Probabilmente è futile chiedere uno sforzo di meningi ad un Paese in cui i due leader della maggioranza attribuiscono le stragi di migranti l’uno alla Francia e l’altro alle Ong. Ma proprio il maremoto della cialtroneria dovrebbe imporre all’opposizione un pensiero affilato e coerente, quando occorra capace di proposte inaudite. O perlomeno disponibile ad affrontare le domande note ai lettori del manifesto, dell’Avvenire, dell’Espresso, ma tralasciate dal moderatismo anche durante i suoi empiti di indignazione.
Ci si può sdegnare per gli affogati e allo stesso tempo disinteressarsi alla sorte dei prigionieri dei lager libici, ai quali risulta desiderabile perfino la roulette russa di un viaggio via mare verso l’Italia? E tenersi buone esose bande criminali perché impediscano le partenze?
È davvero impossibile accordare ai migranti, intercettati in Mediterraneo o nel nostro territorio, una protezione internazionale che sia intelligente e umana?
Il ministero dell’Interno ha la capacità e la cultura per gestire un problema così complesso? Erano criminali le ong troppo disinvolte oppure lo è stata la decisione, di fatto italiana, di estrometterle dai soccorsi dei natanti in difficoltà in un larghissimo tratto di mare tra le coste libiche e la Sicilia? Le risposte non sono difficili.
Finché non si arriva ad un problema connesso che è quasi intrattabile, l’instabilità della Libia. La Libia è ormai un campo di battaglia nello scontro tra cattivi e pessimi che sta squassando la galassia araba e sunnita. Da una parte i movimenti rivoluzionari islamici, alcuni dei quali appoggiati da Turchia e Qatar; dall’altra una consorteria di caste militari e teste coronate, con l’appoggio esterno dell’amministrazione Trump e di Netanyahu.
Mentre l’inviato dell’Onu a Tripoli persegue una road-map sempre più utopica (Conferenza di riconciliazione nazionale, referendum, libere elezioni) le milizie libiche e i loro sponsor internazionali si preparano ad una guerra che si annuncia interminabile, afghana, dato che nessuna tra le alleanze in campo è in grado di sottomettere i rivali.
Neppure il generale Haftar, capo di una confederazione di bande ferocissime. Costui dispone di tutto quel che manca agli avversari: una piccola aviazione (offerta dagli Emirati arabi), l’intelligence e la missilistica (egiziane), appoggi diplomatici (francesi), buone relazioni con Mosca e con gli Usa, e un embargo Onu sulle armi che colpisce solo gli avversari. Però non ha l’essenziale: i libici, a cominciare dalle gerarchie musulmane anche non integraliste, lo considerano uno strumento degli stranieri.
L’Italia in principio contrastava Haftar ma da quando l’anarchia militare minaccia i tubi dell’Eni ha cominciato a corteggiarlo. All’inizio ne ricavava poco (leggendaria l’insolenza con la quale il generalissimo trattò a Roma il ministro della Difesa Roberta Pinotti). Ma il governo Conte ormai lo blandisce in forme spudorate, nel nome di quel realismo che di solito conduce gli occidentali alle scelte più autolesioniste e disonorevoli.
Intanto Haftar va piazzando suoi avamposti intorno alla capitale e minaccia di abbattere aerei civili turchi; carichi di armi di fabbricazione turca raggiungono le coste libiche (gli ultimi due intercettati un mese fa in un porto a cento km da Tripoli); e nel caos generale al Qaeda e Isis dilagano in parte del Fezzan, il sud. Per disarmare le milizie occorrerebbe un esercito nazionale libico.
Una Nato appena previdente avrebbe provveduto per tempo. Cominciasse ora, occorrerebbero dai 12 ai 18 mesi perché quell’esercito fosse operativo. E nel frattempo? Per decisione del Consiglio di sicurezza, dal 2011 la Libia è soggetta alla giurisdizione della Corte penale internazionale, però defilata (l’unico ordine di arresto emesso negli ultimi anni riguarda un luogotenente di Haftar tanto ingenuo da denunciarsi con un video in cui i suoi soldati massacravano prigionieri: è tuttora al posto di combattimento).
Non disponendo di una propria polizia giudiziaria la Corte può agire solo se i Paesi presenti in Libia, Italia tra questi, le forniscono informazioni raccolte sul terreno. Ma quei Paesi intrallazzano ciascuno con queste o quelle bande e la rappresentanza Onu in Libia non incoraggia intromissioni della giustizia internazionale. Ma anche se la Corte fosse messa nelle condizioni di fissare il confine della disumanità, l’anarchia militare è tale che nessun processo politico può decollare senza le garanzie minime ma fondamentali quali può offrirle soltanto una forza internazionale: un contingente in grado di imporre la liberazione di migranti prigionieri, qua e là il rispetto di cessate-il-fuoco e no-fly zone, e a Tripoli l’incolumità di un governo transitorio finalmente sottratto alle milizie che oggi lo ricattano.
Ma pare problematico perfino formare questa eventuale forza e, ancor prima, assicurarle un mandato del Consiglio di sicurezza. Troppo pericoloso affacciarsi in Libia, troppo conflittuali gli interessi degli Stati coinvolti (spaccano anche la Nato: Ankara e Parigi sono su fronti opposti).
E com’è sempre più evidente, lo sfacelo libico conviene ai nemici dell’Europa. A Putin, ma innanzitutto a Trump, nel calcolo che gli europei continueranno a rivolgersi a lui perché aiuti a spegnere la guerra dirimpetto alle nostre coste (in questo Conte è stato il battistrada). Nel frattempo sabotatori trumpiani e utili babbei aizzeranno lo scaricabarile tra governi svergognati; e tutti, a cominciare dagli elettori, avranno la conferma che l’Unione è una disunione ridicola, una nave solida quanto i barconi alla deriva che lascia affondare con il loro carico di umani.
Non è abbastanza perché l’europeismo riconosca che in Libia è in gioco l’Europa quale la progettiamo, i suoi valori fondativi, l’identità politica, l’indipendenza, la sicurezza, il suo posto nel mondo? E non è la Libia proprio il test per dimostrare all’elettorato la necessità di una politica estera comune, sorretta da uno strumento militare? Otto anni fa l’Europa dei sacri egoismi devastò la Libia con una guerra neocoloniale. L’Europa moderata proseguì su quella china con un cinismo miserabile. L’Europa sovranista è perfino peggiore. Ma l’Europa europeista può emendarsi restituendo la libertà ai migranti prigionieri, la patria ai libici, un futuro a se stessa.
GUIDO RAMPOLDI
da il manifesto.it
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