Quando una crisi internazionale diviene tale, si ramifica e assume tutte le connotazioni di un potenziale conflitto bellico, è naturale che si schierino non soltanto le forze in campo ma che si schieri soprattutto l’opinione pubblica.
Di altro non si tratta se non dell’eterodirezionalità con cui grandi testate giornalistiche e grandi gruppi televisivi (nonché tutto il caravanserraglio dei “social network“) dirigono il pensiero delle persone e creano un comune sentimenti di condivisione o di avversione rispetto ad uno o più elementi di contrasto in essere nell’alveo della crisi internazionale.
Sotto questa cappa di gestione delle opinioni, da far diventare pubbliche e di massa, sta tutta una analisi dei fenomeni geo-politici e socio-economici che purtroppo richiede studio, quindi tempo, e consapevolezza di molte relazioni tra Stati, relazioni finanziarie tra continenti, grandi agglomerati di potere che non possono essere ridotti alla mera schermaglia tra generali iraniani e il Pentagono: lì siamo alla superficie di una sedimentazione che origina da molto lontano e che prende spunto comunque dalla necessità imperialista di espansione di una zona economica nei confronti di un’altra zona economica: da Stato a Stato o da Stato a regione interstatale, proprio come il Medio Oriente.
La battaglia tra Iran e Stati Uniti d’America è tattica: il riposizionamento dei carri armati di un risiko tutto economico è la strategica complessiva. Tanto in Iran quanto negli USA non è assente una lotta di classe che prova a farsi spazio da un lato contro la repressione del regime degli ayatollah e dall’altro si batte contro un “trumpismo” sovranista e iperliberista che vorrebbe mostrare al mondo la crescita ottenuta (in termini di numeri assoluti e anche di percentuali) come esclusivo effetto delle misure messe in essere dalla sua amministrazione che, pure, vengono contestate da molti economisti.
A dire il vero sono sempre meno quelli che stigmatizzano le politiche economiche del governo americano, ma tuttavia qualche voce accademica si leva per sostenere che la costante riduzione dei tassi e la guerra delle tariffe porterà ad una recessione “quasi sicura“. Lo hanno scritto un po’ di tempo fa due eminenti studiosi come Joseph Stiglitz e Paul Krugman.
Lo scenario di apertura di un conflitto con l’Iran, in questo caso, assume un ruolo di secondo piano rispetto alla guerra commerciale con il colosso cinese che, guarda caso, sostiene ogni azione di ridefinizione degli equilibri economico-politici in Medio Oriente che guardino ad un progressivo isolamento di Washington dopo l’attenuarsi della presenza sul terreno dei rapporti con le satrapie locali e i leader emergenti tanto di Iraq, Arabia Saudita e stati satelliti più o meno alleati della Repubblica a stelle e strisce.
I terremoti sociali cui si è potuto assistere in Iran ci parlano di una classe lavoratrice in fermento, che protesta giustamente per la creazione di un sindacalismo indipendente e autonomo dal potere di Khamenei e di Rouhani.
Un proletariato moderno che scende in piazza e sfida la repressione del regime soprattutto nelle date che celebrano il movimento dei lavoratori, come il Primo maggio. La reazione della teocrazia iraniana si muove sul fronte interno nel rafforzamento degli apparati di sicurezza, nel controllo saldo sui mezzi di informazione e, su quello esterno, adopera tutti i mezzi per contenere il debordare delle masse che, di contro, rischiano di essere strumentalizzate dagli Stati Uniti in funzione antigovernativa.
Proprio come accade in questi giorni con i violenti interventi di polizia ordinati contro gli studenti che protestano per l’abbattimento del Boeing con a bordo, oltre ad ucraini e altri cittadini di nazioni europee, anche molti loro colleghi iraniani.
Il rischio è che la lotta di classe in Iran possa essere trasformata in altro da sé stessa, in un supporto indiretto allo scontro tra amministrazione statunitense e regime degli ayatollah. Non sarebbe certo la prima volta: quasi tutte le rivolte che sono andate formando la “primavera araba” di qualche anno fa, per vie traverse o dirette sono state influenzate dalla politica di Washington e in determinati contesti ne sono diventate la longa manus attraverso cui gestire i mutamenti economici, politici e sociali in stati in una repentina decomposizione orchestrata tramite apposite guerre, in una trasformazione da vecchio a nuovo regime o in una evoluzione (o involuzione a seconda dei punti di vista) da democrazie autoritarie a teocrazie dello stesso tenore.
Lo scontro interno all’Iran pone il problema del tipo di conflitto che si può ingenerare tra gli studenti: la qualità delle rivolte che in questi giorni si leggono e si vedono per le vie delle principali città persiane sembra al momento essere quella di una presa di consapevolezza della strumentalizzazione operata dagli ayatollah in ogni ambito della vita del Paese, l’esercizio di un potere devastante nelle esistente dello stesso proletariato iraniano. Ciò che va ulteriormente indagato con attenzione è se, accanto a questa giusta presa di coscienza civile si affiancherà anche una coscienza sociale che prenda le distanze tanto dal regime di Teheran quanto dall’eventuale peloso supporto nordamericano alle rivolte medesime.
In assenza di uno sviluppo di questo tenore, l’Iran, fatte le dovute eccezioni, rischia di divenire una polveriera di fazioni interne non solo per le pulsioni separatiste del Kurdistan, del Baluchistan e dei territori confinanti con la Comunità degli Stati Indipendenti, dal Baltico fino a Samarcanda, ma soprattutto per il confronto tra moderati e intransigenti della rivoluzione islamica, del condurre avanti la politica di Soleimani e Khamenei sullo corridoio di potere che dalla vecchia Persia si allunga sull’Iraq e sul Libano sciiti.
Sarà una sfida di lungo termine, perché al momento continua ad accontentarsi di un fronteggiamento quasi lineare tra Medio Oriente e America: fino a che il livello dello scontro non dovrà essere alzato per mettere mano davvero al bottino rappresentato dal controllo petrolifero di altri settori della Mesopotamia fino ad oggi non toccati né dagli USA né dai loro alleati.
Sarà allora che la società iraniana dovrà scegliere da che parte stare: i “Mojahedin del Popolo Iraniano” sembrano ormai un lontano ricordo di una lotta per il socialismo fondata esclusivamente sull’espansione anticapitalista anche nel segmento euroasiatico, nello spartiacque, nel confine tra punta estrema dell’Europa che si perde nel Medio Oriente ed Oriente asiatico.
L’ultima storia che si può leggere sulle posizioni di un apparato cultural-politico di stampo marxista sembra non trovare quasi più spazio nemmeno da quelle parti, nonostante resti la rivendicazione della sostituzione della repubblica islamica con una repubblica democratica. Per l’appunto: democratica, rispondente ad un bisogno di socialdemocratizzazione del movimento e del partito che ha allentato anche il suo laicismo per abbracciare un “socialismo islamico“.
Tra spinte esterne e pulsioni interne, l’Iran degli ayatollah avrà il suo da fare per conservarsi come regime islamico, teocratico e antisociale quale è sempre stato. Il pericolo per il popolo iraniano e, segnatamente, per i lavoratori verrà ancora una volta da più fronti che si equivalgono in quanto ad accettazione del sistema capitalistico, che non hanno alcuna minima intenzione di migliorare le condizioni di vita degli sfruttati ma di gestire solo il potere, rimanendo pure in equilibrio sopra la peggiore corda tesa dalla grande finanza che commercia in oro nero, gasdotti, oleodotti e magari anche in lussuosi tappeti tessuti a mano da fabbriche dove lo mano d’opera minorile è in sovrabbondanza…
La pace da sola non basta. Nemmeno la democrazia è sufficiente. Serve sempre e soltanto un salto di qualità che oltrepassi tutte queste miserie statali, politiche, morali. Anche in Iran la coscienza sociale è tutta da costruire.
MARCO SFERINI
14 gennaio 2020
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