La dimostrazione dell’ormai consolidata conformità del Partito Democratico tanto al sistema economico quanto a quello istituzionale che ne è riferimento in tutto e per tutto, è data in queste settimane dall’esempio lampante che riguarda il referendum costituzionale sul taglio del Parlamento. Se la nascita del PD è stata l’atto di inizio di una riformulazione degli assetti politici, questa trasformazione culturale, sociale e politica esclusivamente italiana oggi è approdata ad un nuovo grado di sviluppo: la compatibilità non solo meramente tattica su piattaforme di governo, bensì la ricerca di una condivisione anche ideale dei programmi scritti a due mani con i Cinquestelle per avere l’accesso a Palazzo Chigi.
L’assenso al taglio del Parlamento, dichiarato da Zingaretti, non ha però tracciato una linearità nell’adattamento di tutto il suo partito alla linea innovatrice che mette in discussione le precedenti espressioni di voto nelle Camere sulla riforma caldamente voluta dai grillini. In fondo, se il partito non è più classe, non è nemmeno acqua e qualcuno fa ancora riferimento alla propria lunga storia riformista che affonda le radici nel socialismo democratico da un lato e nel cattolicesimo di base dall’altro.
La stagione liberista dell’individualismo renziano, che ha tentato di sovvertire lo schema comunitario e collettivo del PD nato con Veltroni, non riesce in questo frangente a rafforzare il compromesso zingarettiano che dice “sì” alla proposta del M5S ma che, allo stesso tempo, deve lasciare libertà di voto a dirigenti ed elettori comuni del partito per rispettare proprio la multiparticolarità culturale, sociale e politica di una forza che non è riconducibile ad un troppo sbrigativo e compromettente accordo di governo.
Larghi settori dell’intellighenzia e del mondo dell’impresa e del lavoro che fa riferimento (o gravitano attorno) al PD, da “la Repubblica” a “L’Espresso“, da “Il Domani” di De Benedetti (che uscirà dal 15 settembre nelle edicole, diretto da Mattia Feltri) a testate cattoliche come “Famiglia cristiana” passando per i grandi nomi come Romano Prodi, amministratori di spicco come Giorgio Gori e dirigenti di partito come Gianni Cuperlo e Matteo Orfini, si sono espressi risolutamente per il NO. E questo è un dato che, preso nel suo insieme, inizia ad avere un certo peso nella tenuta complessiva di un partito che si trova a condividere con il suo principale alleato di governo una modifica della Costituzione a cui, del tutto francamente, non crede.
Soprattutto mancando una riforma elettorale che metta ordine nel disequilibrio che si verrebbe a creare se il Parlamento fosse ridotto di un terzo creando, come primo effetto una ineguale rappresentanza nelle due Camere dei territori.
Archiviata l’epoca renziana di dominio sul PD, ad un certo punto s’era sperato che la nuova gestione di Zingaretti ci avrebbe messo al riparo almeno da tentativi di colpi di mano sulla Costituzione. Invece, l’inclusione nel patto di governo dell’assenso alla sciagurata controriforma grillina, bandiera del Movimento fin dalla sua nascita, emblema fanatizzante e fanatizzato di una falsa rivalsa del potere di un popolo sovrano su istituzioni dispendiose, corrotte e prive di collegamento con la gestione dei beni comuni, ha mostrato tutta la disponibilità del PD, anche di nuovo corso, a cedere su temi dirimenti come la stabilità del potere legislativo, la centralità dell’asse di equilibrio della Repubblica in cambio del ritorno al governo.
Recuperare il ruolo di rappresentanza degli interessi economici dominanti è una competizione “naturale” nel sistema in cui viviamo: l’alternanza oscilla tra chi affianca a quel privilegio un timido riformismo, che contempli le ragioni dei lavoratori senza contrastare troppo quelle padronali, e tra chi impone a tutto tondo il punto di vista del mercato, subordinando i diritti sociali al liberismo più sfrenato e i diritti civili al sovranismo neofascista che bene si sposa con il dominio imprenditoriale e finanziario.
Il PD si colloca, evidentemente, nella prima opzione di alternanza: quella riformista che cede al centro sul piano liberista, salvaguarda – almeno nominalmente – i diritti civili e umani (frutto di una tradizione piuttosto liberale rispetto al pasticciato connubio tra socialdemocrazia e cattolicesimo democratico) e che ora finisce col cedere anche a destra in materia di etica costituzionale e di tenuta delle istituzioni repubblicane.
Se il passaggio da forza riformista di centrosinistra a partito di centro, variabilmente associato ad una connotazione di destra a seconda delle convenzioni dettate dai sommovimenti economici, sociali e politici (nazionali ed internazionali), era già ampiamente dimostrato e noto, quanto meno dalla fine del governo Letta in poi, questa involuzione ulteriore che riguarda il rapporto con il Parlamento è una novità che si inserisce spiacevolmente nel quadro già sufficientemente desolante, appena descritto.
Come sempre, sarebbe utile una risposta popolare, di massa anche a questo tentativo di sovvertimento della democrazia e di indebolimento del massimo organo rappresentativo della tanto sbandierata da tutti “sovranità popolare“.
Un tempo erano veicolo di queste tensioni generali tanto di piazza quanto nelle urne i partiti storici del dopoguerra italiano. Adesso, non potendo più contare su grandi organizzazioni politiche, non potendo nemmeno fare affidamento sulla stessa linea del PD tradotta nell’imbarazzato NO della CGIL corredato, per l’appunto, da un dichiarato “non impegno” nella campagna referendaria, è evidente che possiamo fare affidamento sulle nostre capacità singole e sull’aggregazione spontanea suggerita da gruppi di giovani che comprendono l’importanza della posta in gioco e che si ribellano ai loro stessi apparati di partito, oltre che su vasti settori che variano dal sindacalismo di base ai partiti della sinistra di opposizione, comunista, alle comunità cattoliche di base, all’ANPI e all’ARCI.
Potrebbe sembrare poco, ma non lo è per niente. Soprattutto se ci si confronta con una riforma che parla il linguaggio più sfrontato della demagogia legata a lemmi ormai noti e stranoti: “Meno parlamentari uguale meno costi“, “Meno parlamentari uguale meno corruzione” con tutte le declinazioni sciatte e bislacche che ne derivano e che impestano invece corretti ragionamenti sul funzionamento complesso della macchina democratica.
La preservazione della centralità del Parlamento nella nostra Repubblica può fare conto dunque davvero su forze di popolo, davvero su un salto di qualità nella concretizzazione delle coscienze critiche attraverso un impegno fattivo in queste due settimane che ci separano dall’appuntamento referendario. Siamo chiamati oggi a creare, momentaneamente, un partito di massa che abbia la sua ideologia nella preservazione dei diritti di tutti i cittadini nella garanzia della Costituzione, nell’impedire che un potere risulti subordinato agli altri pur in una cornice di formale mantenimento degli equilibri democratici che uniformano il Paese.
Questo Partito del NO deve essere multicolore, multifunzionale e deve poter accogliere chiunque si riconosca nei valori della Carta del 1948: partendo anzitutto dall’uguaglianza sociale, civile, morale di tutto il popolo. Sapendo che è una battaglia trasversale e che, una volta terminata, questo partito può anche sciogliersi, ricordandosi però di darsi appuntamento ogni volta che torni ad essere minacciata l’integrità democratica della Repubblica.
Questa volta è stato usato il più facile, banale e populista degli argomenti per tentare di vincere sulla Costituzione, contro di essa, contro gli interessi comuni. Per questo la minaccia è concreta, realmente insidiosa e ci invita ad una lotta senza quartiere, quotidiana, fino all’ultimo minuto prima dell’ingresso nei seggi.
MARCO SFERINI
1° settembre 2020
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