A differenza del Cristianesimo, l’Islam fonda la rivelazione di sé stesso come culto monoteistico sul rapporto tra l’uomo e Dio, tra il Profeta Maometto e Allah il Compassionevole, il Misericordioso. Ed a differenza di entrambe queste due interpretazioni della volontà dell’Altissimo in Terra, l’ebraismo invece stabilisce una connessione privilegiata tra un intero popolo e la divinità, elevandosi a rango superiore rispetto a tutte le altre genti.
Tre religioni, un unico essere supremo, invisibile, intangibile, che si mostra agli umani attraverso prodigi a volte trasmessi per suo conto dai profeti e dagli angeli celesti, mentre in un caso solo, quello cristiano, si “umanizza” addirittura per redimere dal peccato originale. Non c’è dubbio sul fatto che tra i tre indirizzi sommariamente descritti, le teologizzazioni più numerose abbiano riguardato proprio la finalizzazione dell’esistenza, quindi la volontà divina espressasi in vario modo.
E non c’è dubbio alcuno pure sul fatto che le religioni rivelate e monoteiste siano servite molto di più alla causa terrena dei poteri statali che non quelle politeiste, il cui ruolo, fondamentalmente, era quello della mitizzazione a scopo quasi terapeutico dei disagi umani nei confronti dell’inconoscibilità e dell’incomprensibilità conseguente della vita tanto umana quanto dell’esistenza stessa della materia.
Il passaggio dalla trasformazione incessante e senza alcuna soluzione di continuità, prima, dopo e durante le nostre vite, al “creazionismo“, quindi all’immaginare un punto nello spazio e nel tempo in cui Dio abbia stabilito l’inizio della sua creazione universale, è determinante nella costruzione complicatissima, ma altrettanto molto semplice nel suo teleologismo, di uno scopo a cui tendere. Dalla notte dei tempi, dall’oscurità spaziale infinita (o almeno immaginabile come tale) fino alla nostra piccola porzione sferica di materia su cui ci troviamo da qualche decina di migliaia di anni.
Il Cristianesimo, più ancora dell’ebraismo e dell’Islam, è il culto che si ha per un uomo a cui si attribuisce niente meno che qualcosa di molto più misterioso del semplice dialogo con la divinità o con i suoi arcangeli (come nel caso di Maometto). Gesù Cristo è il Dio che si è fatto uomo, il Buon Pastore, il Messia, colui che realizza i disegni di Dio, ma non è il Padre e non è nemmeno lo Spirito Santo. E viceversa.
Lo schema trinitario ci riporta l’unità delle tre Persone divine in Dio stesso. Tutte e tre sono Dio, nessuna è l’altra rispetto a sé stessa. Gesù è quindi un uomo in cui Dio si è incarnato e attraverso cui si esprime il suo disegno che finalizza il tutto alla salvezza dell’umanità dal peccato, per guidarla verso una eternità di vita finalmente pura, senza più la macchia, l’onta della colpa. Aprioristica quanto si vuole, ma pur sempre colpa dei padri dei propri padri, dei progenitori dei progenitori fino a giungere al mito di Adamo ed Eva.
Fernando Bermejo-Rubio ha scritto a questo proposito un libro affascinantissimo, che induce volutamente alla polemica anche aspra, perché i temi che vi sono molto minuziosamente descritti sono plurimillenari e, pertanto, ancora oggi determinano tutta una serie di aspetti della nostra esistenza da cui è impossibile prescindere o pensare di sfuggire irrigidendo il proprio laicismo, il proprio agnosticismo o un ancora più severo ateismo radicale.
“L’invenzione di Gesù di Nazareth. Storia e finzione” (Bollati Boringhieri, 2021) può anche essere definito un saggio adatto agli studi universitari, quindi con i contorni di un testo specializzato in un dato argomento, per addetti ai lavori, ma, in realtà, è scritto in una prosa argomentativa, ricca di riferimenti (e per questo è opportuno almeno le conoscenze di base sul Cristianesimo, sulla sua storia e sulla sua bimillenaria evoluzione, averle e ampliarle) che possono essere verificati con metodo tanto di ricerca quanto con la curiosità di chi è stato semplicemente ipnotizzato da un titolo, effettivamente, azzeccato.
Bermejo-Rubio non si propone nessuna confutazione delle credenze che si sono piano piano sommate intorno alla figura di Gesù di Nazareth. Il suo approccio all’epoca in cui si cala è una critica ragionata: non vi è nessuna preconcettualità in questo importante e lucido lavoro di analisi storica di una delle personalità che, anche quando il Cristanesimo avrà lasciato il posto a nuovi culti creati dall’umanità del futuro, rimarra per l’appunto non solo entro i limiti della singolarità dell’individuo divinizzato, ma verrà ancora studiato e analizzato come ispiratore di un fenomeno, se non unico e irripetibile, certamente singolarissimo.
La complessità del giudaismo nel mondo romano è il proscenio di una società che è costretta ad accettare il dominio dei Cesari ma che non è per niente pronta ad una innovazione teologica, ad una rivisitazione delle Scritture così come la propone Gesù secondo il racconto dei Vangeli canonici, così come ci è stata tramandata da Paolo di Tarso in avanti. Duemilaventiquattro anni fa le lotte per l’indipendenza del mondo ebraico dall’occupazione romana erano il teatro di una tragedia ben più grande: quella dei miseri e dei derelitti che non avevano alcun diritto.
La casta sacerdotale condivideva le responsabilità del mantenimento dello status quo insieme ad Erode l’Ascalonita prima ed Antipa poi e non stimolava nella popolazione nessun sentimento nazionalistico; a differenza degli zeloti e di altri partigiani dell’autonomia da Roma che si battevano in modi differenti e senza convergere, così, verso quello che avrebbe dovuto essere un unico, comune fine socio-politico-religioso. La figura di Gesù, come uomo, interessa certamente dal punto di vista storico per cercare di comprenderne la divinizzazione successiva.
Ed è proprio dalle testimonianze antiche che deve partire lo storico se intende operare una indagine accurata nel merito, per comprendere dove termina la verità raccontata dalle fonti e dove inizia quella raccontata dalla mitizzazione che oltrepassa il ruolo del mito medesimo e si fa culto, fede, trascendendo quindi la terrenità dei fatti e affidando molto del racconto ad una credenza sostenibile solo attraverso quell'”absurdum” di cui ci parla Tertulliano. Siamo nell’impossibile e dovrebbo, quindi, crederlo possibile proprio per questo.
Il dogmatismo dei secoli successivi, proclamato dalla Chiesa là dove è necessario supportare delle verità di fede che altrimenti non potrebbero essere credute (dire “comprese” sarebbe improprio, visto che una verità irragionevole prescinde, oggettivamente, dalla ragione stessa), ci porta già ben al di là di quella plausibilità di cui è alla ricerca Bermejo-Rubio. Le testimonianze sull’esistenza di Gesù ci sono: nella letteratura romana da Flavio Giuseppe a Svetonio, da Tacito a Plinio il Giovane, in quella ovviamente cristiana rappresentanta dai Vangeli canonici a quello “dei detti” di Tommaso agli gnostici alessandrini.
Persino il “Talmud” babilonese, sacro testo ebraico, ed il “Corano” citano Gesù di Nazareth. Si tratta, a parte il “Testimonium Flavianum”, di brevi comparse del nome o dell’appellativo attribuito a Gesù come Salvatore dell’umanità: il “Cristo“. Mentre in Flavio Giuseppe, che è un nobile ebreo divenuto, dopo essere stato catturato, collaboratore dell’imperatore Vespasiano, la trattazione si fa meno citazionistica e più episodica, dunque rilevante per il numero di informazioni che sembrerebbe riportare.
Il primo capitolo dell’opera di Bermejo-Rubio è l’incipit di un viaggio entusiasmante tanto nel confronto tra le testimonianze, da quelle meno attendibili a quelle invece più probabili di aderenza con quanto davvero avvenne in allora, quanto nell’aprirsi davanti agli occhi della nostra immaginazione di una realtà molto più articolata rispetto alla minimizzazione (spesso involontaria) che subiamo ogni volta che festeggiamo la nascita o ricordiamo la passione e la morte del Cristo. La metodologia dello studioso impone la verifica delle verosimiglianze e delle inverosimiglianze dei racconti evangelici.
Dalla crocefissione come atto di giustizia romana contro gli insorti al particolare importantissimo dell’ultima ingiuria subita da Gesù: la scritta “I.N.R.I” (“Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum“). Proprio sulla questione della fondazione del “regno di Dio” sulla Terra la storiografia si è dibattuta almeno tanto quanto i padri della Chiesa e il teologismo pure successivo all’agostinismo e al tomismo.
Non tanto per dimostrare che la trattazione dei fatti storici sarebbe spettata ad una universalità degli studi che, quindi, comprendesse qualunque evento verificatosi nel corso dell’evoluzione umana e che, pertanto, rifiutasse una sorta di asetticità critica nei confronti del Cristianesimo. Quanto, semmai, per affermare il carattere temporale degli avvenimenti che, di per sé, non afferma e nemmeno nega la narrazione religiosa che vi è stata messa di contorno, tentando, e riuscendo in questo tentativo molto a lungo nel tempo, una egemonizzazione dei fatti da un punto di vista incontestabile perché espressione di una “voluntas Dei” di cui i Vangeli erano il “verbum“.
Per tutto valga il titolo stesso di questo libro, in cui risalta esplicitamente l'”invenzione” della figura di Gesù di Nazareth: sarebbe stato, non tanto impensabile, quanto molto poco pubblicabile un libro con il titolo dato dallo storico in secoli nemmeno troppo lontani da noi. Cinque, Seicento… Per avvicinarci alla cosiddetta “storia moderna“.
Dopo aver dato al lettore molti spunti storici sulla vita di Gesù e sul rapporto di questa con i secoli successivi, Bermejo-Rubio nella terza parte del libro passa letteralmente “dalla storia alla finzione“, indagando la seconda pienamente dentro il contesto culturale ebraico, sempre tenendo conto davvero con grande circostanziazione di ricchissimi riferimenti. Non di meno vengono accostati il mondo ellenico e quello romano, parte di una universalità che compenetra le differenti aree geografiche in una mediterraneità degli scambi che non riguarda solamente le merci ma, in particolare, le lingue, i costumi, le tradizioni.
Come dalla storia si passa alla finzione, così da Gesù si passa al Cristo, ad una divinizzazione che viene addirittura anteposta alla sua nascita, dando a lui delle probabili origini dirette con la casata di David, dando a sua madre una nascita immacolata, priva del peccato originale. Quelle che Fernando Bermejo-Rubio chiama le “strategie bio(teo)grafiche“, si ritrovano tanto nelle lettere di Paolo quanto nei Vangeli canonici: tutto tende ad un superamento dell’umano in Gesù per vedervi solamente il “figlio di Dio“.
Manca – dice lo storico – un necessario distacco critico da parte degli studiosi nei confronti dell’ebreo Yehoshua ben Yosef, affinché la sua nascita, la sua vita e la sua morte possano essere indagati compiutamente, senza lasciarsi influenzare benché minimamente tanto dal mito quanto dal culto religioso. Si fa fatica a trovare questo distacco proprio perché l’indagine “laica” e indipendente è tutt’ora minoritaria. Ciò la dice abbastanza lunga non solo sul potere esercitato dalle strutturazioni del Cristianesimo nelle diverse chiese diffuse nel mondo, ma in particolare sul ruolo dei culti, delle credenze, dei fenomeni religiosi di per sé.
Nessuna delle presunte novità moderne sulla storicità di un Gesù uomo e dio al tempo stesso si è rivelata attendibile ai fini di una demitizzazione del personaggio e di una sua ascrivibilità non solo al mondo reale ma anche a quello trascendente la fisica, la materialità e l’oggettività riscontrabile dei fatti. Il saggio storico di Fernando Bermejo-Rubio non inventa nulla, non demistifica e non propone letture alternative su Gesù di Nazareth. Ognuno è libero di farsi l’idea che più ritiene vicina al vero, tanto sul piano meramente storico quanto su quello fideistico.
Ma, è questo l’invito che l’autore fa attraverso la sua opera, possiamo indagare la figura di Gesù sotto tutti questi punti di vista, attraverso un approccio davvero plurale, molteplice e screvro da pregiudizialità di ogni tipo. Iniziando dall’assunzione della critica come metodo di scoperta delle tante parafrasi dei testi che si sono sovrapposti nel tempo e hanno artefatto una realtà che era già poco plausibile e che, in questo modo, è tornata nell’alveo della tradizione mitica o del mito tradizionale.
L’invenzione di Gesù di Nazareth è proprio questo: un somma di elementi legati al sentito dire, al vissuto intellettivamente ed emozionalmente che ha caratterizzato anche la storiografia, facendone uno strumento di inattendibilità. Nel cercare di risolvere una parte di questi problemi, l’autore ha molto bene esaminato una complessità di fatti e di fattori, di circostanze e di avvenimenti presenti in decine di migliaia di libri, lungo un arco temporale che somiglia all’infinito.
Somiglia soltanto, così come la storia di Gesù finisce per somigliarli, ma non è mai davvero quella che ci è stata raccontata.
L’INVENZIONE DI GESU’ DI NAZARETH
FERNANDO BERMEJO-RUBIO
BOLLATI BORINGHIERI, 2021
€ 32,00
MARCO SFERINI
10 gennaio 2024
foto: particolare del “Cristo Pantokrator“, una delle più antiche raffigurazioni di Gesù di Nazareth (Monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai, Egitto)
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