L’insidiosa “politica della credibilità”

Dopo “libertà“, “governabilità” e “modernità“, se facessimo una classifica dei termini più usati e abusati nel dibattito politico e sociale del Paese troveremmo la parola “credibilità“. Non esiste forza...

Dopo “libertà“, “governabilità” e “modernità“, se facessimo una classifica dei termini più usati e abusati nel dibattito politico e sociale del Paese troveremmo la parola “credibilità“. Non esiste forza politica che non manifesti la propria intenzione di essere e rimanere “credibile” davanti all’intero popolo italiano: si tratta di un certificato di comprovata attendibilità, un sigillo di garanzia che vuole esplicitamente dire: «Caro cittadino, di noi ti puoi fidare». Il che riecheggia la celebre canzone sul Gatto e la Volpe di collodiana memoria. Si sa come andò a finire per il povero Pinocchio: chi promette una Italia come un Campo dei Miracoli è un disonesto. Almeno intellettualmente e politicamente parlando.

Ma la recidività popolare è un fenomeno che si ripete nel tempo, soprattutto se si tratta di sperare, di affidarsi all’impalpabile, persino all’inconoscibile, quando non rimane altro se non lo sguardo mezzo all’orizzonte e mezzo in alto, come se una preghiera laica alle istituzioni rappresentative fosse l’ultima sponda possibile cui aggrapparsi per vedere un poco migliorata la propria vita. Speranze spesso deluse da una agenda della politica che nelle pagine ufficiali elenca tante buone intenzioni e moltissime ottime promesse e che, capovolto il libretto, mostra il suo vero volto nell’elencare tutti gli interessi privati e tutti i privilegi da mantenere mediante il dispendio di risorse pubbliche, poggiandosi sulle poche forze statali che invece sarebbero dovute andare a sostenere le casse delle previdenze sociali, non solo pensionistiche…

La credibilità istituzionale, ed anche quella delle forze politiche (siano essere partiti o movimenti, leghe o fratellanze), non può avere un credito infinito da parte della popolazione: va verificata sul campo, quotidianamente e nel più lungo periodo nell’arco di una legislatura soprattutto se si tratta di forze di governo, di forze che stanno in maggioranza. Ma la credibilità, declinata da caratteristica esclusivamente personale a elemento di giudizio collettivo su organizzazioni altrettanto collettive, non può essere solamente riferibile all’azione pragmatica, alla gestione dei poteri dello Stato: significherebbe snaturarla e toglierle quella cornice etica che deve poter conservare e che le deriva da una valutazione molto più ampia, fatta di aderenza delle proprie idee, delle proprie ideologie alla concretizzazione fattiva nell’attività istituzionale.

A meno di non essere un circolo culturale o un partito extraparlamentare – che pure, se vogliono essere credibili, devono essere coerenti “tra il dire e il fare” – progetti di trasformazione della società devono anzitutto essere realizzabili se si vuole parlare di “politica”, vera e non astrattamente idealistica o, peggio, opportunistica. La concretezza, in questo caso, è frutto di analisi compiute, di ricerche e di studi che devono essere atti a confutare altre tesi e a controbatterle, a rivoltarle e rivoluzionare quindi il modo di pensare delle persone cambiando il loro modo di vivere (o di sopravvivere).

E’ una delle scoperte che Marx fa nel corso della sua straordinaria esistenza: quella coscienza umana che dipende più che altro dallo stato economico dell’individuo, dal suo rapporto di “essere sociale” e anche di uomo politico se invece il discorso verte sul terreno del confronto delle idee che, dunque, difficilmente possono essere astratte, quindi decontestualizzate e quasi trascendenti la realtà in cui fermentano e danno vita a costrutti ben più complessi di elaborazioni tanto teoriche quanto pratiche.

Non si tratta, infatti, di fare della credibilità politica un paradigma di incorruttibilità quasi giacobina (anche se non è affatto disdicevole augurarsi che ciò possa avvenire e ripetersi, se non altro come recupero di un’etica della politica oggi molto logora e cenciosa…): ma è pure vero che allontanarsi molto da rapporto di causa-effetto tra credibilità ideale e credibilità materiale, finisce col compromettere la credibilità oggettiva di questo o quel soggetto politico, di qualunque persona che voglia fare politica e impegnarsi nella risoluzione dei problemi che rendono inattuabile gran parte della nostra Carta fondamentale e, quindi, dei suoi princìpi egualitari.

Parlare della credibilità della politica, esaminandola meticolosamente e disarticolandone le varie sfumature nel confronto con l’oggettività del contesto in cui viviamo, sembra davvero discutere e scrivere di un argomento iperuranico, di un senno di Orlando da recuperare su una Luna ancora più lontana della nostra, visto che nella vulgata diffusa da un populismo cialtrone e ipocrita – capace dei più repentini trasformismi nel nome della “coerenza“! – è più che altro una aspirazione, una tendenza, qualcosa di non mai completamente raggiungibile. Una inarrivabilità strutturalmente endemica della democrazia che, si sa, è imperfetta perché riflette in sé tutte le differenze necessarie insite nella società, nel popolo e, pertanto, ancora di più in un mondo diviso in classi sociali (negate ufficialmente da quello che oggi verrebbe anglosassonicamente definito il “mainstream” del pensiero economico), è destinata a soggiacere alla dittatura del necessario, dell’utile, del pragmatismo a tutto tondo.

Si è pertanto “credibili” se si è sufficientemente servitori di due padroni: dell’idea alta di democrazia repubblicana che sfiora il libertarismo, che vorrebbe potersi elevare ad altri livelli ed emergere sopra la mediocrità di Stato; e della severità di una concretezza che non si vuole separare dalle idee ma che rimane in contrapposizione unitaria rispetto a loro. Senza progetto non c’è edificazione, ma senza la mediazione economica tra i due punti, di partenza e di arrivo, di elaborazione e di realizzazione, non si può né pensare e tanto meno mettere in pratica.

Fin qui la credibilità intesa in chiave meramente politica, declinata, per l’appunto, al fine di accreditarsi presso il consenso popolare interno ad uno Stato e presso quello estero delle cancellerie governative e dei grandi luoghi di gestione dell’economia sovranazionale. Questo tipo di credibilità politica potrebbe essere generosamente definita: “politica della credibilità“, sciogliendo qualunque dubbio sull’innocente ipotesi che sia scindibile dall’esercizio del potere anche un esercizio di cura continua del tasso di credibilità su cui si può fare conto per poter portare avanti le proprie politiche di governo ed anche, perché no, le proprie rivendicazioni all’opposizione per arrivare un giorno a sostituire – del tutto democraticamente – coloro che nel presente si trovano alla guida dello Stato.

Se la “politica della credibilità” è un indispensabile costrutto immateriale – che ha tuttavia bisogno di molti milioni di euro per potersi sostenere nel tempo e per poter a sua volta sorreggere l’impalcatura della retorica che gli sta sul groppone -, la vera credibilità per la politica e della politica stessa, che vuole recuperare la sua anima persa nei tatticismi dell’interesse privato, nel soppiantare il benessere comune e sostituirlo con la Repubblica variabile dipendente dalle fluttuazioni dei mercati, ha l’imperativo categorico di sovvertire le regole di un gioco perverso, che fa deviare dai buoni propositi e avvelena i pozzi della comunicazione, diffondendo non tanto le “teorie del complotto“, quanto racconti veramente tossici di una involuzione sociale causata da tutto e tutti tranne che dai veri protagonisti della crisi globale.

Ancora maggiormente in tempo pandemico, una credibile politica è quella che viene costruita con la lentezza del confronto dal basso, mettendo a confronto le contraddizioni più evidenti e quelle più reticenti e nascoste di una critica sociale che, da sinistra, fa veramente fatica a ridefinirsi, a riproporsi, a rimettersi in gioco, a riprendere un contatto con il suo popolo di riferimento. Non necessariamente con “tutto il popolo“: anche questa formula ipocritamente interclassista va esclusa persino dal linguaggio che adoperiamo per riflettere sulle tante, troppe nostre manchevolezze come comuniste e comunisti moderni, nel pieno della fase liberista, nel pieno della pandemia da Covid-19. La totalità è solo retorica, perbenismo politico, è – guarda caso! – “politica della credibilità“: il rivolgersi coram populo a tutto il popolo per fargli credere di essere interamente oggetto di interesse di un percorso riformatore che migliorerà la vita di ciascuno e di tutti.

La “politica della credibilità” induce alla credulità popolare, al disincanto davanti alle tante difficoltà che paiono sempre più insormontabili. E’ pubblicità ingannatrice (ammesso esista una pubblicità assolutamente veritiera…). Se vogliamo invece essere per davvero credibili, ed anzi “creduti“, dobbiamo scegliere la parte e non il tutto. Il primo passo per una nuova sinistra di alternativa è il particolare sociale e non l’universale popolare. Sulla semantica ci si può sempre confrontare dialetticamente: cosa sia “popolo” per i moderni anticapitalisti e su cosa sia per i moderni fautori dell’economia di mercato. Ma la politica credibile non sarà mai davvero tale se non saremo prima di tutto noi ad essere consapevoli di ciò che vogliamo essere e di coloro che vogliamo (forse un po’ presuntuosamente) rappresentare.

MARCO SFERINI

28 marzo 2021

Foto di Hans Braxmeier da Pixabay

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