La pagina di Giorgio Pressburger aveva finito col somigliare, aderendovi letteralmente nel ritmo e nella pacatezza implacabile, alla sua stessa voce che era quella di un uomo magnanimo nel cui sguardo privo di perplessità, e tuttavia severo e penetrante fino alla più paradossale complicità, si rinveniva e si ricomponeva, quasi per una magia bianca dell’invenzione letteraria, ogni forma dell’umano.
All’origine, per lui, c’erano state soltanto immagini di corpi gettati nella storia, di individui affini o lontani, di frammenti e lacerazioni del vissuto condiviso tra ricordo privato e memoria collettiva, di pensieri redivivi che il tempo e una biografia senza pari, avventurosa e desultoria, avevano affilato e tradotto nello stile della pacatezza come di una affettuosa, ma necessariamente onerosa e invasiva, fraternità. Chi da ultimo lo abbia ascoltato raccontare di sé e della sua vicenda nei bellissimi documentari a firma di Mauro Caputo (L’orologio di Monaco, del 2015, e il recentissimo, in ogni senso testamentario, Il profumo del tempo delle favole) già ne conosce la mozione biografica e il decorso artistico-intellettuale: nato a Budapest ottant’anni fa in una famiglia della piccola borghesia ebraica, cresciuto nel quartiere cui avrebbe dedicato col fratello Nicola, troppo presto perduto, il volume d’esordio Storie dell’Ottavo distretto (’86), era prima scampato alla deportazione nazista, e sempre ricordava i vasetti della marmellata materna che gli avevano garantito la sopravvivenza, poi alla purga stalinista del ’56, quando era approdato in Italia su un camion di profughi che rammentava alla stregua di un secondo strumento salvifico. Nessuno saprà mai quante lingue, per vocazione familiare e per costrittiva elezione, intendesse e parlasse Pressburger, presto divenuto da noi un protagonista della regia teatrale e radiotelevisiva.
Alla scrittura in prosa era invece arrivato tardi, non prima dei suoi cinquant’anni, e agli amici confessava di avere imparato e nello stesso tempo guardato con timore e tremore alle opere di certi maestri (per esempio Giorgio Bassani, suo insegnante all’Accademia di Roma) o di rari fuoriclasse, quali Franco Cordelli, che sentiva da sempre compagni di via. Infatti si avverte un sensibile ritegno, una prudenza che approda al sottovoce, infine un pudore primordiale nella pronuncia di Pressburger che pulsa in uno stile disadorno, di semplicità temeraria, scandito nei modi ossessivi del ricordo che diviene racconto per il tramite della parola nuda e cioè detta e partecipata al lettore senza alcun supporto.
Guardava perciò da lontano alla forma-romanzo, più temuta e rispettata (in fondo estranea alla sua pura vocazione affabulatoria) che non direttamente praticata, se anche la sua opera maggiore, di straordinaria qualità e di impervia complessità, il ciclo che si intitola fra il 2008 e il 2013 Nel regno oscuro-Storia umana e inumana (Bompiani), non è affatto un romanzo in senso proprio ma piuttosto un oratorio polifonico, un canto epico e straziato del Secolo Breve dove si affollano e si interpongono alla voce autobiografica quelle dei revenant che le hanno dato un senso, un destino e una sopravvivenza, dalle Sacre Scritture a Dostoevskij, da Kafka a Simone Weil, la cui appendice, o palinsesto terminale, è uscita quest’anno con Don Ponzio Capodoglio (Marsilio). Ma è nella forma-racconto che l’arte di Pressburger trova la più netta e spettacolare compiutezza, è lì che la sua voce e la parola scritta si incontrano senza residuo da La neve e la colpa (’98) a L’orologio di Monaco, il suo capolavoro edito nel 2003 e appena riproposto da Marsilio.
Qui, il racconto eponimo si dà nella forma di una virtuale allegoria e tratta dell’umile dono, una sveglia da comodino moltiplicata in diversi esemplari, che una anziana signora, scampata alla Shoah, offre a suoi giovani congiunti che il dopoguerra ha dispersi nel mondo. Quando la sveglia smette di funzionare la donna muore ma avviene nel frattempo che tutti gli altri esemplari, per fatalità o sortilegio, si fermino contemporaneamente: segno che la memoria non è un fatto individuale e segno, altrettanto, che neanche la scrittura può mai esserlo. Forse agli occhi di Giorgio Pressburger quel semplice orologio, nella mite e arresa mortalità, somigliava proprio al dono della scrittura, noi diremmo alla umanità della sua stessa voce.
MASSIMO RAFFAELI
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