Per quanto ci si affanni a farne un partito unico, quello dell’astensionismo è una ormai metà dell’elettorato in cui sono, soprattutto dopo le elezioni regionali in Emilia Romagna e Umbria, collocati anche settori di un centrodestra che convince poco, di una atavica forma di rifiuto un po’ anarchicheggiante, di una sinistra certamente disillusa e in attesa che, da un lato si abbandoni la voglia di gestione delle compromissioni tra grandi ricchezze e governismo, dall’altro si esca dal minoritarismo settario in cui rischia di finire (letteralmente) quella di alternativa.
Ma la percentuale degli astensionisti sale vertiginosamente: in cinque anni – se prendiamo il dato emiliano romagnolo, si passa dal 67,7% al 46,4%. Ventuno elettori in meno ogni cento. Un crollo partecipativo esorbitante, persino difficile da esaminare, perché è un dato davvero macroscopico su cui forse non serve nemmeno più riflettere: le cause sono ormai evidenti e attengono tutte, o quasi, ad un rapporto tra la crisi economica che si ripercuote sul mondo del lavoro, della diffusissima precarizzazione dello stesso e sulle tante, troppe inefficienze di una rete di servizi sociali e di base che dovrebbero essere diritti fondamentali di ognuno e di tutti.
La sconfitta delle destre in Umbria viene interpretata dalla Presidente uscente Tesei come il prodotto di un energico intervento della sua amministrazione regionale nei confronti soprattutto della sanità; salvo poi implementare questa parziale autocritica con un rovesciamento delle colpe sulla crisi pandemica e sulle ristrettezze causate proprio dalle contingenze, provando quindi a salvarsi in un calcio d’angolo fischiato così a fine partita da non permettergli nemmeno di terminare in una azione concreta e vincente.
Il dato umbro sulla partecipazione al voto è meno impattante rispetto a quello emiliano romagnolo, ma è pur sempre rimarchevole: cinque anni fa era andato a votare il 64,7% dell’elettorato, oggi si reca alle urne solamente il 52,3%. Il superamento della soglia psicologica della metà degli aventi diritto non può e non deve essere un alibi sufficiente a distrarre dalla considerazione prima: la democrazia non sarà forse in pericolo, perché i suoi anticorpi sono ancora effettivamente solidi, ma di questo passo ogni amministrazione locale, e persino il Parlamento e l’espressione della maggioranza di governo, saranno il frutto di minoranze sempre più esigue.
Se per democrazia si intende una ampia partecipazione alle decisioni e alla formazione della politica della nazione, allora non è difficile stabilire una equazione infelice tra diminuzione drastica del corpo elettorale attivo e deperimento progressivo delle istanze di garanzia reciproche tra i poteri dello Stato, tra centro e periferia, nella più vera e realistica espressione fattuale dei princìpi su cui si deve fondare ancora la laicità repubblicana, la comunità popolare. Presa consapevolezza di tutto ciò, si può fare qualche considerazione nel merito del voto che, per quanto ridimensionato nella sua portata quantitativa, tuttavia non deve essere considerato sfavorevolmente in quella qualitativa.
Chi vota ha ragione come chi non vota. Ma chi si astiene dall’esprimersi rischia di delegare oltremodo, di lasciare agli altri la propria volontà, pensando così di esercitare un diritto, mentre non fa altro se non estraniarsi da un dovere che, per poter essere davvero percepito come tale, dovrebbe avere come contropartita da parte delle istituzioni e della Politica (con la pi maiuscola) un riscontro oggettivo e concreto in termini di miglioramento della vita, per una uscita dai tanti stati di sopravvivenza nella crisi multilivello del multipolarismo globale e locale.
Partiamo dal bipolarismo come dato evidente tanto quanto l’astensionismo. Scorrendo dati e percentuali delle ultime elezioni regionali, dalla Sardegna fino ad oggi, la tendenza sembra consolidarsi: la destra raccoglie tutto quello che può per ottenere conferme del suo radicamento sociale e interclassista, mentre il centrosinistra rimane insieme in mezzo a mille litigi, diatribe e contrasti grazie a collanti che funzionano lì per lì, senza la garanzia di una durevolezza piuttosto lunga nel tempo. Va detto che la coesione trovata in Umbria sembra molto più ampia e solida rispetto a quella emiliano romagnola.
Ma poi, alla fine, sono i risultati che contano. E i numeri parlano chiaro: l’onda lunga della tradizione di sinistra non è del tutto stata spazzata via dalla invereconda, sempre meno risibile ascesa delle destre estreme eredi del missinaggio rinverdito sotto nemmeno tante mentite spoglie. La doppietta spiazza anche i giornali di destra che devono registrare l’affanno delle forze di opposizione in Emilia Romagna e la ingloriosa caduta della Tesei dopo un lustro passato all’ombra del nume tutelare salviniano, nel frattempo surclassato dal melonismo imperante.
Concorrono fattori diversi a determinare la vittoria del centrosinistra: la mancata partecipazione al voto di settori sociali che guardano a destra e che sono insoddisfatte dei risultati ottenuti dal governo sul piano nazionale, soprattutto in relazione agli interventi per la tutela di territori sempre più fragili, dove le avversità naturali imperversano e devastano l’antropizzazione umana; la marcata vicinanza ad elementi gretti, teppistici di un estremismo neofascista che, nonostante la parata delle camicie nere, non risuscita predappiani rigurgiti nostalgici e non incrementa i consensi.
Così come, nel caso umbro, il bandecchismo non porta un valore aggiunto alla coalizione a cui si è abbarbicato con qualche “insignificante” contraddizione interna: a Terni Fratelli d’Italia è all’opposizione dell’amministrazione del sindaco – imprenditore che si lancia in muscolari esercizi verbali in cui gli insulti sono la normalità dell’anti-dialogo in consiglio comunale e dove le risse sono all’ordine del giorno. Provare ad imitare Donald Trump non sempre è utile e, soprattutto, non è la garanzia della nascita di fenomeni MAGA anche da noi: ci sono già originali e innumerevoli tentativi di imitazione. La Lega medesima in queste elezioni fa altri passi indietro.
E li fa nonostante la presenza di Salvini in una campagna elettorale in cui sull’Umbria i carrociani nazionalisti puntavano sulla bontà di una amministrazione che, evidentemente, persino gli elettori di destra non hanno riconosciuto in quanto tale, visto che Terni e provincia è, tra le due della regione cuore d’Italia, quella con la maggiore percentuale di astensioni. La competizione internamente alla coalizione reazionaria e populista si fa serrata e, per la prima volta dopo due anni e mezzo, fa segnare il passo al governo che ora deve fermarsi a riflettere.
Troppo presto per dichiarare in discesa progressiva il melonismo: la Presidente del Consiglio ha molte frecce al suo arco e non è sprovveduta al punto da lasciarsi logorare come alcuni suoi predecessori. Dalla sua ha i sondaggi, le percentuali di maggioranza relativa del suo partito e una dipendenza di gran parte delle cariche dello Stato dalla sua area di consenso e fiducia personale. Non siamo ai livelli del cerchio magico, ma poco davvero ci manca. Dall’altra parte, invece, si inizia forse a ragionare su un consolidamento dell’area del campo progressista. Anche se i disappunti non tardano ad emergere.
Il PD non può che essere soddisfatto dei suoi risultati. I Cinquestelle meno: ogni elezione regionale per loro è la puntualissima conferma della debolezza proprio strutturale di una organizzazione che, infatti, non c’è, non è presente nei territori perché non ha mai perseguito quel radicamento sociale e politico che, invece, la sinistra, pure con tutte le trasformazioni operate e subite in questi decenni, ha in una certa maniera conservato come eredità antropologica di un passato in cui ad ogni campanile doveva corrispondere una sezione di partito.
Quale ripercussione potrà avere tutto questo nel dibattito interno della costituente pentastellata è un enigma che si potrà sciogliere comunque a breve. Le tesi potranno essere uguali e contrarie o diversamente affini: qualcuno sosterrà che il movimento ex grillino deve abbandonare il campo largo perché ne resta imbrigliato e schiacciato dalla preponderanza democratica; qualcun altro invece propenderà a considerare come ineludibile il fatto che ormai la scelta è stata fatta e la collocazione nell’alveo della sinistra-centro è cosa fatta e capo ha.
Fatte tutte le considerazioni del caso, la ricaduta del doppio voto regionale del centro Italia entra come un cuneo disarticolatore delle già aspre polemiche nella maggioranza di governo sulla tenuta delle tre “grandi” riforme bloccate per differenti vie e per ragioni altrettanto diverse: il premierato che sonnecchia, l’autonomia differenziata svuotata nel suo essere dalla Consulta e la riforma della giustizia di Nordio che inciampa ogni tre per due. Soltanto Giorgia Meloni giganteggia di fronte agli alleati e può permettersi il ruolo tanto della mediatrice quanto del capo di un esecutivo che inizia a segnare il passo.
A guardarla da una giusta distanza, oltre ogni coinvolgimento anche critico, sembra la parabola consueta di una politica italiana in cui i cicli di riforme non durano più di due anni e qualche mese. È la sorte toccata un po’ a tutti i governi, politici e tecnici che fossero, compreso quello di Mario Draghi. Non è nemmeno possibile invocare un parziale alibi della crisi internazionale, perché le scelte della coalizione della destra-destra sono state tutte improntate ad assecondare le più rovinose pietre angolari di questo multiverso di una politica che incespica nelle contraddizioni di un liberismo che non è contenibile con finti protezionismi.
Un’ultima considerazione sulla sinistra di alternativa. In Emilia Romagna: Rifondazione Comunista, Potere al Popolo! e PCI si presentano nel trittico già visto in Liguria. Il risultato è, ovviamente, l’irrilevanza. Pur avendo aumentato i voti rispetto a cinque anni prima, quando venne eletto Stefano Bonaccini alla presidenza della Regione, l’1,8% (imparagonabile persino alle percentuali da prefisso telefonico della Liguria) è, a fronte del grande lavoro fatto da militanti e candidati, un risultato che colloca la cosiddetta “alternativa ai poli” in una marginalità oggettiva.
Quanto meno, il risultato ottenuto dalla lista “Umbria per la sanità pubblica“, entro la coalizione progressista guidata da Stefania Proietti, porta con sé il pregio di aver contribuito a scalzare le destre dalla Regione, pur non avendo eletto nessun rappresentante in Consiglio (ma la competizione con Alleanza Verdi e Sinistra, soprattutto in questo caso, si è fatta sentire anche nei confronti di AVS stessa che, infatti, a ha diminuito i propri voti rispetto alle tornate precedenti).
Quale soluzione adottare? Evitare le tentazioni di entrismo di matrice governista (alla Fratoianni-Bonelli) e quelle di creazione di un polo dell’alternativa che non intenda prendere in considerazione le differenze esistenti tra destra-destra e campo progressista. In entrambi i casi si perde di vista l’obiettivo tattico, di far valere le ragioni del mondo dei più deboli, sfruttati e vessati dalle politiche di taglio dei servizi elementari, delle infrastrutture e della tutela del patrimonio ambientale, unitamente ad una strategia di ricollocazione della sinistra di alternativa in uno scenario bipolare che occorre impedire diventi bipartitico.
In quel caso, il grande problema dell’astensionismo elettorale sarebbe ancora più marcatamente rilevabile e aprirebbe la via ad un impedimento persino formale della partecipazione al voto per qualunque minoranza. Compito della sinistra di alternativa è quello di unire le lotte e di affrontare prima la questione dello scalzamento del governo Meloni dalla guida del Paese e poi i rapporti interni al fronte di una alleanza democratica e popolare, antifascista e anche antiliberista. Se quel pizzico di antiliberismo possiamo essere noi comunisti, perché non farne parte?
MARCO SFERINI
19 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria