Da una settimana, ormai, anzi da otto giorni e più, la prima cosa che faccio al mattino non è aprire le finestre e respirare un po’ d’aria e fare un bagno di luce tonificante, ma guardare sul telefonino come è trascorsa la notte di guerra in Ucraina. Un istinto quasi primordiale in cui prende corpo una empatia insopprimibile, somma delle tante immagini e dei tanti racconti che ogni ora ci vengono scagliati addosso da una cronaca sul campo che non smette di sorprendere per l’alzarsi del livello di crudeltà e di tragico orrore che percorre tutta l’Ucraina.
Così, pure questa mattina ho ripetuto il mio rito informativo e ho letto dell’attacco alla centrale nucleare di Zaporizhzhzya. Dopo i timori per le scorie radioattive quarantennali che stazionano in quella di Chernobyl, poco a nord di Kiev, un’altra minaccia, un altro incubo totalizzante, che non risparmierebbe davvero nessuno se dovesse esplodere un reattore, se dovesse crearsi una nuvola di morte come quella che si propagò per l’Europa all’epoca del collasso del nocciolo e anche in Italia si diffuse il più che giusto timore persino di mangiare le verdure su cui era piovuto al passaggio di temporali intrisi dei fumi atomici.
È difficile anche solo ipotizzare che ai russi sia sfuggito un missile o sia partito un colpo di mortaio o una bomba abbia deciso di andarsene per i fatti propri e viaggiare verso la centrale nucleare più grande d’Europa. Questo è molto di più di un paventato attacco atomico al mondo occidentale, al mondo intero. La guerra sfugge di mano soprattutto a chi la alimenta scientemente giorno e notte, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
Un crimine contro l’umanità è stato già iniziarla e invadere l’Ucraina: la trappola in cui gli opposti imperialismi hanno gettato la popolazione è tanto più grande quanto lo diventano i rischi per l’esistenza di ognuno e di tutti.
La domanda è dunque questa: l’attacco alla centrale di Zaporizhzhzya è stato voluto o no? Nel primo caso ci troviamo davanti ad preciso avvertimenti di Mosca. Un avvertimento oggettivamente criminale. Nel secondo caso non c’è da avere meno timore, perché se questo è uno degli eserciti più forti del mondo e commette errori di questo tipo, si può dire che, nell’essere inversamente proporzionali alla sua forza, sono però perfettamente coerenti con la megalomania del suo presidente e del suo governo.
Complottisti e ipotizzatori, ilazionisti e dubbiosi senza possibilità di recupero, teorizzano già di primo mattino che siano stati gli stessi ucraini a creare questi incidenti, così da attribuire alla Russia di Putin le colpe che non avrebbero, esacerbando gli animi di una popolazione che sa di andare incontro ad una resistenza lunga, estenuante. Una resistenza armata, fatta sia delle milizie territoriali sia dei milioni di civili che rimarranno nonostante l’apertura di quei corridoi umanitari che, a dire il vero, si fa fatica ad intravvedere in mezzo alle macerie, ai check-point e alle file di carri armati russi che stazionano sulle principali arterie del paese.
Sia come sia, la centrale nucleare più grande del Vecchio continente ha rischiato di saltare per aria e di produrre un disastro uguale, se non di dimensioni ancora maggiori, di quello che la guerra di aggressione di Putin sta facendo senza sosta alcuna. Ciò interroga sulla disponibilità non tanto alla ragionevolezza tra i contendenti, ma prima ancora a quell’istinto di autoconservazione che è ancestrale in ognuno di noi e che dovrebbe preservarci, spingendoci ad evitare, anche all’ultimo momento, di premere il bottone rosso, fatale, superando il punto di non ritorno, decretando la fine della cosiddetta “civiltà” per come l’abbiamo conosciuta e anche combattuta – con lo scopo di migliorarla – fino ad oggi.
La guerra non ammette giustezza nella razionalità, ma solo crudo calcolo tattico, disposizione di armamenti, di uomini che diventano le pedine di un potere che si vuole espandere e che lo fa a tutti i costi: primi fra tutti quelli delle vite di chi, anonimamente, diventerà una lapide su cui posare un nome. Forse… Perché molti cadaveri vengono sepolti frettolosamente e ai parenti che restano sarà data magari una medaglia al valore postuma.
Può anche essere che queste frasi risuonino come retorica pacifista, ma dall’altra parte c’è tutta una retorica militarista e bellica che si nutre dell’odio fra i popoli innestato su un neonazi-onalismo reciprocamente attribuito da Putin a Zelensky e da Zelensky a Putin. Il primo è un autocrate megalomane che vorrebbe riconsiderare i confini di un mondo che non c’è più per sentirsi al sicuro dalle minacce della NATO e degli USA; il secondo vorrebbe stare nell’Unione Europea che garantirebbe all’Ucraina una tutela economica per sviluppare una economia che sfugga ai potentati di Mosca, mentre lo stare nell’Alleanza atlantica lo metterebbe (si fa per dire…) al sicuro dalle minacce russe.
Ma Putin ha giocato, seppure in grande ritardo, d’anticipo e ha praticamente già vinto una sanguinosissima partita, una prima battaglia. Ma non ha vinto la guerra. Ed è per questo che bisogna contrastare la retorica bellicista con posizioni terze, con posizioni di aperto e deciso pacifismo. Non si tratta di una intransigenza dai tratti ideologici, dalle venature di una equidistanza superficialmente incapace di decidere da quale parte stare. Si tratta di non dare alla guerra nessun pretesto per alimentarsi, per fare del popolo ucraino un martire collettivo e del suo paese un immenso cimitero.
Le armi che stiamo dando ai resistenti di Kiev e della altre città assediate, affamate e assetate, minacciate di essere rase al suolo dai comandanti di Putin, sono necessarie allo sforzo di contenimento dell’invasione, ma difficilmente 1 milione e mezzo di combattenti potrà contrastare tutta la potenza di fuoco che il Cremlino potrebbe decidere di scatenare contro di loro. Il rapporto, soltanto per quanto riguarda le forze di terra, è di 1 ucraino contro 3 russi.
E’ pur vero che, anche in tante battaglie e guerre del passato (cui questa di guerra assomiglia terribilmente, almeno a quelle di stampo prettamente novecentesco) due fattori hanno giocato a favore degli assediati e degli occupanti: il tempo e la riorganizzazione delle proprie armate unitamente allo scatto della sorpresa di attacchi che il nemico non si aspettava. E’ successo agli eserciti di Cromwell come a quelli della Convenzione rivoluzionaria francese. Ed è capitato proprio a Stalingrado, pagando però un prezzo altissimo in termini di vite umane e, comunque, con il quasi totale annichilimento delle infrastrutture e dei beni di prima necessità per la popolazione.
E’ difficile da qui, dalla tranquillità di una scrivania occidentale, davanti ad un computer poter dare giudizi sul comportamento della resistenza ucraina. Con la memoria della nostra Resistenza, quella con la erre maiuscola, non si può che essere con loro e tenere unite le bandiere della pace a quelle di Kiev. Con la mente non si può non constatare che questo conflitto, che Putin ordina ai russi di chiamare “operazione militare speciale” (pena 15 anni di carcere se osi definirlo “guerra“…), è così impari da far temere davvero che si trasformi, per una crescente catena di ferocia cui il Cremlino ricorrerebbe inevitabilmente per non perdere la faccia e per non subire una sconfitta anche solo temporanea, in scenari come quelli visti a Grozny o ad Aleppo.
In entrambi i casi non fu risparmiato niente e nessuno. Non si sta facendo appello alla “resa“. Non lo si può chiedere al popolo ucraino che ha tutto il diritto di battersi e di sperare di sopravvivere a questa catastrofe umanitaria. Però è legittimo e doveroso dire che se oggi non puoi vincere, non devi farti annullare, ma riorganizzarti col primo alleato che puoi trovare: il tempo.
MARCO SFERINI
4 marzo 2022
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