Scorrendo le notizie dei telegiornali e dei principali siti Internet di informazione (o, se si vuole, anche di “disinformazione“, a seconda del punto di vista da cui si osservano i fatti) si ha la certezza dello stato di guerra permanente in cui viviamo ormai da alcuni lustri e, con una marcata accentuazione, negli ultimi due anni e mezzo. Non c’è dubbio che esistano tentativi di minimizzazione, di ridimensionamento delle atrocità che vengono commesse: tanto in Ucraina quanto in Palestina; tanto in Siria quanto nei teatri di conflitti dimenticati, dall’Africa all’Asia.
Precisamente lo stato di guerra è qualcosa che sovrintende le risoluzioni armate delle problematiche tra gli Stati: somiglia ad un domino in cui ogni tessera si aggancia all’altra tanto per numero quanto per disposizione verticale, dimostrando il rapporto di causa ed effetto in un continuo ribaltamento che sgonfia la protervia della verticalità e appiattisce, atterra e rende ogni elemento privo di caratteristiche uniche. La metafora ludica serve ad inquadrare da più angolazioni le miriadi di esseri umani abbattuti dalle bombe, dai droni, dai missili, dai proiettili dei fucili e dalle mura delle case che crollano.
Quanti morti ha fatto fino ad ora la guerra tra i due imperialismi che si scontrano in Europa (NATO-USA versus Russia)? Non esiste una cifra nemmeno lontanamente avvicinabile a quella che potrebbe essere sicura e certa. Sappiamo qualcosa di più dell’orribile conteggio degli assassinati prima in Israele da Hamas e poi da Israele a Gaza, in Cisgiordania e, ultimo ma purtroppo non ultimo, nel sud del Libano. Ma lo stato di guerra si occupa molto poco delle conseguenze che dirige dall’alto della potenza che esprime. Beninteso, non ci si riferisce qui ad una qualche forma di complotto internazionale messo in essere da qualche strana occulta setta.
Risulta abbastanza elementarmente evidente che si sono venute a creare le condizioni per una irregimentazione di una serie di rapporti di potere che giganteggiano e gareggiano nell’essere il riferimento di quella che alcuni acuti analisti hanno definito la “maggioranza mondiale“. Le guerre sono, in pratica, elementi non solo condizionanti lo scenario tanto regionale in cui si svolgono o quello globale in cui hanno un marcato riflesso economico, politico e geostrategico; sono divenute – o sono, per meglio dire, tornate ad essere quasi con chirurgica precisione – un fattore ri-costituente delle crisi capitalistiche, dei sommovimenti tellurici del liberismo.
Se seguiamo questa linea di analisi, dobbiamo convenire su un altro fatto: non tutte le guerre oggi in atto sono uguali. Non lo sono per intensità e non lo sono per la potenza di ricaduta tanto sovrastrutturale quanto strutturale. Il grado di mutamento che esercitano nei confronti delle politiche nazionali e continentali è singolare: appartiene quindi specificamente ad ogni conflitto ed è difficile poter, ad esempio, richiamare un sovraordinante stato di guerra se, a questo proposito, ci si riferisce al contempo ai conflitti tra Ucraina e Russia, tra Hamas ed Israele; oppure tra Houthi e sempre Israele o tra quest’ultimo e l’Iran.
Concordiamo su fatti oggettivi: il conflitto bellico è una prosecuzione della politica e della volontà di riequilibrio del multipolarismo che si è venuto sostituendo all’unipolarismo statunitense seguito al concludersi del bipolarismo post-Guerra fredda. Ma come si esprime questa protesi della gestione interna delle organizzazioni statali, mediante il grande cinico gioco della concorrenza nella contesa mondiale dei singoli settori di grande sviluppo economico e finanziario, è tutta un’altra discussione. Non esiste più nulla di veramente certo oggi rispetto ai posizionamenti strategico militari di ieri.
Prendiamo, ad esempio, il ginepraico caso della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan: la reazione israeliana ai fatti del 7 ottobre 2023 è stata molto di più di qualcosa di esageratamente spropositato. Non si è trattato di qualcosa che è letteralmente sfuggita di mano al governo ipersionista e di estrema destra dell’allora barcollante Benjamin Netanyahu. La strage perpetrata da Hamas è stata funzionale alla messa in esecuzione di un piano di ridisegnamento complessivo della regione palestinese seguendo il progetto della cancellazione della presenza araba entro quella che viene pensata come la sovrapposizione perfetta tra territorio dello Stato ebraico e vecchia Palestina.
La Turchia, soprattutto oggi che Israele ha invaso il Libano meridionale e mantiene ben ferme le sue postazioni nelle alture del Golan, ha mosso le sue pedine. Il rinfocolamento della guerra civile siriana è anche, indubbiamente, una questione interna al paese, ma è prima di tutto uno scacchiere su cui si giocano partite ben più grandi: non è un mistero che i sogni neo-ottomani di Erdoğan rientrino in un “secolo della Turchia” che, a cento anni dalla proclamazione della repubblica da parte di Mustafa Kemal, rimette sul piatto mediorientale un imperialismo cui le era stato imposto di rinunciare dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale. La crisi di Gaza, di per sé, era un motivo per alzare la voce, per iniziare a farsi sentire.
La prosecuzione delle operazioni militari israeliane contro Hezbollah hanno fatto il resto e, pertanto, giocare una partita destabilizzante nella vicina Siria, vicina tanto a Beirut quanto a Tel Aviv, è stato abbastanza facile: il rinverdimento dello jihadismo, oltretutto, non crea problemi soltanto a Bashar al-Assad, ma anche al regime degli ayatollah che non hanno mai stretto rapporti di reciproca amicizia con Ankara. La presenza della NATO nell’antica terra anatolica è stata un sufficiente deterrente per mantenere alta la guardia e diffidare della doppiezza, dell’equidistanza tanto da est quanto ad ovest di un regime non certamente anti-europeo e anti-occidentale.
Gli Stati Uniti d’America, dopo l’attacco terroristico di Hamas ad Israele, hanno cambiato le loro priorità strategiche nel Medio Oriente, assegnando una sostanziale equipollenza all’appoggio allo Stato ebraico e allo sdoganamento dell’Iran come “superpotenza regionale“. Il timore che la Turchia possa sgusciare fuori dall’Alleanza Atlantica è uno dei motivi di questa articolazione degli obiettivi geopolitico-militari di Washington che, tra poco tempo, con l’avvicendarsi della nuova presidenza trumpiana, potrebbero subire un mutamento non di poco conto.
Quello stato di guerra un po’ permanente, perché oggettivamente strutturale e complice del multilateralismo imperialista, di cui si scriveva all’inizio di queste righe, seppure indirettamente diretto dagli attori che lo giocano nel risiko globale, esige delle regole ben precise quando si tratta di bilanciamento e controbilanciamento delle mosse: se la Turchia, ad esempio, diventa concorrente della potenza regionale iraniana, ciò può condurre ad una distrazione dal piano occidentale per passare quasi esclusivamente a quello mediorientale. Senza escludere alcuni sguardi verso la zona di confine marittimo con la Russia a nord, quindi tangente il conflitto in atto nel Donbass.
Per questo l’Iran è sembrato più prudente nei confronti di Ankara negli ultimi tempi: per prevenire, per attenuare i risvolti di questa eventualità. Ossia una contesa dell’area in cui, proprio in Siria si può giocare una arlecchinesca partita: americani, turchi e jihadisti da un lato, iraniani e Assad dall’altro. La questione curda, tutt’altro che in secondo piano, potrebbe tornare ad avere una funzione di intercapedine tra questi poli disomogenei tra loro, così come la guerra di Israele contro Hezbollah. Non c’è dubbio, però, che ormai Erdoğan e Khamenei rappresentino le due potenze egemoni di questo Medio Oriente moderno. Le divisioni che lo caratterizzano gli impediscono di essere una “nazione araba” in quanto altro polo alternativo tanto a quelli occidentali così come a quelli asiatici.
Diverso il discorso riguardante il ruolo americano, russo e cinese in questo mosaico ingarbugliatissimo di interessi che si uniscono e si separano tanto facilmente quanto violentemente. Se, da un lato, la contesa globale pare impostata su un dualismo che oppone l’Occidente nordatlantico, americano ed europeo al conglomerato sempre più ampio dei BRICS, dall’altro i tanti fattori destabilizzanti a livello regionale non garantiscono che questa ancora fragile dualità tenga. Non è un voler tornare, anche se solo col pensiero, ad un bipolarismo ormai impossibile (est – ovest, USA – Russia o USA – Cina, in stile Guerra fredda).
Semmai è un prendere atto che, per quanto si multipolarizzino gli interessi, la concorrenza è tanta e tale da spingere alla federazione, all’alleanza tra diversissimi per poter fronteggiare prima il Satana comune e poi continua a scannarsi reciprocamente. C’è per dirla con Bauman: «Più sei indipendente e meno sei in grado di controllare la tua indipendenza»; e ancora: «…l’incertezza è l’habitat naturale della vita umana…». Astraendo questi concetti sulla liquidità sociale e sulla singolarità esistenziale, trasportandoli, certamente in modo indebito, nel contesto di cui stiamo trattando, ossia lo stato di guerra come elemento caratterizzante la presunta stabilità (si colga il paradosso, per favore…), si coglie qualche affinità col presente.
Ossia, vale per le sovrastrutture statali, per le organizzazioni internazionali, per le comunità e i popoli nel loro insieme e nelle reciproche differenze che sono, a volte, anche all’origine di molti dei conflitti di cui si è trattato qui. Qualcuno si domanda, ogni tanto, nelle comparsate televisive in mille dibattiti, se stiamo perdendo o vincendo la guerra: in Ucraina, contro le oligarchie, contro i terroristi… Sì, la stiamo perdendo, perché la guerra di per sé è una sconfitta. Ed il capitalismo ne è l’espressione strutturale. L’espressione più contraddittoria, irrisolvibilmente tale.
MARCO SFERINI
7 dicembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria