In questi giorni sono accaduti fatti che meriterebbero prima di tutto uno sciopero generale di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori e, di conseguenza, anche una apertura di una sorta di Stati generali della sinistra per chiudere la stagione delle analisi divisive e creare quella della concretezza, dell’azione. I cortei, le manifestazioni, i presìdi sono importanti, ma non sono messaggi unidirezionali: comunicano l’esistenza di una protesta ma difficilmente vanno oltre questo livello, fino alla proposta.
Un po’ tutto dovrebbe impallidire davanti alla morte non naturale di un sindacalista: qualche cenno di ipocrita vergogna istituzionale, qualche mea culpa sempre tardivo e, tra l’altro, qualche riscoperta del conflitto di classe. Anche se è troppo lusso sperare che i giornali nazionali lo definiscano tale, anche se riferiscono della durezza delle condizioni di lavoro prima, durante e certamente anche dopo la pandemia. Tanto nel campo della logistica quanto in quello di mille altri settori produttivi.
Per un attimo, anche i più fervidi negazionisti dell’esistenza della “working class” in quanto tale, soggetto con diritti sociali tutti da riconquistare e tanti altri da scoprire per poter vivere meglio, sono stati costretti a sbattere la faccia contro l’oggettività di una morte che – come ha ribadito anche Ken Loach – non può essere definita opportunisticamente (e quindi inopportunamente) un mero “incidente“. E’ un assassinio non ascrivibile però soltanto a chi materialmente lo ha causato, forzando il blocco del picchetto in cui Adil ha visto in pochi secondi la sua vita volare via.
La contestualizzazione, in questo caso, ma non solo, è necessaria e imprescindibile: senza evidenziare l’esasperazione dei lavoratori che protestavano, senza tenere conto delle condizioni di ricatto cui sono sottoposti altri lavoratori che diventano crumiri per disperazione, tradendo così loro stessi e i loro compagni, senza avere chiaro questa minima cornice entro cui maturano le condizioni di tensioni sociali nella stessa classe sociale, la morte di Adil può essere semplicisticamente archiviata – almeno da giornali e tv – come fosse quasi un incidente. Una casualità.
Le parole meriterebbero non solamente un rispetto semantico ed etimologico, ma prima di tutto meriterebbero di poter rimanere perfettamente aderenti al contesto in cui vengono espresso, riferite, collocate. Soprattutto quando non descrivono scene di cosiddetta “normale” vita quotidiana, verso cui si può anche fare largo uso di metafore, di iperboli e bizantinismi linguistici per dipingere certe scenette sia private sia della inverecondia della politica nazionale e locale.
Quando invece assumono più di un significato perché diventano emblemi e simboli di un determinato accadimento. Troppe volte si è parlato di “morti bianche” riferendosi a veri e propri omicidi sui posti di lavoro. E’ evidente il valore “politico” che si vuole assegnare alla crudezzad della parola così espressa: un valore “sindacale” anche, un valore intrinsecamente dato dalla brutalità con cui i lavoratori vengono trattati nella tanto celebrata “modernità” dell’economia di mercato, dove i diritti scemano proprio con l’avanzare di una nuova fase della globalizzazione capitalistica che abbiamo imparato a conoscere come “liberismo“.
La morte di Adil è emblematica proprio perché innalza all’ennesima potenza questa cruenza, questa spregiudicatezza nell’accostare la civiltà democratica formale, quella dei diritti liberalmente intesi, al trattamento antisociale, incivile, immorale, antisindacale e disumano che i padroni ogni maledetto giorno riservano ad una classe lavoratrice non considerata tale nella percezione comune.
I messaggi mediatici che arrivano a larga parte della popolazione, quella priva di un bagaglio pur minimo di coscienza critica per poter dire di avere gli strumenti di analisi e interpretazione di quanto accade da un punto di vista alternativo a quello della vulgata imprenditoriale e di tutti i suoi servitori cortesi, sono messaggi che alterano il linguaggio proprio da un punto di vista volutamente politico.
L’interesse comune di grandi industriali, grandi catene di distribuzione di merci, grandi gruppi editoriali e televisivi è sorreggersi a vicenda, mantenendo intatta la narrazione dell’incidente come descrizione naturale, quasi oggettiva di quanto avvenuto ad Adil. Ma tra le pieghe delle storie di ognuno di noi ci sono sempre verità da scoprire, proprio come nel metodo storico, quando si approfondisce un determinato periodo del cammino umano e non ci si limita all’elencazione nozionistica di date, nomi e titoli dati per consuetudine a certi eventi importanti.
Avvicinandoci agli accadimenti, le pieghe formate dal semplificazionismo, quelle cumulate dalla banalizzazione voluta dei concetti e dei fatti stessi, spariscono, si fanno sempre meno evidenti e si dipanano le nebbie dei pregiudizi e dei giudizi dati troppo frettolosamente per depistare l’opinione pubblica dalle vere cause delle morti nei luoghi di lavoro e pure nelle manifestazioni sindacali in una democrazia all’altezza dei grandi princìpi europei di libertà, uguaglianza e solidarietà. Tutti e tre prontamente negati dall’impostazione stessa di una UE che serve soltanto da gestore dei conti bancari, delle transazioni finanziarie e che regola e tutela lo sviluppo soltanto del profitto privato, dei capitali e dell’accumulazione dei medesimi.
La morte di Adil, insieme a tutti gli altri lavoratori morti a causa delle condizioni di sfruttamento, che comprendono la mancanza di sicurezza come diritto fondamentale, non è un buon motivo per indire uno sciopero generale nazionale contro ogni tipo di violenza nei confronti di chi presta la propria opera per altri, per far loro guadagnare dei bei soldoni nonostante la pandemia, nonostante qualunque alibi si voglia trovare per minimizzare il ruolo che la classe degli sfruttati ha ancora oggi in questa società di cui fa parte ma di cui non è protagonista?
Uno sciopero generale dovrebbe essere veramente la minima risposta possibile per comunicare, con tante belle parole, ben pesate e non gettate nel vuoto dell’aere, che una coscienza sociale e di classe va recuperata e ristabilita. Senza la consapevolezza della gravità di ciò che ogni giorno avviene nel mondo del lavoro, guardando ma non vedendo la lotta di classe che c’é, nessuna rivendicazione particolare potrà essere utile. Nemmeno a sé stessa. Slegata da un contesto di rialfabetizzazione anticapitalista, la lotta dei lavoratori sarà etoridiretta da chi ha interesse a che si fermi sempre e soltanto entro il limite della compatibilità con le ragioni dell’impresa e del mercato.
Questi drammi bisogna vederli. Bisogna che siano evidenti, lapalissiani, veramente oggettivi. Altrimenti le tragedie continueranno ovunque e saremo nuovamente qui a ripeterci concetti che già conosciamo. Se lo faremo, sapremo che quella coscienza di classe non si è ancora riscattata dal suo lungo torpore.
MARCO SFERINI
20 giugno 2021
foto tratta da Radiosonar.net