Scrivere per puro piacere, perché si ha talento e lo si mette anche a frutto, perché si svolge un servizio pubblico e si batte sui tasti per compilare file trafile di documenti, oppure perché lo si fa per mestiere. Così la lingua italiana, nel nostro caso, viene utilizzata a seconda dei contesti, adattata, modellata per chi ci deve leggere, affinché la comunicazione sia soprattutto semplice, immediata e non necessiti di troppe interruzioni che riportino alla parola, alla frase o addirittura alla riga precedente.
Studiosi della lingua, glottologi, semiologi, linguisti e letterati di vario genere raccomandano periodi non troppo lunghi, un utilizzo parco della punteggiatura, un uso adeguato di virgole e grande parsimonia con le esclamazioni. Compito di chi scrive è il dovere di utilizzare la grammatica non come prontuario dogmatico da calare su ogni pensiero che prende forma per iscritto; semmai come libro delle armonia da consegnare alla lingua stessa, facendone una specie di sinfonia per il lettore che ha il diritto di sguazzare in un piacevole racconto, in un articolo di cronaca altrettanto tale.
Tralasciando tutti i refusi che si possono incontare sulle colonne dei giornali cartacei, su quelle dei siti Internet e – discorso però a parte – sulle reti sociali, gli errori più grossonali dovrebbero riguardare enormi errori marchiani: elisioni mancate, lettere doppie, forme verbali prive di qualunque aggancio temporale con altre e così via…
Tutto è accettabile fino qui. Sbagliando si impara e, siccome si sbaglia continuamente, per fortuna si impara conseguentemente. La ruota gira e le parole scorrono, ci piovono addosso, si catapultano su noi con grandi strilli di giornale, aperture ad effetto, ci seducono le menti, ci addolciscono i pensieri o rendono invece più coriacei i nostri pregiudizi, le nostre preclusioni e solidificano i dubbi malevoli che mutano forma e sostanza per assumere le sembianze di paure endemicamente presenti nella società.
Meraviglia straordinaria è il potere del linguaggio, della scrittura, della comunicazione in generale. Fa sempre un certo effetto pensare che, per fare un esempio, i popoli polinesiani non abbiano – caso raro ma per niente unico – sviluppato alcuna forma di scrittura nel corso della loro storia e del loro sviluppo: anche quando si sono recati oltre le loro isole e sono giunti fino in Nuova Zelanda (scoprendola per primi ma non sapendo bene dove fosse quella terra…), alle Hawaii o fino all’Isola di Pasqua, non hanno portato una cultura da tramandare per iscritto ma solo oralmente.
Quando i primi colonizzatori europei depredarono anche la terra di giganteschi moai, simbolo degli antenati che proteggevano i rapanui dalle insidie furiose degli elementi (mareggiate, eruzioni vulcani, piogge incessanti), vennero accolti dalla popolazione che fece loro dono di alcune tavolette di legno su cui erano incisi simboli e segni simili ai pittogrammi. Ma si trattava di una lingua del tutto sconosciuta o di simbologie per niente riferibili ad un codice di comunicazione scritto che traduceva suoni abitualmente usati nella piccola “Grande isola” (questo significa “Rapa Nui“).
Non è necessario sviluppare una lingua scritta per vivere, ma diciamo che è utile per progredire e per migliorare praticamente qualunque aspetto della nostra quotidianità. Ed è proprio questo il punto: lingua parlata e lingua scritta si differenziano, poiché nel quotidiano utilizziamo espressioni che non useremmo mai se scriviamo una lettera, se componiamo dei versi o se ci divertiamo ad inventare una storia. Nemmeno la forma giornalistica può essere così intrisa di espressioni per lo più gergali. Sono permesse soltanto quando si fanno delle citazioni, quando si riportano le parole altrui.
Allora si aprono le virgolette cosiddette “francesi” (che non sono queste usate per l’aggettivo plurale appena virgolettato; queste si chiamano “italiane” altrimenti dette “apici doppi“) e si fanno parlare i protagonisti della storia di cronaca nera o della fiaba o del giallo che si ha per le mani e si divora avidamente per conoscere l’assassino.
Eppure la lingua italiana, che non è il caso qui né di glorificare e né tantomeno di criticare, viene fatta oggetto ogni santissimo o laicissimo giorno di sgarbi che per la maggior parte riguardano la sostituzione di sue parole con inglesismi di ogni tipo. Apriamo un giornale qualsiasi. Titoletto sopra una grafica che illustra l’articolo: «Letti ospedalieri sold out». “Sold out“.
Se non avessimo imparato a riconsocere questa espressione usata dai britannici e dagli anglofoni in generale avendola vista sui cartelloni dei concerti, non avremmo saputo cosa significasse. Semplicemente vuol dire: “al completo” oppure “tutto esaurito“. Ecco, viene usata proprio in quest’ultimo significato quando ci si riferisce ad un evento pubblico cui non sono più disponibili posti a sedere o biglietti da vendere.
Utilizzarla per dire che i letti negli ospedali stanno finendo e che siamo, praticamente, al completo è improprio oltre che devastante per la nostra lingua. Perché bisogna adoperare l’inglese per riferirsi alla quarantena? Perché una raccolta fondi diventa tutto ad un tratto una “crowdfunding” e non può essere molto più semplicemente chiamata con il suo corrispettivo (o quasi) in italiano? Gli esempi sono innumerevoli, proprio perché stiamo massacrando la nostra lingua e le impediamo di sviluppare anche neologismi che abbiamo una radice latina, che risieda nella nostra tradizione, nella nostra letteratura.
I programmi televisivi sono stracolmi di parole inglesi: “Street food” fa più figo rispetto a “cibo da strada“. La sostanza non cambia, ma detto in italiano pare d’essere dei cani vaganti alla ricerca di un osso piuttosto che dei degustatori di piatti e pietanze tipiche di un territorio. L'”Happy hour” somiglia all’aperitivo ma non lo è: se tra le sei e le sette entri un bar e chiedi di bere, accompagnando il tutto con degli stuzzichini, e il prezzo è minore rispetto al resto della giornata e serata, allora sei dentro all'”ora felice“. Mode di mercato, mercati di mode. Un po’ tutto si mescola tra uno spritz e un negroni.
Ma la colpa non è solo di televisioni e giornali, di movide e raduni dei fine settimana (o bisogna dire “week end“?) che furono, visto che oggi è giustamente tutto chiuso (o quasi…). Se una data azienda si dà uno scopo, questo diventa subito una “mission” e il termine si rifrange e si moltiplica in ogni dove. Diventa di uso comune e surlcassa l’equivalente italiano.
Gli esempi, si diceva, sono innumerevoli: in economia vige l'”austerity“, giornalisticamente si parla di “background” quando si fa riferimento ad una doppia verità, a qualcosa di nascosto che traspare non lontano ma che si fa fatica a vedere (tradotto: “sullo sfondo“…); mentre un gruppo di ragazzi dediti al teppismo, al bullismo e alla prevaricazione dei coetanei non è più una “banda” ma una “baby gang“. Se ti trovi a teatro e vuoi guardare “dietro le quinte“, adesso puoi semplificare con “backstage” (va molto di moda anche nel mondo cinematografico. Il settore porno primeggia tra tutti a questo proposito. E non è detto che sia affatto un male).
Ma se stai aprendo un sito Internet e ti tempestano tante pubblicità, non rammaricartene: sono solo “banner“. Se fai una foto al tuo schermo, ecco che hai appena creato uno “screenshot“; se invece accendi il computer e hai Windows come sistema operativo (pardon… “software“), allora la “scrivania” su cui sono le icone è automaticamente il “desktop“. Impossibile sfuggire nella lingua parlata all’utilizzo di questi nomi tecnologici di derivazione inglese e americana, tanto che assume i connotati del ridicolo chiamare “scrivania” lo schermo del proprio “portatile” (“laptop“, per essere precisi!).
Se guardi tante serie televisive, beh, si alzano le mani e si espone bandiera bianca: un tempo si traducevano anche i titoli del telefilm (adesso “fiction“) e si faceva lo sforzo di chiamare le “soap opera” con il termine “telenovela” o “serie tv“; adesso ogni produzione che non sia italiana resta titolata in originale. Pochissime vengono italianizzate. Per alcune è anche lecito, visto che sono dei veri e propri “marchi” (ah già… sarebbero i “brand“): “Star Wars” è una di queste.
Ma i programmi televisivi importati dagli Stati Uniti, essenzialmente una sorta di tv spazzatura che costa poco, viene doppiata senza sostituzione dell’audio originale, solamente abbassato di tono, conservano tutti i loro titoli. Sono “format” e non si discute! Così “MasterChef“, “Bake Off Italy“, “X Factor“, “Guess my age“, “Deal with it“, “Food detective” e via di seguito…
Anche le reti televisive si fanno chiamare all’inglese: “Top Crime“, “Food Network” “Spike” come la proteina che dovrebbe inibire il coronavirus (si spera…), ed addirittura “Rai Premium” (mutuato dal latino “praemium“), “Rai Movie“, perché chiamarla “Rai Cinema” forse era impossibile (visto che è il settore della tv italiana che si occupa proprio di produzioni cinematografiche) o troppo fuori moda…
Tant’è vi basti. Ma la ragione di questa penetrazione degi anglicismi nella nostra lingua non è databile all’oggi: certo, vi è stata una clamorosa impennata nell’utilizzo di termini estranei all’italiano nella quotidianià di tutte e tutti noi. La globalizzazione si trascina appresso anache questi effetti: soprattutto nel campo delle merci, degli affari, dell’interazione comunicativa che passa per le nuove tecnologie che hanno brevetti americani, inglesi, giapponesi e cinesi. La lingua universale non è più il latino che si usava – insieme al greco – nell’Impero Romano. Eh no. Rassegniamoci: l’inglese non lo ridimensionato nemmeno il Covid-19 e si è preso pure molte definizioni dell’italica “La Settimana enigmistica“… Non c’è niente da fare…
Le lingue, del resto, evolvono, si trasformano necessiramente perché sono parte viva di noi stessi e mutano col mutare delle esistenze di interi popoli che non devono vivere in bolle autarchiche su piano comunicativo: se ci chiudessimo alle influenze esterne alla nostra lingua, faremmo un danno peggiore ancora rispetto a quello che un po’ tra il serio e un po’ tra il faceto si è discusso in queste righe.
Ogni lingua è figlia di altre lingue, di mescolanze secolari: dal latino all’italiano passando per il volgare fiorentino e tante cromature fonetiche che sono quella meraviglia di profondità culturale chiamata “dialetto“. Non deve nemmeno essere una gara di sopravvivenza, uno scontro tra nazioni: chi scomparirà per primo? L’italiano, l’inglese, il francese. Chi assorbirà per primo l’altro e dominerà sul resto del mondo come lingua universale?
Ciò che preme è preservare una cultura: esattamente come è stato fatto con il latino, con il greco antico. Una lingua può anche morire, ma vive nel tempo se le viene riconosciuta una dignità legata al Paese in cui è nata, si è diffusa e successivamente ridimensionata. E’ la mortificazione della nostra lingua che non è accettabile: quando abbiamo un termine per esprimere un concetto, usiamolo. E’ uno sforzo di evitamento di semplificazioni che finiscono per influenzarci anche socialmente e renderci passivi piuttosto che attivi protagonisti di un rinascimento culturale dell’Italia.
Nessun nazionalismo, nessuna magniloquenza. Solo, non rassegniamoci così repentinamente, senza nemmeno batterci un poco.
Proviamo a scrivere in italiano quando è possibile. Ed anche a parlare in italiano. Potrà appaire fuori moda, sarà anche supponenza linguistica: facciamoci tacciare di arcaismo, di conservatorismo linguistico. Va bene. Ognuno si comporti come meglio crede, ma non regaliamo proprio tutto alla globalizzazione. Già le consegniamo le nostre vite materiali, almeno che ci resti qualcosa, anche fosse soltanto una ultima parola.
MARCO SFERINI
12 novembre 2020