ottobre 2022
Foto di Dids