Sette ragazzi hanno violentato una ragazza. A turno. Dopo una serata che sembrava tra amici. Lei ha opposto resistenza, ha urlato, ha detto loro che non ce la faceva più, che si sentiva svenire, crollare. Ma loro niente. Hanno continuato, come un vero e proprio branco di belve selvagge, molto peggio della ferocia che possiamo immaginare nella natura di un predatore.
Hanno filmato il tutto, ed è la sola cosa involontariamente buona che hanno fatto. Per aiutare le indagini, per fornire alla giustizia la quasi flagranza di uno stupro di gruppo, ammesso da uno di loro, descritto come tale. La ragazza ha continuato a chiedere una sorta di pietà: «Basta, basta, basta…». Non si sono fermati. E l’hanno incalzata dicendo che ce l’avrebbe fatta, mentre si davano il cambio in quella orribile violenza.
Non uno spiraglio di umanità, non un anche breve istante di empatia, del riaversi dal torpore di una coscienza che ha lasciato facilmente il posto alla brutalità di una voglia che diventa magari ossessione, primitiva istintività, niente comunque a che fare con l’amore, i sentimenti, il desiderio più bello e sincero. E’ successo a Palermo, qualche settimana fa. E succede ogni giorno.
Donne vittime di violenze inaudite: dalla violazione dei loro corpi alla morte. Spari, coltellate nella schiena, soffocamenti, sequestri, molestie persino in mare. Qualche giorno fa un ventiquattrenne egiziano in vacanza in Liguria, avvicina una coetanea o quasi. Lei lo respinge garbatamente, dicendogli che è fidanzata. Lui insiste, persiste. Inizia a palpeggiarle le natiche, la accarezza. Lei si dimena. Lui la trascina al largo e la separa dai suoi amici.
Lì, per la paura anche di affogare, la ragazza si dimena meno, lui continua a toccarla, arriva alle parti intime e lei ha uno scatto più forte che fa accorgere di quanto sta accadendo un suo conoscente che è sulla riva della spiaggia. E’ lui a salvarla e a riportarla ai bagni. Per ore a lei e ai suoi amici non viene in mente di andare dai carabinieri. Devono ancora capire bene, realizzare quanto accaduto. Poi lo fanno. Denunciano. E il giovane egiziano viene arrestato a Torino, dove era rientrato dalla vacanza.
Nel 2008 due diciannovenni fanno sesso con una loro amica. Uno di loro ha anche avuto in precedenza una storia con lei. La ragazza è ubriaca, ma dice loro di smetterla. Loro non la finiscono e lei poi denuncia lo stupro. Ma per il giudice tutti quanti, lei compresa, avevano «una concezione assai distorta del sesso» e quindi, in considerazione di ciò sono stati dichiarati non punibili «per errore sul fatto che costituisce il reato».
In sostanza, lei non avrebbe fatto capire compiutamente ai suoi amici che non voleva avere rapporti sessuali, nonostante avesse più volte ripetuto loro di smetterla. E’ la questione del consenso. Se non c’è, non può che essere violenza e, nel caso si verifichino determinati rapporti, ovviamente stupro. I ragazzi affermano di non aver capito che lei non voleva fare sesso e quindi hanno agito di conseguenza.
Il diritto romano recita: «In dubio pro reo». E siamo perfettamente d’accordo. Ma come bisogna esprimere, anche se si è ubriachi e si hanno perso i freni inibitori, un dissenso, una contrarietà? Non è sufficiente dire a chi ci sta intorno e ci tocca, ci palpa di smetterla? Servono atteggiamenti e parole molto più perentorie da aggiungere a quell’imperativo? E’ probabile, ma è anche assai presumibile che si sia davanti ad una interpretazione dei fatti inquinata da una ambiguità registrata in una condizione particolare.
Tuttavia, se una ragazza o un ragazzo ti dicono di smetterla di infastidire, di toccare, di fare apprezzamenti, se l’altra o l’altro non smettono, già lì è ravvisabile una molestia.
Ma, in merito, c’è tutta una vasta, degradante, desolante, deprimente letteratura giornalistica che reclama invece il diritto dell’uomo di provarci, proprio in segno di apprezzamento delle forme femminili. Sarebbe una specie di elogio della bellezza fatto con parole o gesti che invadono quella bellezza stessa, che la costringono ad accorgersi di una sorta di atteggiamento seduttivo che va ben oltre l’arte della seduzione.
Eppure, fior fiore di commentatori affermano che bisogna, nonostante tutte le violenze quotidiane contro le donne, contro le persone LGBTQIA+, contro chiunque si trovi in una condizione di possibile discriminazione, stabilire un confine tra la liceità dello sguardo penetrante e seducente, della carezza fatta quasi con efebica innocenza, della parola detta e ridetta per far capire l’interesse e la molestie vera e propria che viene rappresentata quasi esclusivamente dalla materialità del comportamento.
Insomma, magari la cosiddetta “mano morta” oggi è entrata nel perimetro del non consentito, ma l’insistenza e la costrizione anche meramente psicologica indotta da una serie di attenzioni che diventano fin troppo evidenti, dovrebbero invece essere permesse come metodo del Casanova o del Dongiovanni modernamente inteso.
Sulla stessa falsariga si può discutere se dire “Basta!“, “Smettila!” è sufficiente per avere giustizia dopo uno stupro, oppure se bisogna dire perentoriamente “NO!“, facendolo intendere come premessa della contrarietà quanto però qualcuno le mani già le ha allungate. E’ difficile immaginare che una ragazza dica di smettere ad un amico di fare qualcosa se quel qualcosa ancora non è stato fatto. Dovrebbe essere telecinetica, leggere nel pensiero, avere premonizioni e prefigurarsi ciò che sta per avvenire.
La violenza contro le donne è sempre riconducibile al possesso. L’uomo pretende di avere o di continuare avere (come nei tanti casi di femminicidi che ingrigiscono le cronache del Bel Paese) il controllo sui propri desideri che si scindono da una condivisione sentimentale, da una comunanza di rapporti. Vale solo il criterio proprietario e imperativo del maschio sulla femmina, dell’uomo sulla donna, del marito sulla moglie.
Chi pretende di essere amato non ama; chi vuole dominare non ha la benché minima intenzione di condividere una relazione, ma la impone, la fa subire e mette in essere un corto circuito perverso in cui la fuga per riaffermare i propri diritti di donna, i propri stati d’animo, la propria libertà sono vissuti come un tradimento.
Il patriarcalismo, del resto, è piramidale, non è riformabile in chiave democratica, egualitaria. E’ diseguale per natura, per concezione, per trasposizione nella concretezza quotidiana.
E’ una monarchia dell’individuo maschile che esercita il suo volere sulla compagna, sulla fidanzata, sulla moglie, sull’amante. L’incertezza che seguirebbe all’abbandono, come diritto di scelta esercitato dal partner, significherebbe ammettere che non possiamo controllare tutto e tutti e che, quindi, come accade di innamorarsi così succede che l’evoluzione di quei sentimenti porti alla fine degli stessi.
Chi non accetta rifiuti, sia che si tratti di un “NO!” ben urlato davanti ad un predatore che vuole solo fare della donna un oggetto di piacere, sia che si tratti di un marito geloso o timoroso di essere colpito nella sua virilità dalla sindrome dell’abbandono, si predispone ad agire violentemente. Non c’è spazio per il convincimento dell’altro o dell’altra. Non c’è riconsiderazione. Soprattutto se il marito è un violento, se ha dato anche solo uno schiaffo alla moglie.
La donna ha ogni diritto. Sul suo corpo, sui suoi sentimenti, sui suoi desideri. E non deve sentirsi da sola in questa difesa di sé stessa e di un universo femminile che viene lasciato in pasto alle critiche più becere e all’oblio da parte dello Stato nella tutela, nella protezione materiale di sé stessa e anche dei suoi figli.
Tutto questo accade perché ancora si pensa che una parte di responsabilità femminile: se si viene violentate sarà certo stata colpa anche della minigonna che ha indotto il maschio a penetrare con gli occhi la donna prima di metterle le mani addosso. Oppure sarà di sicuro perché la ragazza ha bevuto troppo e, per questo, si è lasciata andare alla disinibizione. Così tanto da ammettere, col suo comportamento, di essere condiscendente ad una violenza di gruppo…
Se una donna viene uccisa, qualche provocazione ci sarà pure stata. Mica il maschio, mica l’uomo tutto d’un pezzo, irreprensibile marito e padre, ha potuto sbroccare così tanto da dimenticare doveri, diritti, valori in un solo, minuscolo, preciso istante…
La donna, a prescindere, deve sobbarcarsi una parte della colpa, altrimenti questa società ancora fortemente maschilista e patriarcale non saprebbe come sopravvivere a sé stessa nella vergogna di riconoscersi in quanto tale. Ammesso che abbia una anche sola timida parvenza di coscienza singolare e collettiva per poter esercitare un’autocritica in merito. La donna, così, diviene vittima due, tre, tante volte: deve avere paura di denunciare, perché i primi a mettere in dubbio il suo racconto saranno quelli che la dovrebbero invece proteggere.
La Giustizia, lo Stato, le Istituzioni, la Famiglia, i Parenti, gli Amici.
Tutti con la maiuscola iniziale, quelli per antonomasia. Tutti coloro che ci sono intorno, che lo vogliamo o no. E che il sodalizio di un buon senso comune riporta all’esercitazione muscolare del dubbio come fenomeno di cautela preventiva, come elemento chiave per stabilire una equidistanza che è un’altra coltellata, un’altra penetrazione lacerante, un altra sequela di ingiurie che tracciano nella profondità dell’inconscio delle ferite indelebili.
Troppe ambiguità e confini flessibili, cedenti ad un interpretazionismo cavilloso, tipico dei legulei che non si fanno scrupoli a sottrarre il giusto dalla pena che dovrebbero scontare giovani ragazzi che violentano le donne e che i genitori difendono senza il minimo dubbio. Perché erano anche loro ubriachelli, alticcetti, con ancora l’odore della marijuana addosso. So’ ragazzi! Mentre i mariti assassini, so’ stati provocati.
La donna c’avrà avuto un amico e il marito s’è ingelosito, se l’è presa a male e ha reagito “di conseguenza”. Ecco, si è trasformato in un assassino perché non poteva fare altro. La conclusione diventa questa: l’uomo è spinto dalle circostanze ad agire così. La donna è spinta dalle sue colpe a subire tutti questi rapporti fittizi tra causa ed effetto che, tragicamente, si concretizzano in lame che entrano nei corpi già martoriati dallo stalkeraggio, dalle minacce, dalle urla.
Le ragazze sbattute a terra e violentate in gruppo dal gruppo, sono l’immagine sfigurata di una morboso, primitivo accanimento del forte contro il debole. Una legge tanto cara a chi sognava di dominare il mondo sconfiggendo quelli che non avevano alcun diritto di vivere, perché una selezione naturale lo avrebbe in qualche modo previsto. Lo sostenevano i nazisti nei confronti dei popoli slavi, di quelli dell’est europeo, di chiunque non si irregimentasse nel nuovo ordine politico e sociale.
Ma, senza scomodare il dottor Goebbels o Hitler in persona, qui è sufficiente prendere atto che la potenzialità dell’atto di violenza e di sopraffazione nei confronti di un individuo indifeso è la dimostrazione della lunga strada che deve fare la Cultura (con la ci doverosamente maiuscola) per indurre all’esame interiore e alla correlazione col resto della quotidianità in cui si vive ogni persona. Solo quando ci si abbandona alla superficialità, alla banalità si conosce intimamente il male.
Che non sembra così terribile. Perché finisce col coincidere con l’istinto e, per questo, è indistinguibile da noi stessi, e si sovrappone al limite etico che ci poniamo quando ci domandiamo se una cosa si può fare o meno.
Qual’è il metro di giudizio? Kant ce l’ha spiegato: l’universalità. Se qualcosa è possibile per tutti nel rispetto dell’individuo e della comunità, allora è fattibile. Ma se ciò che si sta per fare lede la volontà di un nostro simile (verrebbe da dire anche dei nostri amici animali, tutti quanti, e del mondo naturale), oppure dà seguito ad un effetto che crea un impoverimento, un nocumento generale, allora non può essere utile e quindi è dannoso.
Dobbiamo ritrovarci in una condivisione culturale, sociale, civile e morale in cui il punto di vista universale, il bene comune e del singolo, coincidano e permettano di mettere da parte il senso proprietario che abbiamo innatisticamente da una nascita in un mondo in cui tutto è merce, tutto è di qualcuno o di qualcosa.
La proprietà in quanto diritto sociale e collettivo è certamente una responsabilità di tutti e deve essere un punto fulcrale su cui far poggiare l’armonia di una comunità. La proprietà di qualcuno su qualcuno, sia che si tratti dell’operaio che lavora in fabbrica, sia che si tratti della moglie che deve fare ciò che vuole il marito, non è mai buona e dal suo esercizio non viene fuori nulla di conveniente per chiunque, per ognuno.
E’ difficile che una nuova cultura sui diritti delle donne si possa fare largo in un mondo in cui si tende a leggerne i presupposti come dei capricci trascurabili, delle ostinate femministiche puntalizzazioni, tipiche di chi vuole fare le pulci su ogni cosa, spaccare il capello in quattro, comportarsi come una specie di esegeta noioso e ripetitivo.
Ma senza un cambiamento strutturale, che parta dalla messa in discussione del concetto di “proprietà privata” su cose ed individui, non si potrà mai arrivare alla fine del patriarcalismo, del maschilismo alimentato tanto dalle religioni del passato (e del presente) quanto da un laicismo statalista che coltiva la tradizione come fondamento di sé stesso e del potere che, nonostante la Costituzione, è – come diceva Giordano Bruno – una illusione pensare possa mettersi in discussione e ridimensionarsi.
Questa interdisciplinarità dei temi e dei problemi economici, politici e sociali è necessario che sia vista e riconosciuta da una classe dirigente progressista. Quella che oggi non c’è e che, qualora dovesse tornare ad esserci, non può pensare di affrontare il problema dei femminicidi e delle violenze sulle donne, sulle persone LGBTQIA+, su qualunque minoranza oggi stigmatizzata in quanto tale, se non creando i presupposti su vasta scala per una messa in discussione del sistema capitalistico.
Sessismo, maschilismo, omofobia, razzismo, negazionismo storico, ambientale e climatico sono tutti quanti prodotti di questa strutturazione economico-finanziaria, di questo suo adeguare le politiche degli Stati ad un regime in cui la proprietà privata è prevalente, sul piano etico-politico-antisociale, rispetto a quella pubblica.
Qualcuno, che aveva un sorriso dolce e a volte appena accennato, diceva: ci si salva se si va avanti e si agisce insieme e non solo uno per uno. Questa, come tutte, è una lotta di tutte e di tutti. Non solo delle donne. Non solo delle donne vittime delle violenze. E’ una lotta che va compresa, condivisa, fatta propria, sentita come parte essenziale di un rinnovamento prima di tutto interiore. Un cambio di mentalità, una differente visione globale di ciò che ci attraversa ogni giorno.
Questa è una lotta che riunisce psiche e corpo, che li compenetra e li mette sullo stesso piano. Perché l’una non prevalga sull’altro irrigidendone la muscolarità e i movimenti liberi; perché l’altro non imbrigli di sola sensibilità materiale la prima, impedendole di dimenarsi criticamente in mezzo a tante certezze. Lasciando che un po’ di polvere venga sollevata sempre perché qualche ingranaggio si inceppi e qualcuno vada a controllare se c’è qualcosa che non va.
MARCO SFERINI
20 agosto 2023
Foto di Alycia Fung