Il censimento annuale dell’ISTAT fotografa una Italia demograficamente stabile: nessuna crescita della popolazione; praticamente si conferma il calo degli anni precedenti. E’ dal 2018 che non siamo più 60 milioni di cittadini ma 59 milioni e 800 mila circa. A smentita totale della presunta e presuntuosa “invasione” dei migranti, arrivano altri dati che chiariscono come non esista nemmeno una compensazione nel calo della popolazione con l’arrivo dei cosiddetti “stranieri“.
L’aumento di questi ultimi si evidenzia solo in relazione alla diminuzione dei residenti autoctoni. Le variazioni sono minime e subiscono leggere oscillazioni che mostrano una costante di diversità tra Sud del Paese e Centro-Nord. La fisionomia strutturale resta nel solco storico dello sviluppo a due velocità di una Italia dove le cosiddette “eccellenze” rimangono al Nord e dove la fatica di sopravvivere permane essenzialmente al Mezzogiorno.
La popolazione invecchia sempre più e l’indice relativo all’età media degli italiani sale ai 45 anni, mentre aumenta il divario tra chi possiede un titolo di studio qualificato (laurea, diploma) e chi si è fermato alla terza media: tra questi ultimi la percentuale riguarda la metà della popolazione. Il problema culturale è, come si può ben vedere, un problema profondamente radicato nell’anti-sociale, nella diffusione di una serie di differenze di classe che sono sempre più marcate e che le politiche di nessun governo hanno modificato nel tempo con una serie di riforme che sarebbero occorse per evitare – ad esempio – di ritornare ad avere quasi un 5% di analfabeti o di alfabetizzati privi di qualunque titolo di studio.
La decrescita culturale italiana può sembrare apparentemente un elemento trascurabile, di secondo piano rispetto ai problemi tangibili, riscontrabili nelle tasche di milioni di persone. Invece si tratta di dato allarmante, che coinvolge diversi e simbiotici aspetti della vita quotidiana di ognuno di noi: dalle carenze del nostro sistema scolastico alla divulgazione delle informazioni attraverso programmi televisivi e forme di comunicazione che, il più delle volte, risultano troppo poco dediti all’approfondimento, fermi alla superficie dei fatti.
Il censimento annuale dell’ISTAT mette in risalto la diseguaglianza sociale attraverso l’impoverimento demografico e scolastico di generazioni che, soprattutto al Sud, lasciano i territori e provano a cercare una moderna e tanto più precaria “fortuna” nelle regioni settentrionali e, in larga misura, anche oltre confine. E’ il solito discorso sulla cosiddetta “fuga dei cervelli“, perché, se è vero che il 50% degli italiani ha appena la terza media come strumento conoscitivo per affrontare una complessità della vita sempre più inestrinsecabile, è altrettanto vero il fatto che tra i laureati e i diplomati invece la tendenza è inversa: i corsi di studio vengono completati da più studenti rispetto all’anno scorso e al decennio che si chiude.
Anche chi si ferma a gradi scolastici inferiori, come elementari e medie, è in numero maggiore oggi, nell’anno orribile del coronavirus, rispetto all’arco temporale che fa data dal 2011. Soddisfazioni e delusioni vanno a braccetto perché laddove aumentano gli scolarizzati dell’obbligo, lì si fermano e non proseguono. Un tempo si sarebbe chiamata “selezione di classe“, adesso queste analisi demografiche e sociologiche sembrano dover servire solamente a dare una istantanea del Paese senza riflettere sulle cause ben a monte di un disastro plurigenerazionale che non accenna a conoscere una inversione di tendenza.
Le politiche antisociali di decenni a questa parte hanno creato le condizioni di resistenza all’aumento della popolazione, mentre quelle di scarsissimo investimento nelle infrastrutture e strutture scolastiche hanno determinato l’impoverimento culturale del Paese e causato la generazione di un ritorno ad una analfabetismo di massa che è all’origine di tanto pressapochismo e menefreghismo individualista nell’affrontare i grandi temi della complessa modernità di una globalizzazione interattiva e non solamente internettiana, ma proprio umana, animale e ambientale.
L’incomprensione diffusa dei grandi problemi sociali del nostro tempo non è frutto del caso o di un capriccioso atteggiamento di larga parte della popolazione: la vivibilità della vita si è fatta sempre più difficile, oscillante tra compromessi che hanno messo ciascuno di noi davanti a dilemmi di scelta sulla base delle proprie capacità economiche. Sacrificando gran parte dei legittimi desideri, si è puntato sulla tutela della propria salute e sulla preservazione delle garanzie che ne sono alla base: il salario, la pensione.
Oggi queste parole, che individuano non dei semplici concetti astratti ma dei concreti diritti che tali dovrebbero essere, garantiti dalla Costituzione, dalla Legge 300, dal diritto pensionistico, vengono ridotti a trincea difensiva di una socialità che è costantemente sotto attacco da parte del privato che fagocita ogni settore pubblico, si insinua nelle maglie dei grandi interessi di Stato nei confronti della popolazione e riduce tutto, ma proprio tutto a merce di scambio: la professionalità del medico in cambio del denaro, oltre il giuramento di Ippocrate, in aperta concorrenza con sempre più grandi aziende sanitarie che ricevono sovvenzioni dalle regioni che differenziano i trattamenti a seconda del grado di sviluppo economico.
La vera separazione in caste è oggi questa: censitaria, tutta incistata nella profondità dell’affarismo a buon mercato, sempre più marcatamente lontana e sfuggente ai valori di uguaglianza di trattamento morale, civile e sociale garantito dall’articolo 3 della Carta fondamentale della nostra Repubblica.
Tutte le traversie antisociali rilevate dall’ISTAT non devono, dunque, meravigliare troppo: ma devono indignare, con una pesantezza d’animo e di coscienza che non sarà certo sufficiente a smuovere fenomeni incancreniti di distrazione delle risorse pubbliche dal pubblico stesso; ma che, almeno, porrà la questione – almeno lo si spera – nello scemare della pandemia e nella sua fase finale, di una rimodulazione tanto dei poteri attualmente detenuti dalle regioni e, più generalmente, nella riformulazione del Titolo V della Costituzione.
Le diseguaglianze possono formalmente, ed in un certo qual modo anche sostanzialmente, sperare di attenuarsi solo se si creano i presupposti per evitare che a monte nascano differenziazioni tali da impedire lo sviluppo dell’individuo, del cittadino tale da consentirgli di maturare le condizioni per riappropriarsi di una coscienza critica.
Unico motore possibile per diffondere l’alterità rispetto al sistema economico in cui viviamo, creare le condizioni per una nuova movimentazione di massa che sia la propulsione necessaria ad una rinascita della giustizia sociale, per una lotta anticapitalista da fare anche in Italia, sbugiardando tutte le fandonie sovraniste e le false promesse di benessere esclusivamente legato all’autoctonia e alla discendenza dalle romane generazioni.
MARCO SFERINI
19 dicembre 2020