In queste ore si ripete per i palestinesi la Nakba del 1948. Raccontata, in un grande romanzo dell’israeliano S. Yzhar del ’49, dove l’io narrante che partecipa alla cacciata degli arabi alla fine si ribella con queste parole.
«…A quel punto vedemmo una donna che passava in un gruppo di altre tre o quattro. Teneva per mano un bambino di forse sette anni. C’era in lei qualcosa di speciale. Sembrava risoluta, cieca nel suo dolore ma controllata. Le lacrime le scorrevano sulle gote quasi non fossero sue. Anche il bambino gemeva a labbra strette, come a dire “Che cosa ci avete fatto?”. Sembrava che all’improvviso lei sola sapesse che cosa stava succedendo lì, tanto che provai vergogna in sua presenza, e abbassai lo sguardo. Era come se dai suoi passi e da quelli del figlio, salisse un grido una sorta di maledizione carica d’odio. Notammo anche quanto fosse fiera di non degnarci della minima attenzione.
Capimmo che era una madre-leonessa, e vedemmo che lo sforzo di trattenersi e di comportarsi eroicamente le induriva i tratti del viso e come, ora che il suo mondo era perduto, non volesse crollare di fronte a noi. Elevati dal dolore e dalla tristezza sulla nostra natura malvagia, i due passarono oltre e noi notammo come nel cuore del bimbo stesse succedendo qualcosa per cui, quel medesimo piccolo che piangeva sconsolato, una volta cresciuto non sarebbe potuto diventare altro che una vipera. Come in un lampo mi fu chiaro. Tutto improvvisamente mi sembrò diverso, più preciso: “L’esilio, ecco, questo è l’esilio. È così che accade».
Sono le ultime di un breve quanto grande romanzo uscito nel 1949 in Israele, praticamente il primo della letteratura israeliana, scritto da S. Yzhar (Yzhar Smilansky) considerato non a torto padre fondativo della letteratura israeliana, che suscitò un grande dibattito nel neonato Stato d’Israele. Il romanzo, tradotto in Italia (per Einaudi) con il titolo “La rabbia del vento”, aveva come titolo originario “Khirbet Khiza” il nome di un villaggio palestinese che con la violenza sarebbe diventato israeliano.
Il romanzo descrive infatti la Nakba, la “Catastrofe” di 700 mila palestinesi cacciati dalle loro terre nel 1948, ma vissuto da un io narrante dalla parte delle brigate – Golani, Irgun, Haganah – che rastrellando arabi, radendo al suolo con la dinamite le loro case e uccidendo indiscriminatamente, erano impegnate nella pulizia etnica per cacciare i palestinesi. Straordinario nella forma – una confessione dialogata -, si colloca dentro la grande tradizione dei romanzi sui “drappelli”, per una scrittura che raccontando il punto di vista degli uomini diventati soldati, esprime una oggettiva contrarietà alla irrazionalità della guerra.
“Il nudo e il morto” di Norman Mailer ne è un capofila, come “Casse-pipe” di Celine, ma potremmo elencarne tanti altri ai quali si è ispirata anche molta cinematografia (da “Platoon” a “La sottile line rossa”).
Qui però l’autore si impone per scrittura e coraggio, va controcorrente, al punto da assumere come proprio il dolore del «nemico». Fino ad una amara ma terribile presa di coscienza, di fronte ai commilitoni che gli ricordano invece che lì, in quei luoghi di caccia all’uomo, nasceranno tante nuove città israeliane. Folgorato dagli occhi minacciosi di un bambino, che possono diventare tali solo se introiettano la malvagità circostante, il protagonista si scontra con gli altri del plotone e monologa con se stesso: «Le mie viscere urlavano. Colonialisti (urlavano), bugiardi.
Khirbet Khiza non è nostra. Una mitragliatrice Spandau non potrà mai conferire alcun diritto. Oh, oh urlavano le mie viscere. Che cosa non ci hanno raccontato sui profughi. Tutto, proprio tutto per i profughi, per il loro benessere e la loro salvezza…Naturalmente i nostri profughi. Ma quelli che noi condannavamo a esserlo…Duemila anni di esilio. Come no. Uccidevano gli ebrei. Europa. Adesso eravamo noi i padroni», Allora forte, anche se con voce tremante, rivolto ai membri del plotone che se la ridono dei profughi palestinesi, il protagonista grida: «Non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui».
La storia, 75 anni dopo, si ripete in questi giorni, in queste ore, con l’ultimatum del governo e dei militari israeliani a un milione di persone per una espulsione dentro e oltre la Striscia di Gaza: verso dove? Il popolo palestinese, il popolo dei campi profughi, profugo nella propria terra e senza diritti, riprende il cammino, per un esodo impossibile e senza ritorno – dove infatti potranno mai rientrare se a Gaza sarà terra bruciata per vendetta?
Ora gli occhi dei bambini ci guardano. Quelli che sopravvivono alle atrocità in corso. Tutti. Dopo la strage di Hamas che, non contento dell’efferatezza dimostrata, ha pensato bene di filmare l’orrore dei corpi bambini straziati per riproporcelo in un macello mediatico; e con le vite spezzate – secondo fonti Onu – finora di 614 bambini palestinesi uccisi dalle cannonate e dai raid aerei d’Israele. Dei quali si preferisce tacere perché si continua a pensare che uccidere tecnologicamente con armi sofisticate e micidiali, dall’alto dei cieli sia, chissà perché, più legittimo ed asettico, meno criminale.
Una cosa è certa siamo senza futuro. A questo punto nemmeno i «ragazzini salveranno il mondo» se la guerra in atto non sarà fermata.
TOMMASO DI FRANCESCO
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