Non se ne parla ormai quasi più, eppure ciò che trapela dalla guerra di Israele contro Gaza e contro i palestinese dovrebbe fare ogni giorno notizia, perché quello che accade è di una gravità sempre più inaudita. Ma, se chiodo schiaccia chiodo, notizia surclassa notizia e, quindi, dopo un po’ di giorni, settimane e mesi, anche i conflitti più cruenti finiscono via via nelle pagine sempre più interne dei quotidiani, al fondo delle pagine Internet, negli ultimi servizi dei telegiornali.
Dura legge dell’attualità dei fatti: l’informazione premia ciò che in quel momento essa stessa crea come notizia e, quindi, alterando una classifica di importanza di ciò che avviene nel mondo, decide quello che noi lettori, spettatori e navigatori dobbiamo sapere sul momento. Vero è che non risulta semplice stare dietro a tutto ciò che quotidianamente succede in ogni dove nel pianeta.
Ma vero è altresì che vi sono problematiche che rimangono attuali a lungo perché oltrepassano i confini ristretti delle nazioni e sono dilemmi epocali che, un giorno, saranno scritti nei libri di scuola e riportati negli atlanti storici dove prendono posto quelle cartine di fatti che, per l’appunto, hanno determinato un passaggio da un momento ben preciso della vita di miliardi di esseri umani ad un altro momento con caratteristiche sociali, politiche e soprattutto economiche profondamente diverse.
Tra il prima e il dopo, dunque, sta una linea di separazione che è tracciata anche dalla penna dei commentatori e, più ancora, dall’incrocio delle esperienze degli inviati sul campo o dalla prova del nove di una informazione il più aderente alla realtà tramite il confronto necessario tra le diverse opzioni che i canali di diffusione delle notizie offrono. Tenendo conto, si intende, delle posizioni in campo e delle influenze che esercitano direttamente o meno.
La guerra di Gaza, quindi, oggi sembra sparita dalle prime pagine, eppure c’è. La guerra in Ucraina ci viene ricordata solo quando al G7 si concedono altri cinquanta miliardi di dollari di rifornimenti di armi a Kiev; per il resto è lo stanco seguitare di un bellicismo che da oltre due anni imperversa quasi nel cuore dell’Europa e che influenza le nostre esistenze dal carrello della spesa fino al distributore di benzina.
Del biennio pandemico non si poté non parlare e scrivere quasi quotidianamente, perché tutte e tutti eravamo immersi fino ed oltre il collo nella tragedia del coronavirus arrivato dalla Cina in Europa prima e nel resto del mondo poi. Ma le guerre, a meno che non siano appunto – come quella della Covid-19, in casa nostra e ci riguardino direttamente mettendo in pericolo la nostra esistenza, si può anche non discutere per qualche tempo. Magari non facendo finta che non ci siano, ma obliandole.
Subentra qui un istintiva tendenza all’assuefazione delle notizie che, oltre tutto, non è poi così ingiustificata vista la mole davvero ciclopica, titanica e pantagruelica di vere e false informazioni che si tramutano in meme internettiani incessantemente vomitati da una rete che è utilizzata malissimo e, per questo, funzionale a tanti propalatori di piccoli e grandi revisionismi quotidiani a cui veniamo abituati e che non ci indignano più di tanto.
Pochi giorni fa c’è caduto chiunque, o quasi, di noi che ha sempre avuto una grande ammirazione per Noam Chomsky. L’illustre linguista americano, interprete di un pensiero politico libertario e, dunque, socialista, malato da tempo, ricoverato in un ospedale brasiliano, è stato dato per morto. Nessuna fantasia di complotto, nessuna ipotesi su questo piano: forse la distrazione esagerata di un cronista entusiasta di avere tra le mani lo scoop del giorno.
Sta di fatto che sul “Corriere della Sera” online appare la notizia e, inevitabilmente, inizia a fare il giro dei social. Si cercano foto del professore, le si caricano su Facebook, Instagram, X e si correda con un ricordo affettuoso. Poi, nemmeno venti minuti dopo, colpo di scena. Noam Chomsky meglio di Gesù Cristo: risorto in questi atroci tempi moderni da cui è difficile anche uscirne morti. Meglio così. Lunga vita ancora ad una delle migliori menti esistenti.
Allora si corre un po’ tutte e tutti ai ripari: si cancellano i post, si informano i propri contatti, ci si scambia sulle chat di Whatsapp qualche frase al riguardo, si smentisce due, tre, quattro, cento volte per chiunque ancora chieda se la notizia era vera o falsa. Il fatto singolare è che non si è trattato di una classica fake news perché, effettivamente, le premesse c’erano tutte per credere alla dipartita di un quasi centenario intellettuale iperprogressista.
Come si usa dire, gli abbiamo allungato la vita un po’ tutti. Evviva. La velocità con cui le notizie circolano è impressionate. Prima di subito, quasi un ante litteram dell’ante litteram stesso. E, mentre siamo alla ricerca di ciò che è avvenuto pochi secondi prima magari a migliaia e migliaia di chilometri di distanza da noi, non ci accorgiamo che quello stesso sistema informativo globale dimentica ciò che ancora è, o per meglio dire dovrebbe essere, una delle notizie più gravi.
La guerra di Gaza, dunque. Le guerre in generale. Tante, troppe. Ogni crisi dell’oggi è veramente totalizzante. E non solo perché l’interconessione fa parte strutturalmente della globalizzazione capitalistica e liberista, ma soprattutto perché non possiamo dire in nessun momento della nostra esistenza di poterci astrarre in parte e tanto meno del tutto dalle ricadute globali sul locale.
Invero, temi non affatto trascurabili occupano la scena della politica e della società italiana: dalla questione delle controriforme incostituzionali sul premierato e sull’autonomia differenziata alla tragica vicenda di Satnam Sing che si tenta già di minimizzare dalle parti del governo riducendola ad un caso isolato di estremissima crudeltà. Come riuscire, quindi, a tenere alta la soglia dell’attenzione pubblica su una fittissima rete di problematiche che non hanno l’una nulla da invidiare all’altra in quanto a gravità e grevità?
Non esiste, probabilmente, una risposta sola a questa domanda. Ma deve poter essere in qualche modo utile porsi il quesito. Non fosse altro per tentare di trovarla quella risposta. Certamente arrampicandosi anche sugli specchi, scivolando molte e molte volte, ma con la consapevolezza di non lasciare indietro niente e nessuno. Si tratta di tematiche che fanno sentire piccoli, piccoli, tapini e meschini. Per impotenza, ma anche per insopportabilità.
Non è psicologicamente facile tradurre in pratica sociale gli istinti di giustizia, di liberazione, di pacifismo, di antimilitarismo, di difesa dei diritti di ogni tipo in una Italia in cui predomina la differenza come esaltazione accecante dell’esclusivismo, come separazione invece che valorizzazione, come distinzione negativa piuttosto che come valorizzazione delle peculiarità.
Non è nemmeno materialmente facile farlo, perché le organizzazioni politiche, sindacali, aggregative e culturali che esistono e che si ritrovano nelle piazze per difendere la Repubblica parlamentare, l’unità del Paese nell’uguaglianza dei diritti (oltre che dei doveri) sono da anni investite da una crisi di partecipazione che, tuttavia, non è riuscita completamente ad erodere il significato stesso del comunitarismo come elemento su cui costruire una nuova visione per il futuro.
Una visione che, necessariamente, include il superamento del melonismo e del governo delle destre-destre. Una visione che non necessariamente deve avere come centro di gravità permanente la funzione governista, ma la condivisione dell’analisi di base che porta ad un giudizio non critico, bensì allarmante, sulla presenza delle forze conservatrici e reazionarie a Palazzo Chigi e nelle Camere. Se da un lato, quindi, l’informazione che viene definita “mainstream” tende a vellicare il debolissimo senso critico civico-sociale, dall’altro lato la risposta non può essere una contrarietà a priori.
Il momento attuale impone il massimo dell’unità senza badare alle differenze ideologiche e più strettamente tattiche nell’immediatezza: un frontismo popolare si può realizzare senza per questo tradurlo in un qualche nuovo esperimento che alimenti una tendenza bipolarista che ha provocato solo enormi danni alla politica e alla società italiana.
Ma questo frontismo deve porsi come obiettivo anche la rottura dello schema disinformativo e, in particolare, dell’obliazione delle minoranze, di chi è costretto a stare sotto le soglie delle percentuali per accedere o meno ai seggi così di chi viene invece marginalizzato nella pratica quotidiana di una antisocialità che rimarca le differenze di classe senza renderle troppo alacremente evidenti.
Quando ci si riferisce alla questione tutta italiana, è evidente che si fa riferimento al modo in cui il nostro Paese porta in Europa la sua voce su tutti i temi che sono stati qui sopra enunciati. Sarebbe molto importante se una voce corale contro la guerra si facesse sentire in una modalità da intergruppo, in una condivisione di una avversione che parta dalle parole primarie: “Cessate il fuoco“.
Col passare dei mesi e, quindi, con l’aumentare delle atrocità perpetrate dal governo Netanyahu e da Tsahal nei confronti della popolazione palestinese, molti, anche nella sinistra moderata e nel centro, hanno smesso di credere e di far credere ai propri elettori che esistesse un diritto di Israele così spalmabile sul lungo periodo bellico a farsi giustizia per le atrocità del 7 ottobre 2023.
Gli ultimi attacchi alle sedi della Croce Rossa, i tanti morti fatti, l’assoluta indifferenza nei confronti dei più deboli, di chi già era in condizioni gravi ben prima della guerra, come i malati di cancro, i bambini con insufficienze respiratorie o altre affezioni, non fanno altro se non dimostrare l’assoluta urgenza dell’intervento della comunità internazionale a Gaza.
L’informazione mette in quarta fila tutto questo orrore, perché altri piccoli, meschinissimi orrori di casa nostra ci piombano addosso con una velocità tutt’altro che inusitata. Ma compito della sinistra di alternativa è anche questo: continuare a farsi portavoce e megafono dei più fragili e dei dimenticati. Dunque, proviamo a farlo.
MARCO SFERINI
22 giugno 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria