Più che una conferenza di pace, quella di Lucerna è stata una parodia ben architettata, messa in scena con qualche inciampo e terminata malissimo. Non solo perché al tavolo mancava uno dei due contendenti ufficiali della guerra, quindi la Russia di Vladimir Putin, ma soprattutto perché di tutto si è discusso tranne che di addivenire ad una soluzione del conflitto mediante un cessate il fuoco, una de-escalation delle ostilità, una apertura di un confronto tra mediatori delle due parti.
L’Occidente euro-atlantico ha provato a mostrare al mondo, dietro le sembianze ipocrite della ricerca della pace, una unità di intenti che non gli è riuscita e che, del tutto probabilmente, vista la risoluzione finale non votata da nessuno dei paesi BRICS e da altri che li affiancano, non era neppure lo scopo finale della conferenza. Sta di fatto che l’Europa rimane con un pugno di sabbia in mano, a fare da comprimaria tanto alla NATO quanto agli Stati Uniti in una guerra interpolare e imperialista.
La non intenzione di addivenire ad un vero processo di pacificazione dell’Europa è evidente nell’ostilità manifesta nei confronti di importanti interlocutori internazionali come Cina, India e Brasile che vengono costantemente fatti oggetti di critiche e di attacchi durissimi da parte dell’amministrazione Biden e dell’alta dirigenza della NATO. Una Alleanza atlantica che è mani e piedi dentro la guerra d’Ucraina, e non certo da due anni a questa parte.
L’espansione militare occidentale non ha riguardato infatti soltanto (si fa per dire) l’adesione degli ultimi paesi europei che confinano direttamente con la Russia. Prima di tutto ha teso ad incunearsi entro la sfera geopolitica russa proprio insediandosi “informalmente” in tutto il territorio di Kiev, da una decina di anni a questa parte, quando iniziò il conflitto autonomista prima, indipendentista poi, nel Donbass.
Là sul lago dei Quattro cantoni, nella splendida cornice del Bürgenstock, le nazioni riunite (non di certo unite…) da Kiev (novantatré in tutto, più alcune organizzazioni internazionali) si sono mostrate, nella maggior parte degli interventi, ostili al progetto di una ridefinizione delle aree di influenza globali tali da stabilire un nuovo assetto, un equilibrio sostanzialmente ritrovato tra i poli emergenti e riemergenti in questo nuovo millennio.
Il carattere della conferenza è da subito risultato piuttosto evanescente, privo di una consistenza reale, di una concretezza che sarebbe arrivata da un vero confronto tra le parti in causa. Ma la atipicità del conflitto stesso ha fatto sì che tutto, fin dall’inizio, si svolgesse sul campo in una terra di mezzo delle ambiguità, in un voluto gioco di preamboli che sono stati le premesse per fare dell’Europa il terreno di uno scontro che sta a metà tra le guerra direttamente ingaggiata e quella fredda.
In questi anni abbiamo sentito spesso fare la sua comparsa nei dibattiti la locuzione di “guerra per procura“: una finezza linguistica del bellicismo che impegna altri a combattere per proprio conto. Molto più diretta la versione russa che, per quanto sia biasimevole per l’invasione e lo scatenamento di un conflitto più ampio di quello che si combatteva tra Kiev ed indipendentisti filorussi nel Donbass, non ha mai nascosto i suoi obiettivi: riportare Kiev sotto l’egida di Mosca ed allontanare dai propri confini la minaccia (vera) della NATO.
Si può condividere o meno la politica di Putin (e, visto che questa premessa va sempre fatta quando se ne parla, chi scrive non la condivide affatto), ma si farebbe un torto alla verità dei fatti se si sfuggisse alla considerazione delle responsabilità occidentali nella perpetuazione del conflitto che, per essere tale, ha bisogno almeno di due contendenti. Stati Uniti, Alleanza atlantica ed Europa hanno, invece di trovare una soluzione negoziale, spinto gli ucraini al massacro.
Ed il tutto per consolidare gli interessi nord-atlantici in una zona intercapedine tra la UE fedele a Washington e l’Est del Vecchio Continente disallineato rispetto alla grande madre Russia di un passato-presente che lo zarismo putiniano vorrebbe rinverdire aggiornandolo alle dinamiche di una modernità in cui il multipolarismo è tornato a vincere sull’unipolarismo statunitense che pareva essere divenuto l’unico protagonista sulla scena mondiale dalla caduta del Muro di Berlino in avanti.
La finta conferenza di pace tenutasi in Svizzera, a dimostrazione della inconsistenza cui è stata votata dai suoi stessi organizzatori, ha licenziato una risoluzione – dichiarazione finale non votata dalla Cina, dall’India, dal Brasile, dalla Giordania, dal Sudafrica. In pratica da quasi due terzi del pianeta se si considera che nemmeno la Russia ha potuto esprimersi in merito, nonostante Putin sia entrato a gamba tesa nella kermesse di Lucerna dichiarando la disponibilità di Mosca al cessate il fuoco dietro precise condizioni.
E siccome, ad oggi, è il Cremlino che sta vincendo la partita sul campo, è ovvio che queste condizioni siano a tutto vantaggio suo: l’acquisizione degli oblast ucraini conquistati e la concreta neutralità di Kiev rispetto alla presenza della NATO sul suo territorio. Ovviamente, nemmeno a parlarne per Kuleba e Zelens’kyj. La proposta di Putin è una provocazione, non c’è che dire; e tuttavia, se la si deve prendere con un certo formalismo, è un punto da cui partire date le condizioni della guerra in questa fase.
Seppure lentamente, i russi avanzano vero il fronte nord-est e verso quello meridionale. Stoltenberg fa promettere all’Europa, nell’entusiasmo immotivato macroniano, maggiori armamenti e la conferenza di pace di Lucerna approva, perché si sa… la pace passa dal “para bellum“; se poi la guerra l’hai alimentata fino ad oggi proprio per avere ulteriori pretesti (uguali e contrari al tempo stesso a quelli di Putin) di espansione geopolitico-economico-militare ad est, allora è comprensibile che più di mezzo mondo non ti segua.
Nella dichiarazione finale non manca solamente la volontà di arrivare alla mediazione, ad una eventuale nuova conferenza dove sia presente anche la Russia, ma sono praticamente assenti anche gli obiettivi minimi: l’ingresso di Kiev nella Nato, le questioni territoriali, anche se si afferma il diritto degli ucraini di riottenere il controllo dell’impianto nucleare di Zaporizhzhia e dei porti sul Mar d’Azov.
Ce n’è abbastanza per sentenziare il fallimento del redenz-vous in quanto ad assise per la ricerca della pace. Nemmeno il Vaticano ha sottoscritto gli eterei impegni della conferenza. Il comunicato ufficiale della Santa Sede parla di consueta formale equidistanza e, quindi, neutralità attiva tra le parti espressa proprio nell’astensione dalla firma del documento. In realtà, a questa comprensibile ragione diplomatica, vi è anche l’imbarazzo di dover commentare un testo in cui le armi sono presenti a tutto spiano.
Molto più di una voce che circola, è la certezza che nello stabilimento di nuovi solidi rapporti ad Oriente, in particolare con al Corea del Nord, ma non di meno con la Cina, con l’India e con l’Iran, si celi una operazione simile a quella tentata da Occidente a Lucerna. Probabilmente sarà speculare nell’ipocrisia della ricerca della pace e, quindi, caso mai dovessero partecipare anche i nord-atlantici euro-americani, finirà con, questa volta, la loro mancata firma su una dichiarazione di sostegno ad un processo di negoziazione tra le parti.
Ma è presto per poterlo dire; anche perché se così fosse, sarebbe difficile immaginare una impossibilità nel trovare una soluzione alla guerra, mentre altri fronti rimangono aperti: da Gaza a Taiwan, da quelli africani ai regimi instabili dell’Asia in cui gli interventi di “esportazione della democrazia” da parte di Washington e dei suoi alleati hanno avuto come risultato finale la restaurazione delle teocrazie talebane.
Corre alla mente quella frase di Franz Kafka…: «Nessuno può uscirne fuori, e tanto meno col messaggio di un morto». Ci troviamo interamente nel ventre molle di una distopia altalenante tra lucidità dei folli e pragmatismo dei fomentatori di un riarmo su scala transcontinentale. Non ne fa mistero Stoltenberg che, con l’approvazione della vicepresidente statunitense Kamala Harris, non solo apre all’introduzione in Ucraina di armi capaci di colpire su un vasto raggio, in profondità nel territorio russo, ma di più ancora sdogana la presenza di obici nucleari dell’Alleanza.
Messaggio a Putin chiaro e tondo: Kiev non farà formalmente parte della NATO, ma la NATO fa praticamente parte di Kiev e determina, alla fine della fiera, le decisioni militari da tenere sul campo, al fronte come oltre la linea di combattimento. Si alza così sempre di più il livello di allerta verso un conflitto atomico, mentre il presidente russo consolida il suo fianco asiatico e si tiene ben stretti Pechino e Pyongyang. Tutte potenze che detengono arsenali nucleari e che costituiscono una minaccia per l’Occidente.
Lo scontro delle inciviltà è servito ancora una volta sulla tavola del cinismo da cui cadono pochissime briciole di finti aiuti umanitari per i popoli che i conflitti li subiscono pensando di essere degli eroici difensori della loro patria davanti all’invasore russo. Ne hanno due di invasori da affrontare: uno evidente che attacca da Est, ed uno da Ovest che si è infiltrato in casa loro con il presto della difesa della democrazia.
Ed anche sulla qualità delle libertà civili, dei diritti sociali ed umani in Ucraina vi sarebbe molto da scrivere e discutere. A partire dall’intolleranza nei confronti dei partiti di opposizione, della proibizione per le minoranze di vedere riconosciuti bilinguismi, culture e tradizioni. Sembrano inezie rispetto alla gravità della grande questione di questi tempi in cui la guerra è totalizzante, eppure anche da questi particolari prendono spunto i pretesti più enormi su cui si fondano i conflitti pluridecennali.
C’è un “principio di realtà” che, come è evidente dalla prosecuzione della politica imperialista mediante la protesi bellica costante, al pari di ciò che era accaduto nel prologo e poi nell’epilogo del primo conflitto mondiale, si riverbera oggi nei rapporti diseguali tra vaste aree del mondo: allora era il colonialismo di fine Ottocento ed inizio Novecento; oggi è un neo-colonialismo iperliberista che tenta di tracciare i confini del proprio dominio senza tenere conto delle alterazioni antropologiche e sociali derivate dallo squilibrio ambientale.
Senza una vera conferenza di pace, esattamente l’opposto di quella di Lucerna, ogni successivo passo verso il fronte ucraino sarà un passo verso altri fronti apparentemente invisibili, eppure quelli più perniciosi: la dilatazione temporale del conflitto gioca oggi a favore di Mosca. Domani potrebbe non essere più così e allora la disperazione dell’esaurimento delle risorse umane potrebbe indurre all’utilizzo di armi atomiche.
Così come lo induce già oggi la costante minaccia, verbale da un lato e pratica dall’altro con l’invio di armi sempre più sofisticate a Kiev, da parte del Segretario generale della NATO, da parte del Presidente della Repubblica francese, del premier britannico, dell’amministrazione americana a guida democratica. Che Donald Trump, possibile vincitore delle prossime presidenziali a stelle e strisce in autunno, possa mettere fine a tutto questo c’è da dubitarlo. E piuttosto seriamente.
Prevarrà probabilmente un atteggiamento ambivalente, tipico un tempo solo del conservatorismo, oggi in auge anche presso il presunto progressismo democratico: mostrarsi capaci di difendersi, quindi attuare una deterrenza pro domo propria e, al contempo, sacrificare la libertà degli altri popolo in nome della sopravvivenza delle nazioni giudicate più forti e, quindi, degne di esistere e vivere.
Un concetto quasi nazistoide, tipicamente goebbelsiano, tanto intimamente razzista e suprematista quanto fintamente patriottico e nazionalista. Una induzione alla preservazione di una parte della specie che fa il paio con il diritto al godimento di diritti universali che si tramutano in privilegi per poche centinaia di milioni di esseri umani al mondo. E poi ci si sorprende se due terzi del pianeta fa il tifo per Putin…
MARCO SFERINI
18 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria