Il coronavirus è arrivato in Italia mentre l’Oms dichiarava l’epidemia cinese da 2019-nCoV una «emergenza globale» elevandola così al rango di pandemia. La sua genesi sembra oramai accertata come proveniente dalla carne di pipistrello macellata a mani nude, il cui sangue ha poi infettato il paziente zero.
La densità di popolazione, l’iniziale cautela dei dirigenti cinesi e la virulenza del virus ha poi fatto il resto, scatenando l’epidemia che è già costata centosettanta morti e oltre ottomila persone colpite, un migliaio delle quali in gravi condizioni. Il contagio si è velocemente propagato al di fuori della città di Wuhan, epicentro del problema, raggiungendo, seppur ancora con pochi casi, tutti gli altri continenti. La memoria risale subito all’epidemia causata da un altro coronavirus, la Sars (Severe acute respiratory syndrome) del novembre 2002 iniziata nel Guangdong, e che uccise ottocento persone. Quella storia fu molto diversa dall’attuale: il paziente zero poco dopo i sintomi morì, ma non fu fatta una diagnosi precisa sulle cause del decesso. In quell’occasione i responsabili del governo cinese non informarono l’Oms fino al febbraio 2003, coprendo la notizia per questioni di ordine pubblico.
Quelle reticenze permisero al virus di diffondersi creando un’altra pandemia che si spense progressivamente, ma dopo ave creato un’ondata di panico globale. In questo caso invece, nonostante le lentezze iniziali, dovute anche all’elefantiaco apparato del Partito ed alla non sempre facili relazioni tra centro e periferia, la dirigenza ha dimostrato un’apertura rispetto ai dati clinici, e soprattutto alla loro condivisione, che ha permesso di organizzare, a livello mondiale, una rete di ricerca che indaga la natura mutante del virus e come contrastarlo. Ma non è certo solo questa la differenza, come pure la capacità dimostrata dai cinesi di governare l’emergenza sanitaria approntando presidi sanitari eccezionali, come la costruzione di ospedali ad hoc a Wuhan.
Dalla dinamica complessiva, infatti, e non solo dal punto di vista epidemiologico, possiamo dire che siamo di fronte alla prima vera pandemia globale nel senso più ampio della parola. Ciò che la globalizza non è dunque solo la diffusione intercontinentale, ma le relazioni economiche che legano il suo andamento ai mercati mondiali. La Cina della Sars, infatti, non era ancora quel gigante che rivaleggia con gli Usa e l’Europa per la supremazia economica, politica e militare.
Fu agli inizi degli anni dieci di questo secolo, con le olimpiadi di Pechino del 2008, che la Cina si preparò al sorpasso o almeno a diventare il global player che è oggi. Era l’anno che vide la Grande Crisi dell’economia finanziaria che dura ancora oggi con i suoi meccanismi di divisione internazionale del lavoro sempre più escludenti ed iniqui. Per capire quella temperie, ed ancora una volta la sua relazione con la pandemia di coronavirus, basti ricordare le affermazioni che all’epoca fece l’economista Nouriel Roubini:«Vi ricordate il detto che quando gli Usa starnutiscono, il mondo si prende il raffreddore? Ebbene: adesso gli Usa hanno la polmonite!».
Oggi la polmonite, non solo in senso figurato, ce l’hanno i cinesi, e la metafora, anche dal punto di vista economico, è più valida che mai. Non a caso le notizie che riguardano l’andamento della pandemia sono sempre più affiancate da quelle sull’andamento delle borse valori di tutto il mondo. Esiste infatti un nesso oramai più che evidente tra le percentuali del contagio ed il calo del Pil cinese che, a cascata, si ripercuote su quello mondiale. Se la «fabbrica del mondo» rallenta, o i suoi cittadini non si arricchiscono più con le percentuali a due cifre, tutto il sistema globalizzato dell’economia commerciale e finanziaria si ammala.
Se la «piccola» città di Wuhan viene isolata, o addirittura l’intera Cina restringe gli spostamenti interni o internazionali, la decrescita, infelice, della produzione si infrange come uno tsunami sulla già fragile economia mondiale, sempre sull’orlo della recessione. Ecco, allora, oltre alla solidarietà internazionale ed alla collaborazione tra scienziati, spiegata questa corsa ad annientare il virus, perché quando si è più fragili i danni possono essere letali.
RAFFAELE K. SALINARI
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