Nel libro 21 delle sue Storie, Livio racconta come all’inizio della seconda guerra punica, durante la battaglia del Ticino, un giovanissimo Publio Cornelio Scipione, futuro Africano, si tuffò in acqua e salvò il padre, ferito in combattimento. L’aneddoto è concluso da un intervento di Livio, che ricorda al lettore che sarà proprio questo Scipione il fatalis dux, il comandante inviato dai Fati che condurrà Roma alla vittoria. Sette anni dopo, Scipione viene eletto comandante del fronte spagnolo, a soli ventiquattro anni e senza alcuna esperienza di comando; in quell’occasione Livio spiega come quell’exploit sia stato determinato dal mito personale che il giovane si era costruito presso le masse, alimentando false dicerie sul suo rapporto privilegiato con gli dèi e su suoi supposti poteri oracolari. Il seguito del racconto offre molti esempi di quest’opera propagandistica, che trasforma fenomeni naturali in miracoli, informazioni di intelligence in segni del Fato. Nel lettore si insinua così il dubbio: davvero Scipione è stato il comandante della provvidenza? O Livio ci sta forse suggerendo che la sua fama di fatalis dux potrebbe non essere altro che il risultato di una scaltra opera di promozione personale?
La vasta opera di Livio è costellata di interrogativi irrisolti come questi, di ambiguità e inquietudini che solo in anni recenti la critica ha cominciato a illuminare. Tito Livio ha sempre goduto e insieme sofferto gli effetti di una statica gloria ‘scolastica’. Il denso stile narrativo, la ricchezza della lingua, lo slancio morale degli episodi più celebri lo hanno reso il perfetto autore «da manuale», lo storico «esemplare», fonte sommersa di gran parte del nostro immaginario collettivo sulla Roma repubblicana, saldamente ancorato a figure come Romolo, Orazio Coclite, Muzio Scevola e così via. Livio l’amico di Augusto ma nostalgico della repubblica, Livio della patavinitas e del romanocentrismo.
Prospettive viziate
Paradossalmente, a questo radicamento nella memoria e nei curricula scolastici non è corrisposto nel mondo degli studi specialistici un altrettanto vivace approfondimento scientifico. Livio è, fino agli anni novanta del Novecento, un autore sorprendentemente poco studiato. O, meglio, studiato secondo prospettive viziate da pregiudizi che hanno lasciato la critica liviana ai margini dell’evoluzione metodologica vissuta dagli studi di letteratura antica nel secolo scorso. Gli Ab urbe condita libri sono una fonte vitale per molte aree dell’antichistica: filologi e storici, archeologi e giusromanisti da sempre ne attraversano le vastità traendo informazioni vitali per i rispettivi campi di indagine. Ma il loro valore in quanto opera storiografica e la statura intellettuale del loro autore sono stati a lungo sottovalutati: Livio è stato ritenuto uno storico disattento e naïf, dedito più che altro a tagliare e cucire pezzi di fonti senza un reale vaglio critico. La critica non ha esitato a riconoscere le sue abilità di retore e narratore, ma ha spesso considerato il suo punto di vista storiografico poco degno di nota e severamente limitato dal noto moralismo filoromano. Questi pregiudizi, credo, hanno a lungo dissuaso i critici dall’impegnarsi in uno studio approfondito dei caratteri intrinseci dell’opera, che andasse al di là dell’analisi stilistica o della desunzione di dati utili alla ricostruzione storico-archeologica (non mancano, ovviamente, vistose eccezioni, ancora oggi illuminanti per completezza e profondità di indagine).
Ma gli ultimi trent’anni hanno visto un’evoluzione radicale e generalizzata nell’approccio critico all’opera liviana, derivante, credo, dal mutamento dei presupposti metodologici, tanto degli studi storici quanto di quelli filologico-letterari. Nel primo ambito si è smesso di misurare l’opera di Livio secondo gli standard della moderna storiografia o di quelle opere antiche che ai nostri occhi più si avvicinano al metodo storico-scientifico odierno, volgendosi piuttosto a una più precisa comprensione dei fondamenti programmatici della storiografia liviana, che soli possono illuminare i meccanismi più profondi dell’opera. I secondi hanno superato un approccio puramente retorico-stilistico, in favore di una concezione ‘olistica’ del testo, in cui forma e contenuto, contenuto narrativo ma anche dato storico, si influenzano e determinano reciprocamente.
Gli Ab urbe condita libri si rivelano così non soltanto un grande monumento della letteratura latina, ma soprattutto un oggetto di studio di enorme complessità, di fronte al quale l’applicazione delle più avanzate metodologie di indagine – narratologia, intertestualità, reader-response criticism – si rivela proficua e, direi, necessaria. Nei tre ambiti appena citati si muove oggi la critica liviana più produttiva, che ci restituisce un’immagine dell’autore ben lontana dallo storico ingenuo e un po’ sbadato delineato nei decenni passati: Livio emerge, al contrario, come un narratore estremamente consapevole, a tratti smaliziato, capace di far interagire nel proprio resoconto una grande quantità di istanze letterarie, storiche e culturali.
Sgomberato il campo dalla fama di storico «taglia e cuci», gli studiosi hanno potuto verificare la sua abilità nel rielaborare le fonti alla luce di un preciso credo storiografico, e di tessere all’interno della propria opera un’intricata rete di richiami inter- e intratestuali, grazie ai quali il lettore è chiamato a orientarsi nel racconto e a dotarlo di senso. La stessa complessità comincia a essere ravvisata nel punto di vista di Livio sulla storia romana: giudicato in passato una mera celebrazione della potenza di Roma sui popoli, a una più attenta analisi si rivela sorprendentemente sensibile nel cogliere i processi evolutivi, anche traumatici, che hanno segnato la storia della repubblica, primo fra tutti l’imporsi di una politica imperialistica spregiudicata.
Morale ed esemplare
La stessa natura «morale» ed «esemplare» della storiografia liviana, annunciata dall’autore fin dalla Praefatio, è stata oggetto di studi approfonditi che ne hanno precisato i termini: più che mera pedagogia patriottica, una lente attraverso la quale rappresentare gli eventi e mostrare al lettore i processi incessanti attraverso i quali gli attori della Storia fanno propri modelli passati e li riplasmano. In questo senso Livio non offre semplicemente una galleria di exempla da imitare o da evitare, ma illumina i meccanismi che regolano i fenomeni storici nel loro concreto farsi, in una narrazione non monolitica, ma attraversata da forze endogene potenti, che creano crepe, faglie, linee di frizione. La storiografia liviana perde così i tratti più rassicuranti del racconto apologetico, e si impone come articolata rappresentazione del potere politico e militare di Roma, visto in tutta la sua grandezza e ambiguità.
Da qui la difficoltà a dirimere l’eterno problema dell’aderenza di Livio al programma politico-culturale di Augusto, nel cui ambito i sostenitori dell’una e dell’altra ipotesi – un Livio storico di regime o di opposizione repubblicana– devono fare i conti con argomenti contraddittòri. Da un lato i riferimenti all’opera politica di Augusto, dall’altro il disprezzo verso la contemporaneità, che stride con l’idea di una celebrazione del nuovo ordine del princeps. Anche in questo caso, arroccarsi su posizioni esclusive non giova alla comprensione della figura di Livio. Più proficuo sarebbe forse concepire il problema in termini discorsivi: verificare se è in che misura Livio possa essere stato un interlocutore del potere augusteo, il rappresentante cioè di istanze culturali con cui il princeps doveva confrontarsi per dare forma e legittimità al proprio programma.
LUCA BELTRAMINI
foto tratta da Wikimedia Commons