Lo scippo di Macron: la sinistra non deve governare!

«Ciascuno sa, in ogni imbroglio di speculazione sulle azioni, che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare ma ciascuno spera che il fulmina cada sulla testa del suo...

«Ciascuno sa, in ogni imbroglio di speculazione sulle azioni, che il temporale una volta o l’altra deve scoppiare ma ciascuno spera che il fulmina cada sulla testa del suo prossimo, e non prima che abbia raccolto e portato al sicuro la pioggia d’oro. Après le deluge! è il motto di ogni capitalista e di ogni nazione capitalista». Così scrive Marx ne “Il Capitale”, nel 1867, riferendosi ai rapporti più finanziari e borsistici in relazione alle miserevoli condizioni del proletariato di allora.

Se riportiamo le sue parole oggi nel contesto dell’Europa dei “paper” di Mario Draghi e delle scelte macroniane di governo della Francia umiliata del suo voto politico, risulta piuttosto evidente come la competizione tra le grandi industrie, le grandi concentrazioni di affarismi privi di qualunque scrupolo, si invera proprio nella quintessenza che esprime tramite la facilità della ripresa delle produzioni in un Vecchio continente in cui è l’economia di guerra a dominare le sorti di ogni singolo Stato.

L’asse franco-tedesco scricchiola sotto il peso del lungo tempo di un conflitto che permane, che si inasprisce e che vede Kiev alle corde di un ring in cui i pugilatori sono suonati, ma uno, nonostante gli aiuti internazionali nordatlantici pressoché incommensurabili, pare più prossimo a cadere rispetto all’altro. E non è la Russia di Putin. La controversia sulla dicotomia democrazia-oligarchia è, a questo punto, se non irrilevante, quanto meno posta sullo sfondo rispetto al dominio della scena da parte dei veri motivi della guerra.

Se ne è già ampiamente scritto e tuttavia si può ribadire: si scontrano due imperialismi dentro il contesto di un multipolarismo rinascente che archivia il sogno unipolare statunitese, rotto dal giganteggiare cinese, dalla ripresa della potenza russa, dagli accordi BRICS tra chi si oppone allo strapotere americani; da un riposizionamento geopolitico e militare globale nei varii teatri di conflitto un po’ permanente del mondo: dalla Nuova Russia alla Palestina, passando per le tante crisi africane, le destabilizzazioni dell’America Latina e le esercitazioni militari attorno a Taiwan.

Marx scrive che la concorrenza è spietata e che i capitalisti sanno che, prima o poi, il sistema delle merci e dei profitti si troverà nella condizione di affrontare delle crisi che ricadranno come fulmini su qualcuno di loro e, molto più perniciosamente sulla grande massa dei salariati, dei lavoratori dipendenti, precari, di chi già sopravvive a stento giorno dopo giorno. Sembra davvero un resoconto attinto dalla strettissima attualità dei fatti europei. Il lamento draghiano per un continente che deve uniformarsi al fattore bellico è l’ultima delle giaculatorie.

La crisi delle forze politiche di centro, che hanno sempre garantito la protezione politica dei capitali e dei grandi interessi finanziari, rassicurando le confindustrie di ogni paese, compresa la Medef francese, spinge Macron alla violazione dei princìpi fondanti la democrazia repubblicana, violando il patto con il popolo francese che ha chiamato al voto in fretta e furia dopo il tracollo subìto alle elezioni europee di giugno.

I maneggi del presidente sembrano non finire mai e, soprattutto, ogni tentativo susseguente apre una falla peggiore dell’esito del precedente. Perde sonoramente al rinnovo della propria compagine al Parlamento di Strasburgo, non ha più una maggioranza in patria e allora, la sera stessa, in diretta televisiva annuncia che scioglie l’Assemblea nazionale e convoca nuove elezioni. Ma non ottiene nessuna maggioranza.

La Francia si divide tra lepenisti e frontisti popolari: i primi rischiano di porre un’ipoteca autoritaria sulle politiche liberiste che, contrariamente alle loro parole di vicinanza alla povera gente, accarezzano pelosamente; i secondi sono quella sinistra che, se al governo della République, attuerebbero una redistribuzione della ricchezza e una abolizione della riforma pensionistica viste entrambe con orrore dal padronato.

Così si forma il “fronte repubblicano” e Macron ingoia ma, al contempo, sa di poter ottenere deputati in più grazie alla generosità degli elettori di sinistra, pronti alla desistenza, al votare anche un centrista liberista pur di sbarrare la strada al moderno neofascismo lepenista. Il fronte tiene e le sinistre sono la prima forza della nazione. Un risultato che, se onorato in tal senso dall’Eliseo, dovrebbe condurre alla nomina di un primo ministro indicato dal Nuovo Fronte Popolare.

Ma passano oltre cinquanta giorni e ci ritroviamo con la messa al bando di coloro che hanno vinto al secondo turno, con la nomina a capo del nuovo governo di un settantenne gollista che strizza l’occhio al Rassemblement National cui Macron guarda come elemento di tenuta e di garanzia delle politiche liberiste in cambio di qualche concessione sui grandi temi propagandistici dell’estrema destra. Questo non è solamente un tradimento della volontà elettorale, ma è un vero e proprio atto eversivo contro la Repubblica francese.

Rientra, però, perfettamente nei parametri della coerenza degli affaristi che si esprimeno attraverso le mosse politiche e gli scritti dei grandi interpreti del capitalismo continentale: l’esigenza di affidare il compito di formare il nuovo esecutivo su una più ampia maggioranza possibile, sapendo di escludere così quasi a priori tutte le forze componenti il NFP, ad un uomo marcatamente conservatore in quanto a valori civili e innovatore (nel senso più deteriore del termine) in quanto a diritti sociali.

Michel Barnier è questo: un repubblicano di destra che piace a Macron per la sua fedeltà europeista e che può piacere a Marine Le Pen e Jordan Bardella per la smaccata tendenza ad essere ostile tanto all’immigrazione quanto ai diritti civili. Pare del tutto evidente che l’inquilino dell’Eliseo non gli avrebbe conferito la nomina, in spregio al risultato elettorale e in aperta violazione delle più elementari, laiche e repubblicane regole del confronto democratico, se non avesse avuto la quasi certezza di un accordo in tasca con il RN uscito battuto dal secondo turno delle urne.

Se non è un colpo di Stato, poco ci manca. E fanno bene le sinistre ad inalberarsi e a convocare manifestazioni di piazza. La risposta popolare, per lo meno in Francia, è sempre stata energicamente continuativa e difficile da spegnere con flebili dichiarazioni e promesse di comodo biascicate in televisione dopo i primi disordini: avvenne così per la rivolta dei camionisti e fu così per i gilet jaune.

Macron, esagerando, non accettando la sconfitta triplice subita nelle cabine elettorali, ha oltrepassato quel confine che mai era stato possibile superare: non prendere in considerazione chi ha prevalso, chi ha avuto alla fine più voti di altri, nonostante al primo turno la forza parlamentare delle destre bardelliane fosse piuttosto imponente. Rischiare di mettere a repentaglio l’argine di contenimento dei privilegi padronali e delle grandi categorie produttive (e profittatrici) era e rimarrà troppo.

Caso mai qualcuno non se ne fosse accorto, Emmanuel Macron si è mostrato oggi in tutta la sua naturale afferenza con quel mondo imprenditoriale che sovrasta la Francia dall’alto del rivingorimento datogli dalla cinica economia di guerra, mentre i salari ribassano, le pensioni languiscono e la precarietà aumenta a dismisura. Così, Les Républicains, umiliati dall’esito elettorale, con una quarantina di depuati avranno il primo ministro; mentre il Nuovo Fronte Popolare, con quasi centottanta rappresentanti, non potrà esprimersi in questa importante storica occasione.

La sinistra viene fermata dalla guardia presidenziale sulla soglia dell’Hotel Matignon: da dove ne esce un giovanissimo Attal e ne entra un vetusto rappresentante di una governabilità europea dedita alla preservazione del privilegio come linea di condotta compromissoria tra centro e destra. Ma la gauche non deve governare. Barnier garantirà la continuità della macronie ma con una ipoteca lepenista applicata come bollo di garanzia di una legilstura che, qualora dovesse durare, sarà il punto di coesistenza e simbiosi tra il peggio delle politiche liberiste e il peggio di quelle sovraniste.

La crisi francese, di questi cinquanta giorni nel deserto l’uno dell’altro, è la dimostrazione che i gruppi dirigenti dell’economia tanto nazionale quanto europea stanno cercando una nuova connotazione e riconoscibilità squisitamente politica per affidare alle deboli istituzioni continentali la gestione di una fase di instabilità che si preannuncerebbe ancora più eclatante e dirompente se tra est ed oveste dell’Unione si aprisse una contesa sul terreno delle identità nazionali.

Il capitalismo ha bisogno di oltrepassare i confini degli Stati nazionali ma, nella stessa misura e modo in cui lo fa, deve assicurarsi una competizione che solo le ristrette economie “locali” entro il contesto europeo, possono garantirgli. Senza questa tensione competitiva non c’è lo stimolo per fronteggiare i giganti d’Oltreoceano e quelli della nuova via della Seta in Asia. Il futuro governo Barnier è, in questo senso, già una garanzia: il nuovo primo ministro è un convinto assertore dell’andare in pensione a sessantacinque anni. Ed è un fiero oppositore dei diritti LGBTQIA+.

Ha la fama di essere pragmatico e poco ideologico, perché ha condotto i negoziati sulla Brexit con successo (per quanto riguarda ovviamente il punto di vista di Bruxelles…) e quindi sta a metà tra il tecnico e il politico. Ed è sicuro che, senza smentire i suoi predecessori macroniani, proseguirà nella rimodulazione dei conti pubblici, tagliando la spesa sociale per riequilibrare un debito che è sotto procedimento di infrazione da parte della UE.

A pagarne il salato conto saranno ovviamente i servizi sociali, quindi la stragrande maggioranza di quel popolo francese che ha votato anche per Le Pen e Bardella pensando ad un cambiamento e che, con tutta probabilità, troverà il partito sovranista e neofascista nella “coalizione più larga” possibile auspicata dall’Eliseo.

Se, da un lato, la mossa di Macron è indice di una disperazione che cresce nel rapporto ormai lacero con il proprio elettorato e con la stragrande maggioranza del popolo francese, dall’altro lato è l’esibizione di una arroganza e di una protervia che non possono essere accettate passivamente. Non solo contraddicono la linearità del processo democratico e costituzionale nella formazione del governo, ma danno al Presidente della Repubblica una facoltà che non possiede: di nominare, ma non di scegliere un primo ministro.

Qui, invece, si capovolgono i dati elettorali, si disprezza il fronte repubblicano, ci si appropria dei voti della sinistra dati alla destra moderata macroniana per battere quella lepenista e bardelliana e, in virtù di tutto ciò, si forma un governo antipopolare, filopadronale, nemico della povera gente, avversario di ogni disagio sociale.

I giornali si domandano: che senso ha a questo punto votare?  Il tema dell'”elezione rubata” risuona, e più che giustamente, nelle prime manifestazioni di piazza. Sarà presente sui cartelli tanto del Nuovo Fronte Popolare nei prossimi giorni quanto in quelli delle manifestazioni sindacali indette ai primi di ottobre. La traversata nel deserto non è finita per la Francia della macronie che vuole durare e arrivare al 2027 (data delle prossime presidenziali…).

Ma l’arsura della sete la sentiranno i poveri e meni fortunati, gli sfruttati di ieri e di oggi. Non certo i confindustriali e gli speculatori finanziari che oggi plaudono alla scelta del Presidente. Una scelta che la Francia pagherà cara, incanalando la rabbia popolare ancora di più verso destra, proprio mentre la destra, infingardamente, si accinge a sostenere un governo di lacrime e sangue.

MARCO SFERINI

6 settembre 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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